venerdì 19 giugno 2015

Antonio Conte e i problemi della Nazionale

Guidare la Nazionale italiana di calcio, per Antonio Conte, si è ben presto trasformata da nuova sfida stimolante a missione quasi impossibile. Vediamo perché.

di AER






Verso la fine dell'anno scorso, metà novembre del 2014, suonarono pesanti e allarmanti le dichiarazione di Antonio Conte, commissario tecnico della Nazionale. Conte si lamentava – un vero e proprio sfogo in realtà – della situazione della Nazionale italiana. La sua critica coinvolgeva tutti gli aspetti della gestione della Nazionale, dai principi generali come la quantità di tempo dedicato al lavoro con gli atleti a quelli più specifici come i valori umani e le dinamiche sociali all'interno della selezione azzurra.

Il calcio italiano, perfettamente identificato nella sua Nazionale, stava e sta attraversando un difficile momento storico e culturale. Cerchiamo di riassumere e analizzare i problemi sottolineati da Conte alla luce degli ultimi avvenimenti e delle ultime prestazioni.

Pochi potenziali azzurri nei principali club italiani
I principali club italiani, per valore storico e tecnico, non riescono, per necessità o per scelta, a puntare su calciatori italiani. La stessa Juventus, da sempre massimo serbatoio per la Nazionale, sta innegabilmente perdendo questa caratteristica considerando che consegna al c.t. cinque elementi di caratura tecnica sufficiente per una Nazionale competitiva: Buffon, Bonucci, Barzagli, Marchisio e Pirlo con tre/quinti di questi ormai francamente in fase calante a causa di un'età non più giovanissima. Inter e Milan sono praticamente nulle in questo. Personalmente ho qualche speranza di poter vedere Santon in azzurro in corrispondenza di una sua crescita a livello di esperienza nel club nonostante la sua inspiegabile sparizione dai titolari dell'Inter nell'ultima parte di stagione.
È emblematico che uno dei migliori terzini del campionato italiano, Darmian, non sia stato preso in considerazione né dalla Juventus, né dal Milan, né dall'Inter, né dalla Roma e né dal Napoli (le prime 5 "potenze economiche" della serie A). Sarebbe da evitare un caso simile a quello di Verratti, con le dovute proporzioni legate al differente valore tecnico tra i due.                                                                       


Scarsa organizzazione a livello tecnico e strutturale
I tempi e gli spazi per poter lavorare con la Nazionale non esistono. Non è che non esistono perché c'è qualcuno o qualcosa che si oppone alla loro organizzazione, semplicemente il nostro calcio appartiene alla "religione dell'improvvisazione e dell'arte dell'arrangiarsi". Lavorare con continuità a livello tecnico e tattico con la Nazionale è qualcosa di troppo rivoluzionario per il nostro calcio: pura utopia nei calendari affollati e caotici. In nessuna Nazionale si vede qualcosa del genere ma è tutto compensato da un lavoro di programmazione e di sviluppo applicato a tutto il corso delle Nazionali giovanili. Sarebbe interessante guardare i dati sui giocatori che esordiscono in Nazionale maggiore senza aver fatto tutta la trafila delle selezioni nazionali giovanili. Sono pronto a scommettere che la tendenza in Italia sia significativamente anomala rispetto al resto del Mondo e soprattutto a Spagna e Germania, ideali modelli di Nazionali vincenti dell'era moderna/contemporanea.                                                 



Mentalità dei calciatori di basso livello
Legato all'assenza di concetti quali "programmazione", "sviluppo" e "organizzazione" c'è il problema di mentalità dei calciatori. Questa problematica è costituita dall'intreccio di vari "microproblemi" che sommati rischiano di diventare un pesante handicap per un progetto ambizioso e vincente. 
Prima di tutto andiamo a considerare la "mentalità individuale" dei calciatori. Ad esempio: Zaza e Immobile, gli attaccanti più utilizzati della gestione Conte, hanno mai giocato per vincere veramente? La migliore stagione di Immobile è stata a Torino - obiettivo salvezza e poi quello che viene (qualificazione per l'Europa League) è tutto guadagnato – mentre Zaza è il punto di riferimento offensivo di una squadra di media classifica. Certo, è un discorso incompleto e all'apparenza debole direte voi, ma prima di andare a valutare il valore tecnico dei calciatori c'è da considerare che questi due atleti, come altri punti fermi della Nazionale attuale, non abbiano fatto lo step mentale decisivo, che prescinde dalle qualità tecnico-tattiche, per essere un valore aggiunto per una Nazionale di calcio - quella italiana – tradizionalmente vincente o almeno competitiva. 
C'è poi da considerare un problema di "mentalità collettiva" che deriva dal fattore ambientale cioè dalla Serie A. Il campionato italiano è poco "allenante". Non solo dal punto di vista degli avversari ma anche dal punto di vista interno. I calciatori sono poco stimolati a reagire a variazioni tecniche e tattiche, non si tende a mettere in discussione un principio di gioco o uno schema. Spesso la differenza tra vari moduli di gioco, in Italia, è rappresentata soltanto dalla diversa posizione in campo. Le differenze, per esempio, tra un 4-4-2 e 4-3-3 sono profondissime a livello di interpretazioni e decisioni individuali, a livello di movimenti collettivi, a livello di punti di riferimento, a livello di spazio e di tempo. Nello stesso modulo, poi, ci sono tantissime sfumature legate al tipo di giocatori e ai principi di gioco specifici. Non è un caso che le due più grandi potenze europee, Spagna e Germania (rappresentate dalla filosofia del Barcellona e dal precisissimo sistema delle Nazionali giovanili tedesco, rispettivamente), siano trainate da un'organizzazione che si fonda sull'allenamento dell' "intelligenza tattica" che si identifica e si esprime nella capacità di fare le scelte giuste durante i 90'. Per essere decisivi in Nazionale c'è bisogno proprio di questo: saper adattare le proprie qualità al resto della squadra. Non c'è il tempo e lo spazio per costruire un'intesa con i compagni basata sul continuo e giornaliero allenamento.



"In questo momento - sottolineava Conte - l'Italia fa fatica a sfornare talenti, e quelli che escono non hanno la giusta mentalità. Dobbiamo capire che viviamo un difficile ricambio generazionale e dobbiamo tornare ad essere umili, ad apprezzare l'importanza della fatica e del lavoro, necessari per diventare campioni. Se ci riusciremo, ci sono le premesse per crescere: altrimenti, sarà questo sarà solo l'inizio della fine".

