martedì 27 ottobre 2015

Cowboy

Lewis Hamilton ufficializza il terzo Mondiale a seguito di una corsa complicatissima, sotto tutti gli aspetti. Facciamo un po’ di chiarezza.

di Federico Principi






Ogni weekend di gara porto avanti con forza la mia personalissima battaglia contro l'ignoranza e la nostalgia di professione. Quelli che "la Formula 1 fa schifo, mica come una volta". Sento gran parte del pubblico lamentarsi dello scarso spettacolo o della totale dipendenza dalle scelte ingegneristiche e telaistiche che avrebbero ucciso le differenze di pilotaggio. Si odono proposte assurde, alcune al limite del ridicolo, per ridare quell'antico valore alla categoria. La pista di Austin ha risvegliato in me quella mia convinzione, avvalorandola, che basterebbe rendere queste vetture meno stabili e più difficili da portare al limite per rispolverare i gap che un pilota può compiere non solo nei confronti del compagno di squadra, ma perfino contro un'altra vettura più prestazionale.

Alexander Rossi è il massimo esponente della nuova generazione di piloti statunitensi, finalmente ricomparsi in scena in Formula 1. Una bella stagione in GP2 (attualmente secondo in campionato) e tre buone prestazioni in Manor davanti al compagno di squadra, nel suo 2015. Pochi però ricordavano questa sua spettacolare e quanto mai suggestiva performance sul tracciato di Austin con la Lotus 49, del 1967, di Jim Clark.

Fiato sospeso e pura adrenalina.

Osservando il camera car dello stesso Rossi con la Manor di Formula 1, sullo stesso tracciato ma in condizioni bagnate, è possibile notare come le moderne vetture siano più stabili, perfino sulla pioggia. La facilità con cui le monoposto contemporanee danzano sull'acqua, paragonabili ai catamarani monster della Louis Vuitton Cup, è la prova che attualmente siano più semplici da portare al limite: meno impegnative fisicamente, e di conseguenza maggiormente incisive sui risultati finali di quanto non lo sia il pilota stesso.

On board di Rossi nelle FP1 bagnate di venerdì.


Fireworks
Confesso che ci sono state alcune gare (Monza su tutte) in cui mi sono sentito realmente in difficoltà nel trovare spunti degni di nota per un racconto di ciò che sia successo in pista piuttosto che per approfondimenti generali. Austin non fa certo parte di questa categoria di corse monotone.

L’uragano Patricia ha scombussolato la scaletta del weekend, nonché tutte le previsioni di gara fatte alla vigilia e in realtà poi improvvisate. Con il risultato che soltanto dalla metà della gara in poi si è vista la pista in condizioni asciutte, inedita nei tre giorni del Gran Premio statunitense. Tutto questo ha creato una serie di momenti altamente confusi e parimenti spettacolari, ai quali abbiamo provato a dare un po’ di ordine. Quell’ordine che Hamilton aveva già stabilito da tempo, vincendo il Mondiale non certo grazie alla trasferta texana: il risultato è rimasto più o meno lo stesso, nonostante una gara molto particolare e sicuramente eccitante.


Fase 1: Red Bull su acqua
L’unica pietra di paragone per risultati (in gara) su pista bagnata nel 2015 si era rivelata Silverstone. Condotta dalle Williams fino al primo pit stop, ma sempre su asciutto fino a quel momento, le bianche di Sir Frank hanno cominciato a boccheggiare dopo le prime tre gocce d’acqua, finendo per compromettere definitivamente il proprio grip con le gomme intermedie. È passata sottotraccia la straordinaria progressione di Kvyat (Ricciardo si era ritirato al ventunesimo passaggio) su Bottas: forse in molti l’avevano motivata con il calo prestazionale della Williams o più semplicemente con una difficoltà del finlandese a stare al passo di Massa (a parità di macchina) con conseguente demoralizzazione. «Tyres are not working» era infatti il laconico sfogo di Bottas, che criticando la competitività delle gomme lamentava in questo modo mancanza di prestazioni.

Sopra, quando Kvyat esce dall’ultimo pit stop è distante oltre 24 secondi da Bottas.
Sotto, all’ultimo passaggio i due sono praticamente appaiati. In sette giri il russo ha quasi azzerato il distacco.

