sabato 21 febbraio 2015

Arrigo Sacchi e i novelli Martin Luther King



Come in un contrappasso dantesco, lo storico fautore del pressing nel nostro Paese ha trascorso la settimana ora agli sgoccioli cercando di disimpegnarsi da una pressione costante e ben organizzata. Del resto, quando vengono tirati in ballo i temi e i soggetti più caldi della morale e del moralismo contemporanei, è difficile sperare che la vera o presunta intellighenzia italiana, dalla gente comune alle istituzioni, si preoccupi di analizzare davvero a fondo la questione cercando di contestualizzare e capire le affermazioni dei protagonisti del nostro tempo. È molto più facile infatti scatenare il buonismo militante da tastiera (gente comune) e partecipare attivamente alla corsa al comunicato ufficiale d'indignazione (istituzioni). A partire dal 16 febbraio fino a data da destinarsi, vittima di questi annosi fenomeni è stato Arrigo Sacchi, un uomo che nella sua quasi leggendaria carriera di allenatore, oltre ad essere entrato a buon diritto nei libri di storia del calcio grazie alla rivoluzione tattica introdotta con tenacia nella nostra antiquata Italia a fine anni '80, ha costruito successi planetari lavorando fruttuosamente con diversi giocatori dalla pigmentazione cutanea diversa dalla nostra. La colpa del “vate di Fusignano” ormai la conoscono anche i muri dei palazzi: aver dichiarato che nel Torneo di Viareggio ha notato un numero eccessivo di giocatori di colore nelle squadre Primavera nostrane.




Apriti cielo! Il tribunale dell'inquisizione popolare tenuto vigorosamente in attività dai social-commentatori seriali ha emesso l'irosa sentenza di razzismo contro l'ex tecnico del Grande Milan e della Nazionale Azzurra. A ufficializzare la condanna, ecco candidarsi al ruolo di Gran Giurì del suddetto tribunale nientepopodimeno che il più mediatico dei procuratori Mino Raiola, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega allo sport Graziano Delrio, e come special guests dall'estero il re dei commentatori sportivi inglesi Gary Lineker e il re del calcio mondiale Sepp Blatter: in vari modi, costoro sono stati solerti e concordi nel prendere le distanze dal cattivo di turno. Ma visto che noi non siamo personaggi istituzionali né degli opinion leader, ma solo persone che cercano di valutare gli eventi – per l'appunto – fuori dagli schemi, ci assumiamo la responsabilità di offrire un punto di vista differente circa le parole dell'Arrigo nazionale, più attento al merito della questione tecnica da lui sollevata e forse anche più etico. Perché pensare di essere moralmente irreprensibili bollando qualcuno come “razzista” alla prima occasione buona, in questo caso l'uso dell'aggettivo qualificativo “neri” combinato dall'aggettivo indefinito “troppi”, senza sforzarsi di comprendere la reale sostanza del messaggio, è tutto fuorché etico.




Quel che ha fatto il “profeta della zona”, a grandi linee, è stato riprendere uno dei concetti universalmente espressi e addotti come problema principale quando assistiamo ai numerosi fallimenti calcistici italiani degli ultimi anni: i nostri giovani hanno sempre meno opportunità di giocare ed emergere perché vengono chiusi dal crescente numero di stranieri che i club acquistano sia per ottenere risultati più facili, almeno nelle intenzioni, sia per i costi contenuti dei giovani provenienti da certi Paesi, soprattutto quelli africani, spesso al centro di una vera e propria “tratta” gestita da dirigenti e procuratori (sulle cui modalità sarebbe interessante condurre un'inchiesta approfondita). Il tutto con conseguenze esiziali per il nostro movimento, sotto il profilo sia tecnico che economico. Ecco, abbiamo parlato di stranieri. Ma Sacchi a ben vedere si è focalizzato sui “neri”. Perché prendersela proprio con loro? Per rispondere adeguatamente, dobbiamo lasciar da parte gli interruttori del nostro cervello che scomodano a macchinetta i grandi ideali del XXI secolo, e provare piuttosto ad auscultare voci e opinioni di chi lavora nei settori giovanili a tutti i livelli, di chi vede allenatori avversari infischiarsene d'insegnare fondamentali e sapienza tattica ai propri giovani e giovanissimi calciatori preferendo puntare tutto sul ragazzo o ragazzino coloured di turno, che 8 volte su 10 ha una struttura fisica nettamente più forte degli altri e permette alla squadra di portare a casa i 3 punti semplicemente facendosi dare il pallone e sbrigandosela con la pura potenza. È un dato acclarato che il fisico di una persona di colore tende ad assumere una prestanza e un'esplosività mediamente superiori a quelle di un “bianco”, e che tali differenze vanno a formare un gap decisivo nell'età dello sviluppo. Ed è sempre più diffusa questa pratica, che di fatto si basa sull'affidarsi al mezzo più comodo per segnare un gol in più dell'avversario anziché impegnarsi ad istruire e coltivare a dovere i nostri talenti.

Certo, le argomentazioni contrarie a quanto sostenuto finora non mancherebbero. Innanzitutto, è in crescita il numero dei figli d'immigrati di colore (per intenderci, gli omologhi di Balotelli, Ogbonna, Okaka ecc ecc) quindi parecchi “neri” sono italiani, non stranieri. Ma è altresì vero che il fenomeno sopra descritto va a danneggiare anche loro stessi, il cui potenziale non è sviluppato con la dovuta completezza. Tanto, basta la superiorità fisica...
Inoltre, dobbiamo far notare che solo il 5% degli atleti delle squadre italiane che hanno disputato il Torneo di Viareggio ha la pelle scura. Ma sarà un caso che la maggior parte di essi sia concentrato nell'Inter vincitrice della coppa? È lecito sospettare che si tratti proprio del coronamento di quella “corsa all'africano” volta al prevalere sugli avversari finché le differenze fisiche fanno ancora la differenza. E chi se l'aggiudica, ovviamente, è il pesce grosso del mercato. Tuttavia il compito primario dei settori giovanili – teniamolo bene in mente – non è vincere, bensì formare i talenti. Per il bene in primis del nostro calcio.





Il nostro non è razzismo, autentico cancro delle società civili destinato fortunatamente a scemare nei prossimi decenni. Il nostro è approfondimento tecnico, così come quello stimolato da Sacchi quando ha emesso le sue considerazioni. E quando l'analisi tecnica deve temere di potersi esprimere per paura delle accuse di razzismo, anche lì si rasenta la malattia. Sia chiaro, non abbiamo preso per oro colato l'uscita sacchiana, ma ci siamo almeno presi la briga di approcciarci ad essa con spirito critico (nel senso di giudizio obiettivo e profondo) per cercare di scoprirne le reali motivazioni e implicazioni. A nostro avviso, il vero “cattivo” non è Arrigo Sacchi da Fusignano, né tanto meno lo sono i giocatori di colore, che inseguono giustamente il proprio sogno come i loro coetanei di tutto il mondo! Sull'ipotetico banco degli imputati (con doverosa presunzione d'innocenza) dovrebbero semmai finire quegli addetti ai lavori dei settori giovanili rei di limitare la crescita dei nostri talenti in nome del risultato facile a tutti i costi. Con rinvio a giudizio, ahimè, per la categoria dei giornalisti, sempre pronti ad estrapolare scientemente le frasi pronunciate dai personaggi più noti, a metà tra obblighi di incisiva brevitas e sensazionalismo arraffa-audience.

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