Il lavoro e la fatica citati da Conte sono il simbolo di quella voglia di migliorarsi, di mettersi in discussione. Questi concetti coinvolgono tutto il movimento, non solo i calciatori che sono la parte più mediatica, immediata e visibile del sistema che c'è dietro di loro. 


mercoledì 17 giugno 2015

Parma, il miracolo al contrario


Tardo agosto, anno 2014.
Un'altra estate a numero pari volge al termine, un'altra estate che si è rivelata avara di gioie.

Gli "insopportabili" tedeschi si sono laureati Campioni del Mondo a discapito dell'Argentina eguagliando il numero di coppe mondiali vinte dall'Italia e relegando il tifoso azzurro ad altri quattro anni di "Remember, remember", con momenti che scorreranno nostalgici a sfogliare foto e ricordi di quel magico 2006.

Le immagini scorrono ancora lente, la mia sedia che vola al gol di Mario Balotelli contro l'Inghilterra rappresenterà solo una mera illusione che arriva poco prima di rituffarsi nel caldo afoso che porterà via gli ultimi stracci della Prandelliana memoria.




"Sfogliando" i titoli di un qualsiasi sito web che prova a far notizia con i migliaia di rumors di calciomercato è facile imbattersi in una curiosa notizia:

Sembra un errore di battitura ma non è assolutamente così.
Il Parma FC a fine campagna trasferimenti mette a referto quasi trecento trasferimenti, un processo avviato ad inizio anno e che ha coinvolto centinaia di calciatori perlopiù semi-sconosciuti.  

Il percorso è più o meno il seguente: il calciatore viene prelevato a parametro zero dal proprio club ed immediatamente girato in prestito altrove, il Parma si accontenta di un minimo indennizzo per la trattativa, anche il prestito gratuito è ben gradito purché il giocatore possa giocare titolare ed accumulare esperienza e valore. I giocatori vengono letteralmente spostati in giro per l'Europa, pochissimi di questi rimangono a Parma, la sommatoria dei vari movimenti genererà un introito di circa 11 Mln di euro ma diverse testate giornalistiche grideranno al miracolo, l'ennesimo genio tutto italiano che ha permesso al Parma di sopravvivere a questa campagna acquisti.

In questo modo arrivano alla corte dei ducali giocatori come Nicola Sansone, svincolato dal Bayern Monaco, ad esempio. 


Nicola Sansone con la maglia del Parma.


Mi colpisce subito come la Gazzetta dello Sport, che io ritengo una testata assolutamente autorevole, non tratti minimamente questo ''spinoso'' argomento: spinoso perché il Daily Mail raccoglie l'approfondimento di Repubblica, che a sua volta ha pescato a piene mani da stadiotardini.it per inaugurare il "mercato del bestiame", la riduzione di giocatori a semplici nomi, numeri, contratti di trasferimento che hanno un costo nullo per il Parma, che si augura di azzeccare una minima parte di nomi per trarne profitto.

Roberto Donadoni ignora tutto questo. Il tecnico lombardo è alla guida dei Ducali da già due anni e mezzo, dopo esser subentrato a Franco Colomba nel gennaio 2012, senza portare mai la squadra oltre al decimo posto in tre stagioni. 

Nel campionato appena concluso ha fatto ancora meglio: il Presidente Tommaso Ghirardi ed il DS Pietro Leonardi hanno allestito una rosa competitiva in cui spiccano i nomi di Antonio Cassano, Jonathan Biabiany, Gabriel Paletta e Marco Parolo; Roberto ha letteralmente cavato il sangue dalle rape, spremendo la squadra ed ogni suo componente centrando la qualificazione alla prossima edizione dell'Europa League, frutto di un dignitosissimo sesto posto che ha premiato il lavoro del tecnico e del suo staff.

Spicca però come il Parma abbia speso sul mercato: analizzando su transfermarkt.it il saldo delle sessioni di mercato dal 2009 (la stagione del ritorno in A dei gialloblu) ad oggi si evince che:

   2009/2010 - saldo positivo di 9 Mln
   2010/2011 - saldo negativo di 14 Mln
   2011/2012 - saldo positivo di 17 Mln
   2012/2013 - saldo negativo di 14 Mln
   2013/2014 - saldo positivo di 11 Mln
   2014/2015 - saldo positivo di 9 Mln

Insomma il Parma sa bene come operare sul mercato e trarre enormi vantaggi dalle cessioni dei suoi gioielli, la piazza rimane una meta ambita da giovani in rampa di lancio e gli operatori di mercato sanno come fare un buon mercato anche con risorse risicate. C'è davvero bisogno di questa considerevole mole di giocatori?





Mentre la stampa si chiede se forse Donadoni non sia stato troppo precocemente bocciato in Nazionale ed al Napoli esaltando l'intelletto e la sagacia tattica del tecnico bergamasco, mentre le prime sirene di calciomercato già aleggiano attorno ai prodotti della boutique del Parma, mentre Roberto ed il Parma si apprestano a godere di una meritata estate di riposo a termine dell'ennesimo campionato tranquillo, qualcosa si inceppa nel meccanismo perfetto della squadra gialloblù. O forse è meglio dire nel suo assetto societario, ripercuotendosi indelebilmente nella sua storia giudiziaria. 



Nel Maggio 2014 la UEFA non rilascia la licenza europea alla squadra romagnola: al 31 marzo risulta un ritardo di 300mila euro alla voce IRPEF e, dopo i ricorsi di routine, il massimo organo europeo si pronuncia con esito negativo e sottrae al Parma la preziosa qualificazione ottenuta sul campo.
Cerco di fare chiarezza e scopro che il Parma ha pagato dieci dei suoi giocatori considerando il tutto come un prestito di denaro ma la ditta di consulenza cui il Parma è affidato ha ratificato questo trasferimento di denaro come un anticipo di stipendio, dimenticando di versare quindi la quota IRPEF relativa al pagamento di tali stipendi. Apparentemente sembra una inezia, un errore burocratico.

In UEFA però forse avvertono già qualcosa e non vogliono rischiare di includere in una competizione continentale una squadra che, apparentemente pecca di problemi di comunicazione interni ma che di li a poco si imbatterà davvero in un tornado giudiziario incredibile.