Sottovalutati anche i tempi fatti registrare nelle libere, bagnate, del venerdì a Suzuka. Non sempre i piloti si risparmiano, rischia di diventare un luogo comune: a volte tirano per davvero, e i risultati sono lo specchio più o meno fedele dei valori in pista. Così vedere Kvyat in testa e Ricciardo quarto, con le Mercedes racchiuse a sandwich e la prima Ferrari lontana a più di un secondo dall’australiano, poteva sembrare sorprendente o comunque poco sospetto.

I tempi delle FP2 di Suzuka.

Gerarchie più o meno rispettate, ma con Rosberg ed Hamilton stavolta davanti, nelle ultime qualifiche di Austin. Un caso? Difficile che lo sia. Non abbiamo la controprova del passo gara Ferrari e di Vettel sulla pioggia, essendo partito dalle retrovie a seguito della penalità (ne parleremo in seguito), ma il ritmo di entrambe le Red Bull era assolutamente in linea con ambizioni di vittoria in una gara corsa totalmente su acqua. Qualcuno ha pensato che forse il set up delle vetture di Newey fosse stato regolato eccessivamente verso standard di pista bagnata, elemento che giustificherebbe la lentezza del passo nella seconda parte di gara. Resta sicuramente, di base, la velocità che per natura la RB11 esprime con l'acqua. Inutile rimarcare quanto sia Kvyat che Ricciardo abbiano in ogni caso messo le proprie ruote in testa alla corsa, seppure per pochi frame, specialmente il russo.

Nonostante la gran confusione, a metà del primo stint le Mercedes si sono ricongiunte in testa. Ci si poteva aspettare che scappassero, ma in realtà da lì in poi il più veloce è stato Ricciardo, e non di poco.

Lo scorso anno la predominanza Mercedes era stata totale. Il concetto di “assolutezza” è quanto mai dibattuto e da taluni ripudiato, ma se un team e una macchina dominano ogni possibile scenario diventa difficile non prenderlo in considerazione. L’egemonia argento si era manifestata ovviamente anche sotto l’acqua: sia in qualifica (Australia, Malesia, Cina, Belgio), sia in gara totalmente bagnata (Suzuka).

Lo scenario di Austin era in realtà differente: se restiamo alla dittatura del 2014, la gara americana di domenica scorsa era paragonabile più da vicino al Gran Premio di Ungheria dello scorso anno. Si partiva con intermedie su pista destinata ad asciugarsi. Anche in queste condizioni la Mercedes di Rosberg (Hamilton era nelle retrovie e nel traffico) aveva staccato di una decina di secondi Bottas su Williams e soprattutto Vettel su Red Bull: la lattina non era così vicina alle Mercedes quanto a prestazioni, nemmeno sull’acqua.


Ungheria 2014: al momento dell'incidente di Ericsson, Rosberg aveva già fatto il vuoto dietro di sé.

Che cosa è successo nel frattempo? La Mercedes, pur restando la vettura numero uno anche in queste condizioni, non è più così inattaccabile. Questo ha portato anche i due piloti argentati, Hamilton in particolare, a tirare ad un ritmo alto fin da subito: le gomme intermedie si sono surriscaldate prima della concorrenza (annoso problema Mercedes, nascosto sotto il tappeto dal regime totalitario del 2014) e si sono degradate in anticipo. Nel finale di stint, prima del cambio di mescola da intermedia a slick, Ricciardo stava volando ed Hamilton era letteralmente sulle tele.


Non appena Ricciardo era riuscito a scavalcare Hamilton, ha compiuto questa progressione.

Il telaio Red Bull lo conosciamo: sporadicamente ci evidenzia conferme di essere ancora ai vertici. Singapore (condizioni asciutte ma pista estremamente guidata) aveva in qualche modo smascherato Ferrari e Mercedes, portando alla luce un vantaggio telaistico molto risicato sulla casa austriaca, enormemente amplificato dalle differenze di power unit che però a Marina Bay non si sentivano particolarmente.


Fase 2: Le intenzioni di Vettel, a priori
Vettel ha ancora una volta confermato la sua impressionante lucidità e costanza. Il migliore in gara, insieme a Verstappen. Nonostante la partenza dal tredicesimo posto, la pioggia dava speranze di un recupero più veloce verso le prime posizioni: sotto l'acqua è più facile passare e il gap dai primi sarebbe rimasto più contenuto.