Tommaso Ghirardi annuncerà le dimissioni il 30 maggio dello stesso anno, ritirandole in settembre e cedendo poi la società nel Dicembre dello stesso anno, il tutto sotto gli occhi della FIGC che non si lascerà minimamente impensierire dai tanti piccoli segnali che il Parma continua a fornire. Solo nella primavera del 2015 Ghirardi verrà inibito per cinque mesi a seguito dell'accusa di bancarotta fraudolenta.

La squadra però sta già disputando il suo campionato: nell'estate Donadoni ha provato, assieme al direttore sportivo Pietro Leonardi, a costruire una squadra che possa comunque affrontare la successiva stagione di Serie A provando a centrare nuovamente la qualificazione europea. Alcuni pezzi pregiati resteranno a Parma mentre in gennaio Leonardi si siederà addirittura al tavolo delle trattative con diverse squadre, riuscendo a portare in Romagna anche Cristian Rodriguez, fresco campione di Spagna con l'Atletico di Madrid e mentre i giornali esaltano questo immenso giro di trattative di cui sopra, che segna un record nella storia del calciomercato, nessuno degli organi competenti si interroga su cosa stia davvero accadendo a Parma.


Nel dicembre 2014 Ghirardi vende tutta la società ad uno sconosciuto gruppo Cipriota di nome Dastraso, che in poco tempo venderà ancora ad un'altra società, che di li a poco venderà di nuovo, alternando ben cinque presidenti in poco tempo, concludendo il suo giro nelle poco chiare mani di Tommaso Manenti. Il miracolo dei ducali si sgretola in una mezza stagione fatta di stipendi arretrati, mancati pagamenti di tasse e torbidi cambi di proprietà, in un eterno scarica barile al prossimo, fino al sopracitato Manenti. La FIGC in tutto questo aggrotterà al massimo un sopracciglio fino a quando il Parma non verrà dichiarato in bancarotta dando il via ad un surreale finale di campionato.





Si parla di 200 milioni lordi di deficit accumulato, 48 milioni di scoperto con le banche, 38 con i fornitori, 18 tra tasse e previdenza. Anche altri personaggi, fuori dal mondo del calcio, finiranno al setaccio della procura che proverà a dare una spiegazione di come questa squadra sia riuscita ad accumulare un debito così ingente in sole tre stagioni.

La squadra di Roberto Donadoni incomincia a perdere i pezzi già nella sessione invernale del campionato tra rescissioni legittimate dai mancati pagamenti ed improbabili cessioni a prezzi stracciati. Vengono a mancare i pilastri della squadra mentre i giocatori in campo si barcamenano come meglio possono continuando ad allenarsi regolarmente in un centro sportivo che non può più ospitarli. Alessandro Lucarelli si carica la squadra sulle spalle, la Errea fornisce alla squadra i soldi per affrontare le trasferte mentre la FIGC mette a disposizione dei soldi provenienti da un fondo multe per concludere il campionato e salvare il prodotto Serie A dalla sciagura dell'esclusione della squadra che avrebbe ripercussioni sul campionato, sul calendario e sulle televisioni, subito pronte a salvaguardare la loro posizione lesa attraverso un comunicato.

Donadoni ed i giocatori nulla possono di fronte a questo disastro incredibile per il Parma e per la città di Parma: testa china e correre per arrivare fino a fine campionato con la parola ''dignità'' che attraverserà la bocca di ogni dirigente o giocatore che si pronuncerà sulla squadra.




Dignità.
E' dignitoso continuare a svolgere il proprio lavoro fino a fine campionato, senza percepire uno stipendio da mesi. Il pubblico si aspetta questo, la super-privilegiata classe di calciatori può permettersi un anno senza pagamenti, si gioca per la gloria e per cercare di far bene e trovare una sistemazione a fine anno.
E' dignitoso rescindere il contratto e rinunciare a tutti gli emolumenti arretrati per provare a diminuire l'incredibile debito che spaventa probabili investitori ed impedisce al Parma di essere collocato sul mercato.
E' dignitoso lo sforzo degli sponsor, dei tifosi che riacquistano all'asta il mobilio del centro di allenamento e lo riconsegnano alla squadra, di Demetrio Albertini e dei curatori fallimentari che ancora oggi stanno provando a risolvere questa intricata situazione.
E' dignitoso, forse, il lavoro dei vari presidenti che magari hanno creduto di poter salvare la squadra ma che hanno cozzato contro una situazione surreale di malagestione che affonda le sue radici nell'operato dei precedenti proprietari e che non concede un punto di ritorno.





Finirà così l'ennesima triste avventura di questo calcio italiano martoriato da chi lo possiede.

Il Parma ed il suo palmarès fatto di tre Coppe Italia e due Coppe Uefa (tra gli altri trofei) affogherà nei meandri del calcio dilettantistico, colpito ed affondato da chi giurava di amarlo e di provare a fare il meglio. Tra qualche anno (si spera) assisteremo ad una risalita della squadra ducale, qualcuno elogerà l'ennesimo miracolo che una piazza importante come Parma può compiere, se saremo fortunati conosceremo la verità di chi ha mandato in frantumi il lavoro di Roberto Donadoni, del suo staff e dei giocatori scesi in campo.


mercoledì 10 giugno 2015

Joaquín e l'imprevedibile virtù della ripartenza


Il talento non basta per descrivere o addirittura giustificare le sue "tante vite". No, il talento non basta.







Ci sono persone che non vivono solo una volta.
Oggi Joaquín Sánchez Rodríguez, meglio noto come Joaquín, ha 34 anni ma ha vissuto 9 delle nostre vite. Vite leggere, vite eleganti, a volte sfuggenti, a tratti inconsistenti. Vite da solista come in un "baile" flamenco dell'Andalusia, la sua terra, dove il ballerino è anche il coreografo della propria esibizione.
Joaquin ha indossato mille pirandelliane maschere, forse troppe: il ragazzo prodigio con l'anima e il sangue dipinti del bianco e del verde del Betis, il migliore in campo nella "disfatta" della Spagna contro la Corea che sbaglia il calcio di rigore decisivo, mister 120 miliardi, l'ala destra più forte al mondo, il traditore che rinnega patria e famiglia quando se ne va dal Betis, l'uomo che non rispetta le attese al Valencia, l'oggetto misterioso, la seconda giovinezza a Malaga, la svolta totale a Firenze.


Tutto questo continuo finire per poi ricominciare, questo morire e poi rinascere in altri contesti, in altri tempi e in altri spazi, tutte queste vite: niente è completamente slegato dal resto, c'è una continuità nella storia di Joaquin, c'è un'armonia che accompagna costantemente i momenti chiave della sua carriera. E' la storia di chi non si è mai potuto permettere di essere giovane: il talento nitido, cristallino e soprattutto precoce non glielo ha mai consentito, i 120 miliardi di clausola non glielo hanno consentito, la simbologia sacra del Betis Siviglia non glielo ha consentito.
La città di nascita è quel Puerto di Santa Maria da dove Colombo partì nel suo secondo viaggio per le Americhe. Una ripartenza, appunto. Ce ne sono state tante, sia sul campo che nella carriera di Joaquin. Tante seconde possibilità che non gli sono state regalate ma che l'andaluso si è guadagnato, con la sua serietà, la sua professionalità e la sua umiltà.
Tartesso è terra di grandi toreri. Là questi eroi quasi mitici fanno parte della sfera sacra popolare, incarnando nello stesso tempo coraggio e danza, tradizione e poesia notturna. Un po' come le ali nel calcio: il toro da sfidare come il difensore di turno da dribblare.


Inizia tutto lì, nella terra degli zingari felici, probabilmente il miglior esempio di integrazione culturale a livello europeo e non solo, specie in questo periodo di ruspe e populismo galoppante. Basti pensare al Flamenco, nato tra le corde di qualche chitarra gitana ed emblema ormai universale dell’hispanidad. Proprio i migliori flamencisti, cantanti o ballerini che fossero, tra cui Rancapino e Ramon Nunez Nunez, meglio noto come Orillo del Porto, erano soliti riunirsi in un piccolo bar di Puerto Santa Maria, "El Chino"; il nome del proprietario è Aureliano Sanchez, padre di otto figli, di cui l’ultimo ha per nome Joaquin.


Il locale, inebriato dalla brezza marina, è un tempietto del Pisha, con tutte le maglie indossate in carriera incorniciate alla parete; c’è spazio solo per un cimelio che non sia imbevuto del suo sudore e della sua fatica, ed è la divisa di Luis Figo, suo idolo sin dall'adolescenza. "Chino" però non è il soprannome del padre, appartiene ad una figura se possibile ancora più importante per Joaquin: suo zio. Doveva essere una sorta di santone nella calle in quegli anni, un personaggio perfetto per un romanzo di Ernest Hemingway: amico di artisti, ballerini di flamenco, pescatori e semplici operai. Era in grado di parlare con gli occhi, uno sguardo limpido, glaciale, di quelli che non ammettono repliche. E’ lui ad investire per primo sul nipote, finanziandone gli allenamenti nella cantera del Betis. Leggenda vuole che durante le sedute pomeridiane, el Tio invitasse il mitico presidente Manuel Ruiz de Lopera al bar a sorseggiare una camomilla. C’è un bellissimo stralcio di intervista ad As, tutto intriso di amore e gratitudine verso El Chino, scomparso nel 2002 : «Él creyó en mí como futbolista. Por lo menos, mi padre puede disfrutar de lo que ahora tenemos, después de 'tó lo que hemos pasao', pero mi tío Joaquín, no». Ecco perché, ogni volta che protende le mani verso il sovralunare, la memoria va sempre là, a el Tio, il fenotipo dell’uomo di mare.  


Affronta la trafila delle giovanili e, dopo una stagione da protagonista nel Betis B, nel settembre del 2000 arriva l’esordio in prima squadra; l’allenatore è una di quelle persone che estrinsecano al meglio il mourinhano aforisma secondo cui chi sa solo di calcio non sa niente di calcio. Si tratta di Fernando Vazquez, el Maestro, allenatore del Betis in Segunda Division, nonché insegnante d’inglese e dottore in filologia tedesca. Ma al contrario di Federico Nietzsche nessuno prospetta per lui un futuro ruolo da leader intellettuale della propria nazione, così decide di virare sul calcio. E’ un fervente seguace di Arrigo Sacchi, che incontrerà da allenatore dell’Oviedo nel periodo colchonero del Vate di Fusignano. Lo irradia una forte propensione pedagogica: tra le sue mani a Maiorca sboccia il talento di Samuel Eto'o, ma anche quello di Dani Guiza e Albert Riera. Dopo sei anni consecutivi in Liga, nel 2000/01 il Betis è di nuovo impelagato in quella palude nota come Segunda Division. Il presidente Lopera si affida a Vazquez per la risalita. El de Castrofeito, nonostante la cessione del tandem offensivo Alfonso-Finidi, sfrutta al meglio i prodotti della cantera, tra cui ovviamente Joaquin, autore di 36 presenze e 3 reti. Saltano immediatamente all'occhio i dribbling ubriacanti e i cross millimetrici. I biancoverdi centrano la promozione, nonostante l’esonero a metà marzo del filologo gallego, causa incomprensioni con la dirigenza (si, gli stessi dei 750 miliardi di clausola rescissoria per Denilson).


La stagione successiva per Joaquin è quella della consacrazione nel massimo campionato. Timbra trentaquattro presenze e cinque reti: lui e Denilson, nonostante il rendimento romantico del brasiliano, dipingono pennellate barocche con la palla tra i piedi, puro edonismo applicato al calcio. Il Betis chiude al sesto posto, agguantando la qualificazione alla Coppa Uefa. Jose Antonio Camacho, CT della nazionale, abbacinato dal talento dalla giovane ala, lo convoca per il mondiale nippo-coreano. Credo che un po’ tutti siamo legati alla Spagna bella e perdente dei primi anni duemila (coppa Konami, do you remember?). El Pisha somatizza pregi e difetti di quella selezione, dal gioco a tratti inebriante, ma sempre inconcludente al momento decisivo. I mondiali del 2002 sono la competizione più ansiogena di sempre: partite alle nove europee di mattina, grandi squadre eliminate, presunte partite truccate (sul conto di Veron girano addirittura video di questo tipo... ), incroci tra gironi senza alcuna logica e decisioni arbitrali alquanto inappropriate. Tra le vittime, oltre al Portogallo, ci siamo anche noi: cinque gol regolari annullati in tre partite ed espulsioni discutibili. Dopo l’ormai iconica sconfitta contro la Corea del Sud anche gli spagnoli ci additano come i soliti piagnoni. Dovranno affrontare loro i padroni di casa, partita sulla carta abbordabile, nonostante l’assenza di Raul. Il match è a senso unico, Joaquin è indemoniato, dribbla qualsiasi avversario gli si pari davanti, forse la miglior prestazione individuale della storia della Roja. Ma l’arbitro, l’egiziano Ghamal Ghandour, annulla due gol regolari agli iberici e fischia un fuorigioco inesistente con il ventidue solo davanti al portiere. L’epilogo è tragico: alla lotteria dei rigori è decisivo proprio l’errore dell’andaluso. Il resto lo raccontano le immagini: Xavi e Puyol sconsolati, Morientes ed Helguera al limite dell’esaurimento nervoso. As, che tanto ci aveva denigrato, all'indomani della sconfitta pubblica un titolo eloquente: "ROBO! Italia tenia razon". E’ lecito pensare, dopo i recenti scandali e le dimissioni di Blatter, che Hierro non avesse poi così tanto torto nel cercare esasperatamente il contatto fisico con l’arbitro. Joaquin torna a casa avvilito, ma con la consapevolezza di essere entrato nell'orbita del grande calcio.