Sebastian è in realtà rimasto tappato da Perez per molti giri durante il primo stint, impossibilitato a superare la Force India che più volte ha mostrato (con propulsore Mercedes e aerodinamica piuttosto scarica) di avere le più elevate velocità di punta della categoria.

Vettel, insieme alla sua squadra che avevamo criticato a Sochi, ha stavolta compiuto due mosse strategiche che, senza l'ultima Safety Car, avrebbero potuto clamorosamente (ma giustamente) portarlo alla vittoria della gara:


- Il tedesco, insieme ad Hamilton, ha scelto il giro perfetto nel quale passare dalle intermedie alle slick (soft gialle). Questo gli ha consentito di fare un grande undercut su Perez, sorpassandolo, ma anche e soprattutto sulle Red Bull e su Rosberg, rimasti tutti in pista un giro in più con le intermedie e sicuramente più lenti del ferrarista.


Ericsson è già sulle slick e stampa il miglior tempo nel secondo settore. Vettel ed Hamilton sono già nel box a montare le soft: il tempismo è perfetto.

Vettel è rientrato in quinta posizione ma con un gap ridotto rispetto alla testa della corsa: il tedesco dopo il pit stop era il più veloce in pista ad esclusione di Rosberg, che nel frattempo aveva preso il comando. Le Red Bull stavano infatti tappando Hamilton: l'asciutto ha completamente ridimensionato la competitività di Ricciardo e Kvyat.


- Quando si è fermato Ericsson in pista, con conseguente chiamata di Maylander, Vettel si è precipitato in pit lane per montare le medie. Grande stupore ha suscitato questa scelta: la pista umida era la condizione peggiore per poter optare per la mescola più dura, che sarebbe stata difficile da portare in temperatura e avrebbe scivolato parecchio. Vettel è stato maniacale nello scaldarla fino agli ultimi secondi disponibili, nei quali Rosberg stava insistentemente rallentando il gruppo prima della ripartenza. Sebastian ha scongiurato i timori di chi pensava che con la media avrebbe sofferto: ha immediatamente passato Kvyat (lungo in curva 1) e teneva dignitosamente il passo dei primi, tutti con le soft.

Non ci fossero state la seconda Virtual Safety Car e nemmeno la seconda finestra di Safety Car reale, Vettel avrebbe addirittura potuto puntare alla vittoria. Era il primo della carovana a non dover più rientrare ai box, e sarebbe andato sicuramente in testa dopo i pit stop delle Mercedes che non sarebbero probabilmente riuscite a distanziarlo di oltre 20 secondi prima dell'ultimo cambio gomme. A priori infatti la scelta di Vettel era perfetta: gli pneumatici gialli hanno dimostrato di soffrire degrado dopo svariati passaggi ed erano destinati ad essere sostituiti nuovamente. Seb avrebbe invece potuto percorrere 24 giri (meno di metà gara) con la stessa mescola, senza vistosi segnali di degrado. Quello che la Ferrari avrebbe dovuto fare a Sochi (rientrare ai box con la Safety Car) lo ha efficacemente compiuto in Texas.


Fase 3: La seconda sosta Mercedes
Poteva per un secondo passare in mente che le Mercedes sarebbero andate fino in fondo con le gomme soft montate rispettivamente al diciannovesimo (Hamilton) e al ventesimo (Rosberg) giro? Appariva quanto meno complicato. La Virtual Safety Car installata nuovamente, a seguito del parcheggio di Hulkenberg nei pressi della pista, sembrava posta ad arte per allungare la vita degli pneumatici delle W06. Le cose non sono andate esattamente così.

Rosberg era in quel momento in testa, e come tale aveva tutto il diritto di precedenza sulle strategie. Si è ovviamente fiondato ai box: sapendo che avrebbe dovuto fare questa seconda sosta, ha sfruttato il rallentamento della Virtual Safety Car per perdere meno tempo possibile nei confronti di Vettel.