Le canzoni di sottofondo nei video di calcio dei primi anni di youtube erano decisamente migliori delle tamarrate electro-house che accompagnano qualsiasi filmato di "skills and goals" odierno.

Ne è conscio anche il presidente Lopera: si dice che nel calcio il marcatore più efficace sia la linea di bordocampo; Joaquin però l’ha sempre considerata come una donna da sedurre e accarezzare. L’unico terzino in grado di tarpargli le ali è quella maledetta clausola rescissoria da 120 milioni. La bacheca langue e purtroppo non è rimpinguabile in quel di Siviglia sponda Betis. Nel 2003, nonostante il record personale di nove marcature, deve accontentarsi dell’ottavo posto, mentre nel 2004 scenderà ancora di un gradino, sino alla nona posizione. Un barlume di speranza si riaccende nella stagione successiva: giunge in Andalusia per 6 milioni l’attaccante brasiliano Ricardo Oliveira (29 gol in 37 presenze) e, soprattutto, Serra Ferrer torna al timone della squadra. Il tecnico spagnolo aveva condotto i biancoverdi ad un clamoroso terzo posto nel ’95 e ad un piazzamento Champions nel ’97. Fautore del calcio totale di Cruijff, il Barcellona gli offre la direzione tecnica della Cantera; potrebbe sembrare un declassamento, ma per un vero conoscitore di calcio è il Nirvana. Nell'estate del duemila, causa dimissioni di Van Gaal, diventa allenatore della prima squadra. I risultati sono negativi: eliminazione al primo girone di Champions per mano del Besiktas, quinto posto a diciassette punti dal Real capolista alla trentunesima giornata e conseguente esonero. Lopera lo richiama in Andalusia, lui non tradisce e centra la qualificazione ai play off di Champions, con la solita proposta di calcio spumeggiante. Non solo, dopo ventott'anni riporta in bacheca la Coppa del Re, superando due a uno in finale l’Osasuna. L’anno successivo non rispetta però le attese e il Betis ottiene un disonorevole quattordicesimo posto.  

Capito cosa intendo per Nirvana?

Joaquin si sente oppresso, vuole migrare, accusa il presidente di averlo incatenato ad assurdi vincoli contrattuali. Nasce così una situazione kafkiana, uno degli aneddoti più assurdi legati al calcio mercato, di quelli che farebbero sobbalzare sul divano anche Gianluca di Marzio. E’ l’estate del 2006, Mourinho e il Chelsea offrono 38 milioni al Betis per il suo talento. Lui però non vuole lasciare la Spagna, un flamencista de la banda lateral soffocherebbe nella plumbea Londra: un'ala tutta tecnica ed estro nella patria degli esterni scattisti prodotti in serie, la morte di qualsiasi eccellenza individuale. Per fortuna arriva l’offerta del Valencia, 25 kilos. Il presidente accetta l’offerta, ma non perde l’occasione per giocare un ultimo tiro mancino alla sua ala. I contratti vergati da Manuel Ruiz de Lopera obbligano i calciatori ad accettare qualsiasi meta egli proponga. Così, in un assolato pomeriggio, squilla il telefono; dall'altra parte della cornetta c’è il presidente: «Alle diciotto lei si deve recare ad Albacete per chiudere la sua cessione all'omonimo club. Se per quell'ora non sarà sul posto, le sarà comminata una multa da tre milioni di euro. La sua presenza dev'essere registrata da un Notaio». Joaquin si infila in auto e parte a tutta velocità verso Castilla y la Mancha. Una volta giunto sul luogo e scattate alcune foto per certificare l’effettiva presenza all'incontro, scopre di essere da solo, con le porte degli uffici chiuse. Fiutato l’imbroglio, decide di tornare a Siviglia, su tutte le furie con il presidente. Per fortuna la cessione ai pipistrelli va in porto: 25 milioni, acquisto più oneroso della storia del club.


La prima stagione in riva alla Comunidad è tutto sommato positiva, 5 gol in 35 presenze e quarto posto. Il Valencia ha una rosa di alto profilo, in quegli anni non molto inferiore a Real e Barcellona non brillantissime. Tuttavia il 2008 è tribolato, con ben tre cambi di panchina. Ronald Koeman, subentrato a metà stagione ad Oscar Fernandez che a sua volta aveva sostituito Quique Sanchez Flores, guida i suoi alla vittoria in Coppa del Re, 3 a 1 sul Getafe in finale. L’olandese verrà comunque esonerato cinque giorni dopo, il 21 aprile, causa un preoccupante quindicesimo posto. Il Valencia riuscirà a salvarsi chiudendo decimo. A partire dal 2008-09, inizia la parabola discendente di Joaquin, quasi come se per osmosi la decadenza del Club avesse afflitto il giocatore: sono gli anni del fallimento economico e il presidente Sorian, per arginare il dissesto, mette in vendita il Mestalla, non trovando però alcun acquirente. Il debito di 547 milioni di euro lo costringe a dimettersi. Da qui in poi, è tutta un'escalation di cessioni: David Villa, David Silva e anche Joaquin, superato per la verità nelle gerarchie da Pablo Hernandez e che preferisce perciò accasarsi a Malaga.

Ecco, diciamo che quella sera non si è tirato indietro neanche lui.

Ci troviamo anche qui dinanzi all'ennesima fanciulla sedotta e abbandonata. Lo sceicco Al Thani finanzia una squadra di buon livello, in grado di puntare al piazzamento Champions: Rondon (lo amo, aspetto solo di ammirarlo in Copa America!), Cazorla (lo amo, tocco di palla fuori dal comune), Mathjisen, Toulalan, Demichelis (invece lui lo detesto, è l’anticalcio) e ovviamente Joaquin sono le fondamenta su cui costruire il futuro. Gli andalusi conquistano il quarto posto, il sivigliano è titolare fisso, sembra tornato quello del Betis, pur con uno stile diverso, meno aggressivo e più felpato.


Il 2012-13 si prospetta roseo, col ritorno in Champions ed una condizione fisica ottimale. Ecco che allora altre cause di forza maggiore interrompono improvvisamente l’ascesi di Joaquin. Secondo Al Thani i politici locali non hanno mantenuto alcune promesse relative all'edificazione del nuovo stadio e di un Hotel nelle vicinanze. Il flusso di denaro diminuisce notevolmente, la rosa viene smantellata, tuttavia l’orgoglio dei calciatori e l’esplosione di Isco superano qualsiasi ostacolo economico: il Malaga conquista i quarti di finale di Champions League. La gara di ritorno col Borussia Dortmund rimarrà nella storia della competizione, semplicemente un thriller, con più suspance anche di Milan-Ajax del 2003. Dopo lo zero a zero della Rosaleda è proprio Joaquin a portare in vantaggio gli ospiti al 25’. Per tutta la partita porta a spasso Schmelzer, distribuendo continuamente palloni per i tagli degli attaccanti. I gialloneri comunque pareggiano con un contropiede perfetto finalizzato da Lewandowski. Ma all'81’ accade l’imponderabile: Isco premia il movimento di Julio Baptista con una verticalizzazione perfetta, il tiro del brasiliano è lento ed Eliseu riesce a spingerlo in porta. Due a uno a dieci minuti dalla fine, Malaga in paradiso, servirebbero due gol ai tedeschi. Ed ecco che al novantesimo, su un lancio innocuo dalla difesa, Demichelis ne combina una delle sue saltando a vuoto e regalando un gol al Borussia. Ne manca un altro comunque: ti aspetteresti la giocata di Reus, il colpo di testa di Lewandowski, l’assist geniale di Gotze. E invece, dopo una mischia, ci pensa Felipe Santana a ribadire in porta: passare dal cielo delle stelle fisse all'ultimo girone dell’inferno in meno di cinque minuti. Il difensore brasiliano scrive la parola fine sull'esperienza malaguena di Joaquin, dopo una sconfitta così non ci sono più stimoli per continuare. 

Non scomparire nelle partite che contano anzi, di più, esserne protagonista.

Il 12 giugno 2013 viene acquistato a titolo definitivo per 2 milioni di euro dalla Fiorentina. Lascia la Spagna, lascia quell'Andalusia che prima con Siviglia lo aveva cresciuto e lanciato e poi con Malaga gli aveva dato un'altra possibilità. Lascia la Liga, 12 anni di Liga, 12 anni di tantissimi dribbling, 89 assist e 3000 cross.
Il primissimo impatto con il calcio italiano è di quelli difficili da interpretare e facili da spiegare. L'ala spagnola paga, a detta di Montella, una scarsa propensione al sacrificio negli allenamenti. L'ex Malaga però non tarda, grazie anche alla sua esperienza e al supporto dello staff tecnico, ad adattarsi ai nuovi ritmi del calcio italiano.
La vera vittoria però il cabinet di Montella l’ha ottenuta in un altro aspetto del gioco, la fase difensiva: mai nessun allenatore (fra i quali anche Manuel Pellegrini e Quique Sanchez Flores) era riuscito ad inculcare nella testa de El Pisha la dedizione alla fase meno nobile del gioco. Rispetto allo Joaquin versione spagnola, quello visto in riva all’Arno, ha aumentato di molto la porzione di campo coperta quando c’è da rincorrere l’avversario. 

Joaquin torero

Segna il suo primo gol in maglia viola il 20 ottobre 2013 nella gara di campionato Fiorentina-Juventus (4-2).
La prima stagione in serie A si conclude con 27 presenze e 2 gol, 37 e 5 complessivamente in stagione.

Il gol di Joaquin alla Juventus.

Non sono tanto le cifre, seppur rispettabili, a definire l'importanza di Joaquin. Lo spagnolo non è palesemente più l'ala tutta sprint e dribbling di un tempo, il fisico è cambiato, la testa pure. La classe e la qualità, però, unite all'esperienza accumulata gli consentono di essere ancora determinante, magari con altri compiti e in un altro contesto di gioco. La sua lettura enciclopedica delle azioni offensive è un'arma che usa con saggezza ed equilibrio. Semplicità di giocata, padronanza e controllo degli spazi, tocchi semplici e utili, intelligenza tattica raffinata: è questo il nuovo repertorio, completamente agli antipodi con la rapidità supersonica con il pallone tra i piedi di inizio carriera. L'eleganza, però, è sempre la stessa, immutata.
Tatticamente, il nuovo Joaquin di Firenze offre molte possibilità. Arriva come vice Cuadrado nel 3-5-2 ma progressivamente, anche per la fluidità del modulo tattico viola, ricopre i ruoli di esterno alto d'attacco o di seconda punta.
L'impressione dominante che si ha, vedendolo giocare, è che la squadra diventi automaticamente più organizzata e sicura al suo ingresso.
A Firenze lo hanno rinominato "mata grandi" per aver segnato in campionato solo contro Juventus (nello storico 4-2) e Napoli (gol decisivo al San Paolo).
La stagione successiva, cioè questa che è appena finita, inizia così come era partita la prima. Joaquin ha tante difficoltà, stavolta legate al modulo. I primi mesi sono davvero duri. Né il 4-3-1-2 né il 3-5-2 gli permettono di avere un posto stabilmente fisso da titolare, Montella lo vede esclusivamente come esterno puro d'attacco, al massimo seconda punta, ma molto raramente. Questa volta è il profilo tattico della Fiorentina a penalizzarlo ma El Pisha non cade neanche stavolta, lavoro giorno dopo giorno e risponde a tutti: critiche, avversari, detrattori. Joaquin ha bisogno di giocare con continuità ma improvvisamente capisce che può diventare un'arma tattica devastante da usare a partita in corso. Come nella partita contro il Milan quando entra negli ultimi minuti e con un assist e un gol ribalta il risultato.
Ci sono state altre perle del talento dell'andaluso. Quel gol contro il Palermo, ad esempio, bello come un dipinto di Velazquez. È impressionante come si riesca a cogliere l'aurea del suo talento in quello che fa: sacralizza ogni tocco, ogni finta, ogni dribbling.  