Se la gara fosse stata invece liscia fino alla fine, immune da qualsiasi tipo di neutralizzazione, i due Mercedes avrebbero rischiato grosso. La situazione dei distacchi prima dell'installazione della seconda finestra di Virtual Safety Car, e quindi prima del pit di Rosberg, mostra chiaramente quanto il tedesco abbia evitato una ingente mole di traffico, sfruttando la neutralizzazione per rientrare ai box.


Con lo svolgimento regolare della gara, Rosberg sarebbe precipitato in una posizione compresa tra l'ottava e l'undicesima. Avrebbe sicuramente passato tutti con estrema facilità ma perdendo tempo prezioso, e nel frattempo Vettel avrebbe proseguito sul proprio ritmo con pista libera.

Quando richiamare invece Hamilton? Il grande errore del muretto Mercedes è stato quello di confidare nella lunghezza del periodo di neutralizzazione con Virtual Safety Car. Hamilton andava fermato in contemporanea con Rosberg: avrebbe perso un paio di secondi in coda, ma sarebbero stati ininfluenti.

Molto più deleteria si sarebbe invece rivelata la situazione nel caso in cui non fosse venuta incontro la Safety Car vera. Non sappiamo se, con ancora 14 giri da percorrere, Lewis avesse intenzione di provare ad andare fino in fondo con quel set di gomme soft montate al diciannovesimo passaggio. Al momento della chiamata in pista di Maylander, Hamilton avrebbe infatti rischiato di uscire dai box alle spalle delle McLaren o forse addirittura di Perez, senza il botto di Kvyat e conseguente Safety Car in pista.

I distacchi nel momento esatto dell'ultima chiamata della Safety Car: Hamilton è stato in realtà graziato dall'errore di Kvyat, a muro.

Con distacchi neutralizzati, non era ovviamente possibile difendersi con pneumatici ormai degradati. Hamilton si è tolto ogni dubbio, fiondandosi al box per montare soft fresche e preservare quanto meno la seconda posizione. Un po' a sorpresa si è presentato in pit lane anche Vettel per montare le soft, ma la scelta si è rivelata ancora una volta azzeccata. Sebastian non poteva impostare la gara sprint degli ultimi dieci giri con pneumatici a mescola media: rischiava perfino di non tenere neanche la posizione su Verstappen e le sue chance di battagliare con le Mercedes, disponendo delle gomme bianche, erano pari a zero. Vettel ha invece seriamente impensierito Rosberg fino alla fine per la seconda posizione.

Strategie simili sarebbero state impossibili, ad esempio, a Montecarlo. Vettel avrebbe tenuto la gomma media pur di conservare la posizione, Hamilton e Rosberg avrebbero sicuramente rischiato di andare fino in fondo con le soft degradate fino ai cerchioni. Decisioni favorite dal layout della pista, molto disponibile di occasioni di sorpasso, e che per una volta ci riconcilia con lo spettacolo abbandonando le terrificanti curve a 90 gradi dei tracciati contemporanei.

L'errore finale di Rosberg, che ha spianato la strada ad Hamilton campione, non rientra in alcuna di queste considerazioni. Rammarico per il tedesco, inesorabilmente segnato dall'astinenza di vittorie.


Critica della ragion virtual
Non è una novità quella di sparlare della Virtual Safety Car, ma a quanto pare gli unici a crederci ancora sono i dirigenti della FIA. La questione del "delta time" sembra sempre più ridicola se si vedono differenze così marcate nei tempi sul giro.

L'episodio di inizio gara è il chiaro segnale, forse definitivo, che le procedure dovranno cambiare in fretta. Dopo sei passaggi, molto confusi per i primi quattro, si erano delineati alcuni gap abbastanza chiari da essere rispettati, soprattutto quando le distanze andrebbero mantenute principalmente a vista d'occhio.

Le Mercedes e le Red Bull erano le più veloci, ma non vi era un vero e proprio pacchetto di mischia al momento della chiamata della Virtual Safety Car.

Onestamente non so quale sia questo famoso "delta time" che viene indicato ad ogni pilota. La FIA non sembrerebbe comunicare tempi di riferimento ufficiali per tutti i piloti, magari con qualche leggero margine di tolleranza in eccesso o in difetto. Le differenze di ritmo con Virtual Safety Car sembrano davvero clamorose, e ad Austin si è realmente toccato uno dei punti più bassi della moderna Formula 1.