Classe, tecnica e reminescenza. Leggerezza applicata al calcio.

Forse quella continuità nella storia di Joaquin è rappresentata metaforicamente dalla linea laterale, quella linea di campo che lo spagnolo ha sempre accarezzato sfidando gli avversari.
Oppure l'elemento di continuità per Joaquin è espresso perfettamente dal soprannome che aveva a Siviglia: "la finta y el sprint", la finta e lo scatto, quella capacità di fermarsi e ripartire. Si è fermato tante volte e tante volte lo hanno dato per finito o lo hanno considerato una delusione; ma è sempre ripartito.
O forse, ancora, la vera natura dell'andaluso va ricercata nel suo soprannome originario. El Pisha è un soprannome particolare, qualcuno che riesce ad eccellere in un determinato campo (sportivo, artistico, etc.) ma è anche una forma amichevole di salutare gli amici più intimi. Eccellenza e intimità, familiarità. Niente riesce ad esprimere meglio il concetto totale "Joaquin", prima dell'uomo e del calciatore.



lunedì 8 giugno 2015

Superare se stessi. Impressioni dalla finale.


di AER

Nel calcio - e negli sport di squadra in generale - per avere la meglio su un avversario di valore assoluto maggiore e quindi più "forte" c'è bisogno di "superarsi". Superarsi individualmente e collettivamente, andare oltre il massimo potenziale che si può esprimere rimanendo fedeli a se stessi. Non basta essere perfetti nella propria unicità, si deve sfiorare la molteplicità. Non basta esaltare i propri punti di forza e limitare i propri difetti, si devono minimizzare le qualità dell'avversario e sfruttarne i limiti. Quando, a mente fredda e lucida, i complimenti e gli onori giustamente tributati alla Juventus, capace di giocare un'ottima partita, svaniscono ecco che restano altre domande. Si poteva fare qualcosa di diverso? Si poteva fare qualcosa di più efficace? Prima di tutto analizziamo quello che è stato fatto e conseguentemente ne prenderemo spunto per provare ad individuare quello che si poteva fare.





Allegri non rinnega le scelte che lo hanno portato in finale e che possono essere identificate principalmente in due sfumature: 4-3-1-2 mimetico -  4-4-2 in fase di non possesso - e profonda libertà decisionale ai due attaccanti, Tevez monotematico con ricerca dello spazio centrale tra le linee di difesa e centrocampo avversario e Morata più vario con gamma di movimenti leggermente più vasta.

Nessuna sorpresa neanche nella formazione iniziale dei catalani: 4-3-3 per Lucho. 
Il Barcellona palesa sin dall'inizio le solite difficoltà nella trasmissione di palla in difesa sulla prima pressione. Quando i difensori blaugrana mantengono il possesso, Morata si allarga sino a pressare Jordi Alba, mentre Vidal segue Busquets. Non appena la circolazione giunge a ridosso del centrocampo, il cileno si affianca a Pirlo, disegnando il solito 4-4-2 in fase difensiva.

Nei primissimi minuti la trasformazione del centrocampo da "rombo" a "linea" sembra incepparsi anche a causa di letture errate di Vidal. Proprio da un errore del guerriero nasce il primo gol del Barcellona.



Con il Barcellona in possesso della sfera Vidal abbandona la mediana per posizionarsi dietro le punte, pur non pressando nessuno, quindi Marchisio è costretto ad accentrarsi; Jordi Alba è completamente libero sulla fascia e Messi, in posizione di regista, lo serve con un cambio gioco, evidenziando il più grande difetto strutturale del 4-3-1-2. Lo spagnolo lascia l’incombenza del possesso a Neymar; la Juve vuole evitare di concedere l’1 vs 1 al brasiliano, che potrebbe raggiungere il fondo o convergere per tirare. Barzagli, Lichsteiner e Marchisio escono in marcatura, ma Vidal è in ritardo e Iniesta è libero di inserirsi. Bonucci è costretto ad andargli incontro, lasciando uno spazio al centro, occupato prontamente da Rakitic (straordinario nel dettare nuove linee di passaggio) perso completamente da Pogba: 1 a 0 alla prima disattenzione.


Nonostante lo svantaggio, i bianconeri riescono a mantenere un piano tattico; la tenuta mentale in questo senso è decisiva. I rischi comunque non mancano, specie nella situazione più ricorrente: quella del cambio gioco sul lato debole. E’ un meccanismo puntuale, inesorabile, che scocca non appena Messi guadagna il centro del campo ed agisce "alla Pirlo".



Primo gol del Barcellona. Il rombo non permette la copertura completa dell'ampiezza, basta un preciso cambio di gioco fatto con i tempi giusti per sfruttare l'enorme spazio attaccabile da Neymar.

Questo è un punto fondamentale da analizzare. Avevamo già discusso e preannunciato le difficoltà della Juventus a contrastare i cambi di gioco avversari a causa dello spazio concesso agli avversari sul lato debole (qui...). A mio avviso la soluzione migliore e preferibile era quella di difendere con un più efficace 4-5-1 - o 4-3-3 che dir si voglia - chiedendo a uno tra Morata e Tevez a turno di allargarsi e coprire la zona laterale e dando lo stesso compito a Vidal sull'altro lato. Questo accorgimento avrebbe senza dubbio limitato le tantissime soluzioni in ampiezza del Barcellona.



Altro giro, altra azione, stesso risultato. Cambio di gioco, il terzino esce lasciando spazio centrale attaccabile. Principio elementare, esecuzione perfetta.


Inoltre, la stessa scelta tattica sarebbe stata ideale per controllare meglio le catene laterali avversarie. Marchisio e Pogba, per quanto sia pregevole la loro abnegazione, rimangono pur sempre centrocampisti centrali e/o mezzali adattate a difendere sulle fasce. A ciò si aggiunge lo straordinario talento dei dirimpettai, Neymar-Jordi Alba da una parte e Messi-Dani Alves dall'altra. Proprio il brasiliano, nonostante i 32 anni all'anagrafe, resta il miglior terzino del mondo, con un'interpretazione totale del ruolo: spesso lo si vede agire per vie centrali, con Messi più largo di lui, nel tentativo di costruire quei triangoli (Alves-Rakitic-Messi a destra, Alba-Iniesta-Neymar a sinistra) fondamentali nello sviluppo del gioco di Luis Enrique e del 4-3-3 in generale. Al mondo non esistono un argentino ed un brasiliano tanto affiatati come il dieci e il ventidue del Barcellona.

La Juve, nel primo tempo, è compatta in trenta metri non appena il Barcellona conquista la trequarti. Il centrocampo accorcia a ridosso della difesa, negando spazio tra le linee, con Pirlo e Vidal ad alternarsi nel pressing sul portatore di palla (il duello Pirlo-Messi si ripeterà più volte, chissà se l’Argentino, quando perderà brillantezza atletica, arretrerà e diventerà regista).
La compattezza di difesa e centrocampo juventini a ridosso dell’area può essere visto come un tentativo di impedire a Suarez di attaccare la porta, sia con movimenti in profondità, sia con la palla tra i piedi. Quando l’uruguayano viene incontro per ricevere il passaggio, uno dei due centrali gli si incolla, non disdegnando l’uso del tackle. Nell’unica occasione in cui è libero di girarsi e affrontare faccia a faccia il diretto marcatore, quasi trafigge Buffon con una puntata da calcetto.

Analizziamo adesso i movimenti delle due punte juventine. Capitolo Tevez: l'argentino annusa la vulnerabilità del Barcellona tra le linee dove il solo Busquets non riesce a controllare tutti gli attacchi a quella zona. L'argentino però si fossilizza troppo con questa soluzione e questo tipo di movimenti, da effettuare solo quando l'altro attaccante crea lo spazio ricevendo palla lateralmente e allargando la difesa. Mi sarebbe piaciuto vedere anche il contrario, cioè Tevez ricevere palla con movimenti ad uscire.

Morata invece, giustamente, cerca lo spazio alle spalle dei terzini con lunghissimi movimenti verso l'esterno tagliando il campo. Questo gli permette di creare mismatch favorevoli - con Mascherano in campo aperto ad esempio - e di liberare spazio centralmente per gli inserimenti dei compagni. Questa era una soluzione che doveva essere cercata più spesso, era la chiave per aprire la scatola difensiva catalana. Il tiro dai 30 metri non può essere obiettivo e principale opzione della manovra offensiva. Creare lo spazio per il tiro al limite dell'area deve essere il fine per costruire azioni d'attacco più efficaci. La ricerca dello spazio esterno da parte delle due punte, se effettuata con continuità, con tagli profondi, sarebbe stata anche una buona scelta per tenere più bassi i due terzini avversari.



Sugli sviluppi di una ripartenza bianconera è rintracciabile una vistosa lacuna nella catena di sinistra blaugrana: nell’ultimo terzo della metà campo avversaria Jordi Alba esce in pressione su Marchisio, che innesca immediatamente in verticale Morata, smarcatosi con un ottimo movimento verso l’esterno. Lo spagnolo salta Mascherano con una sterzata "militesca" e serve Vidal, la cui corsa non viene assorbita dai centrocampisti catalani, troppo intenti a seguire la palla piuttosto che l’uomo.


Le occasioni più pericolose della Juventus sono quelle che derivavano da una cosciente ricerca da parte di Morata dello spazio alle spalle dei terzini.
Si poteva e si doveva sfruttare questa opzione di più e meglio.



Morata riceve palla nella zona laterale della difesa blaugrana nello spazio tra centrale e terzino. Di nuovo sterzata dello spagnolo e di nuovo pallone a rimorchio nello spazio al limite dell'area. L'azione si concluderà con un tiro alto di Tevez.


Dopo un primo tempo difficile la Juventus decide di alzare la propria linea di pressione in modo drastico. Il gol nasce proprio da una volontà di attaccare il Barcellona in uscita soprattutto quando la palla è nei piedi dei terzini con il corpo non rivolto verso l'attacco.



Genesi del gol di Morata. Lichtsteiner esce altissimo in pressione su Neymar confortato da una perfetta disposizione difensiva.



Pressione alta. Volontà di giocare sempre la palla senza sprecare nessun possesso. La Juventus del secondo tempo è una squadra che dimostra coraggio che è la causa dell'innalzamento qualitativo della prestazione e si rispecchia in piccole scelte, a volte anche rischiose.


Pericolosissimo 5 contro 3 concesso sugli sviluppi di un calcio d'angolo a favore dove la Juve difendeva la ripartenza con soli due giocatori. Buffon salverà con una parata strepitosa.


Anche le situazioni d'attacco sono eseguite con più convinzione e più energia. Si intravede un movimento molto interessante di Pogba per liberarsi al limite dell'area.


Evra attacca la fascia seguito da un centrocampista, Pogba finta il movimento nella stessa direzione attirando Dani Alves poi improvvisamente si stacca dalla marcatura e inverte il senso del movimento andando ad occupare lo spazio centrale. Evra gli servirà un ottimo assist.


Tuttavia dall'altra parte c'è Messi, l'unico giocatore in grado di far nascere un gol da una decisione  apparentemente "meno giusta": nel secondo gol Suarez scatta verso la porta, liberissimo, in posizione regolare. Messi non avrebbe difficoltà a servirlo con un filtrante ma preferisce portare palla e superare Barzagli in dribbling. L'azione sappiamo tutti come va a finire.

La parte finale della partita è convulsa, spasmodica. Fino al gol del 3-1 a tempo nell'immenso ma breve recupero.





Dietro la finale, dietro quelle maglie bianconere, c'erano tanto lavoro e tanti sacrifici. Dietro le vittorie però c'è anche altro: c'è l'ossessione. La Juventus ha dimostrato, con la preparazione, con l'organizzazione e con la volontà, di poter sfiorare la vittoria. Adesso è arrivato il momento dello step decisivo: c'è bisogno di "superarsi". La cultura sportiva vincente è anche questo, sconfitte che aiutano a migliorarsi e ti preparano a vincere. In Italia abbiamo una squadra che gioca per vincere la Champions. Non è per niente poco.