Osservando la grafica precedente i primi quattro piloti sarebbero distanziati tra loro di almeno due secondi ciascuno, prima della neutralizzazione. Profondo imbarazzo, invece, per le scene a cui abbiamo assistito al momento della chiusura della finestra di Virtual Safety Car: Rosberg ha immediatamente attaccato e passato Ricciardo, che a sua volta si era avvicinato a Kvyat, che a sua volta si era avvicinato ad Hamilton. Perdonate l'anafora, ma rende meglio l'idea.

Tutti attaccati, quando la gara riparte, i primi quattro, con Rosberg che sorprenderà immediatamente Ricciardo. Perez nel frattempo ha perso più di due secondi da Hamilton. Button, ad esempio, ne ha guadagnati sette sui battistrada.

Avevamo già più volte parlato delle soluzioni alternative delle altre categorie. Le slow zones a Le Mans coinvolgono il solo tratto di pista interessato, e sembrano una soluzione vincente. Il limitatore di 80 km/h proposto per la GP2 ha causato qualche problema di funzionamento ma resta in ogni caso una visione più accettabile. Viene il sospetto, o forse la certezza, che la Virtual Safety Car abbia completamente fallito il proprio obiettivo: la meritocrazia. Installata per non costringere chi ha aperto un gap con la concorrenza a subire l'azzeramento del distacco, si sta tuttavia rivelando più incline ad essere uno strumento di guadagno per qualche sciacallo. Al momento sarebbe meglio insistere sulla splendida Mercedes di Maylander.


Il balletto dei motori, parte seconda
Lo stesso sottotitolo lo avevo utilizzato per gli approfondimenti generali del Gran Premio di Monza. Una situazione che ciclicamente si ripropone, e che ad Austin avevamo preventivato. Molto calda soprattutto sul versante Ferrari, chiamata ad una decisione che poteva avere pro e contro per ogni opzione possibile.

Come già sospettato nell'analisi post-Sochi, Mercedes è l'unico fornitore di power unit che terminerà la stagione rispettando la regola delle quattro unità. Il secondo posto di Vettel nella classifica piloti aveva messo in crisi le certezze dei vertici di Maranello sull'opportunità di utilizzo della quinta power unit. Autosprint aveva anticipato che Arrivabene e soci avrebbero deciso per il mantenimento della quarta unità fino ad esaurimento scorte. La realtà dei fatti ci ha invece mostrato che la Ferrari abbia optato per la decisione opposta, ed analizzando gli elementi si tratta di una presa di posizione assolutamente corretta.

- Innanzitutto, sacrificare le prestazioni con motore fresco nelle ultime gare, dove la Ferrari ha buone possibilità di cogliere almeno un'altra vittoria, non era certamente la migliore scelta. Vettel e Rosberg, seppur competitivi, non sembrano così concentrati su questa lotta alla piazza d'onore nel campionato, e il secondo posto nel Mondiale Costruttori è ormai salvo da tempo. Sarà invece interessante scoprire se la Ferrari ha ancora in canna qualche risultato di spicco, specialmente ad Abu Dhabi, che sarebbe stato impossibile con una power unit decisamente logorata.

- Un'altra argomentazione a supporto di chi sperava nel mantenimento della quarta unità ad oltranza poteva essere una prova dell'affidabilità. Spingere il motore ad un chilometraggio oltre i 4.000 km significava valutarne con precisione l'aspettativa di vita. Non era tuttavia difficile constatare che si sarebbe comunque trattato di un test di affidabilità su un motore vecchio, che a partire dal 2016 sarebbe stato rivoluzionato. Il progetto della nuova power unit è piuttosto differente, con spostamento del cambio e dell'MGU-K con il tentativo di rastremare (restringere) il retrotreno, a sentire i ben informati. Di conseguenza valutare i rischi dell'affidabilità sulla quarta power unit 2015 sarebbe stato piuttosto inutile.


Vista sul retrotreno della SF15-T.

- L'ultimo elemento che ha probabilmente convinto i vertici della Rossa alla sostituzione è sicuramente la pioggia annunciata per tutto il weekend. Sul bagnato è più facile recuperare posizioni e compiere sorpassi, ed anche partendo in una posizione oltre la decima il podio poteva essere nel mirino. Senza contare che Austin di per sé è un tracciato dove si sorpassa molto anche con l'asciutto, e che probabilmente la Ferrari avrebbe effettuato la stessa scelta anche con previsioni meteorologiche di sole e caldo.

«Spero che Alonso mi asfalti ad Austin». Tranquilli, Button non è impazzito. Il team McLaren-Honda aveva deciso di portare in gara, solo sulla vettura dello spagnolo, il nuovo progetto di propulsore giapponese molto vicino a quello del 2016. L'unità sembrerebbe essere stata già montata a Sochi ma solo nelle prove libere. Riscontri assolutamente positivi sono arrivati dai duelli con le Force India, che per tutta la stagione hanno mostrato di essere dei veri e propri proiettili sul rettilineo. A un certo punto Alonso si è preso il lusso di scavalcare Perez in curva 1, e più volte ha resistito (solo di motore) nel rettilineo posteriore, più lungo e con un'infinita zona di DRS. Anche se lo spagnolo sostiene che la nuova specifica sia solamente di un decimo di secondo al giro più rapida, i segnali sembrano incoraggianti.

Il cerchio si chiude, parlando di Renault. I francesi hanno presentato una nuova power unit che portava con sé evoluzioni di 11 gettoni (ne rimane uno soltanto). Quello che la Red Bull si aspettava da tempo, ma che ha invece accantonato per tutta la trasferta nordamericana, compreso il Messico. Oltre a problemi di affidabilità citati da Horner, pare che il nuovo motore garantisca due decimi di guadagno in prestazione. Troppo pochi: Red Bull ha fatto i suoi calcoli, decidendo di non sacrificare una partenza dalle prime file in vista di un weekend bagnato, ideale per cogliere un risultato di rilievo. Che non è comunque arrivato.



Articolo a cura di Federico Principi

giovedì 22 ottobre 2015

Una gara dell’altro mondo

Phillip Island è stata teatro ancora una volta di una delle gare più belle di sempre, con protagonista un fenomenale Iannone.

di Leonida Monaco






Il circus del motomondiale è giunto in Australia portando con sé i 18 punti di vantaggio di Rossi sul compagno di squadra e un ormai fuori dai giochi Marc Marquez, costretto ad abdicare per uno dei due “Yamahisti”. Come si è potuto osservare in tutte le 15 gare disputate fino ad oggi, i pronostici sono stati sempre sovvertiti per un motivo o per un altro, portando Valentino a guadagnare punti in tracciati a lui storicamente sfavorevoli (Silverstone e Motegi in primis) e portando Marc Marquez alla vittoria in entrambi i circuiti in cui non era mai riuscito a vincere in MotoGP, Misano e per l’appunto Phillip Island. 

Il giovedì inizia con una novità: la Bridgestone si è presentata in Australia con una gomma anteriore asimmetrica, costituita da un mescola al 70% soft e al 30% extra soft, l’inverso dello scorso anno. Questo cambiamento, accolto con favore dai piloti, è stato apportato più per evitare le cadute che per un eccessivo degrado presentatosi lo scorso anno e che ha visto in Jorge Lorenzo il suo massimo esponente. Difatti nel 2014, la porzione extra soft, occupava tutta la zona sinistra e parte di quella destra dello pneumatico, lasciando la soft solo sulla sezione di pneumatico che serviva per inserire la moto in curva e restare in appoggio verso destra. La vecchia mescola causò infatti molte cadute in inserimento (pericolosissime per la clavicola), specialmente in curva 4 e 10, le staccate più difficili del circuito. Poiché la porzione destra dello pneumatico era costituita da un compound leggermente più duro, i piloti inserivano la moto mostrando un’eccessiva confidenza, che non vedeva il responso della porzione soft dello pneumatico. 

In questo video possiamo osservare questo tipo di cadute, avvenuta a MM in gara.

Il week end di gara è iniziato, forse è superfluo dirlo, con Jorge Lorenzo davanti a tutti nelle FP1, seguito a distanza ravvicinata dal solo Marquez. Molto veloci Iannone e Rossi, i quali però pagavano 4 e 5 decimi rispettivamente. Le FP2 hanno portato alla luce il primo posto di Marquez, addirittura più veloce di Jorge anche sul passo, che come il compagno di squadra ha lamentato uno spin eccessivo nell’ultimo settore, non riuscendo a tramutare le rotazioni della gomma posteriore in metri percorsi; tuttavia, a differenza del maiorchino, il pesarese si è fermato in un allarmante nona posizione, spiegata dall’uso anticipato delle gomme nuove a metà turno. A differenza di tutti gli altri piloti, i quali hanno utilizzato il set nuovo per la ricerca del tempo negli ultimi 10 minuti. In bianco e nero il venerdì Ducati, con un Iannone veloce fin da subito e un Dovizioso che beccava quasi un secondo sul giro e sul passo dal compagno di box. Questo venerdì ha anche permesso di individuare profonde differenze nella velocità massima tra le tre case principali. Mentre Yamaha ha stentato a superare i 334 km/h, che sono diventati 331 per Rossi, Honda ha raggiunto i 338 e Ducati i 348 con Dovizioso. 

Ma è il sabato mattina che si è scatenato il campione in carica, con un passo apparentemente irraggiungibile per tutti, fisso sull’ 1:29.5, ed un giro veloce che relega la prima Yamaha a 5 decimi. Il week end di Rossi, iniziato meglio del previsto, si incarta e si affloscia su se stesso, con le modifiche all’anteriore che non hanno portato alcun beneficio. Come affermato da lui stesso nell’intervista post gara, “la gara è stata persa il sabato. Abbiamo sbagliato nell’attuare le modifiche all’anteriore, per far curvare la moto, quando avremmo dovuto pensare a migliorare la trazione negli ultimi due curvoni”. In casa Ducati si riconferma la difficoltà di Dovizioso in una pista a lui non congeniale, e la freschezza di Iannone e Petrucci. Ci si ritrova così catapultati nelle qualifiche dove Marc Marquez come da previsioni giunge in pole position davanti ad uno strepitoso (seppur furbo) Andrea Iannone, a pari tempo con un Jorge Lorenzo stizzito relegato in terza posizione, poiché il tempo più veloce con la prima gomma era stato stabilito da Iannone, sempre in scia a al maiorchino. Stessa strategia la effettua il Dovi ma dietro l’altro Yamahista, riuscendo però a partire solo dalla 10 casella. 

Il buongiorno è arrivato la domenica con la conferma dei dati del giorno prima se non che Valentino, che ha lasciato la vecchia strada per intraprenderne una radicalmente opposta, ha migliorato il passo nel warm up, pur restando dietro il quarto del lotto. Alle 7.00 ore italiane, viene posto sulla tabella dei giri il numero 27. Impossibile non citare il genio assente di Phillip Island, Casey Stoner. Nessuno ha saputo interpretare meglio la pista Australiana, vincendo per 6 volte consecutivamente dal 2007 al 2012. 

Pronti via, l’inferno si scatena fin dalle prime curve, con un Iannone che parte alla grandissima, come pronosticato il giorno prima da Lorenzo, e che passa in testa fino a metà giro, dove lo stesso Lorenzo con un sorpasso da urlo, lo affianca e lo svernicia tra la curva 8 e 9, posto in cui le Yamaha andavano visibilmente più delle altre moto, visto che Rossi effettuerà i primi tre sorpassi allo stesso modo. A differenza delle prove, Valentino sembra avere un feeling ritrovato con la moto, seppure pare non forzare troppo in staccata. Questo mancato feeling è dovuto semplicemente ad una mancata abitudine nel girare con una moto rivoluzionata, anche rispetto al warm up. 

Una fase concitata di gara con il duo italiano all’inseguimento dei maiorchini.

La gara già in partenza spettacolare dà il meglio di se nelle ultime 5 tornate, con una Ducati fenomenale in rettilineo, riuscendo in più occasioni a superare Yamaha e Honda insieme, e continui sorpassi effettuati da Marquez e Rossi nel guidato. La situazione a 3 giri dalla fine vede Iannone ultima ruota del carro, che poi si reinventa la seconda con un sorpasso fenomenale alla curva 10, sorpasso agevolato sì dal lungo dei due piloti in lotta ma, sia per tempismo che per pulizia verrà ricordato come uno dei sorpassi più belli di sempre. 


La situazione cambia all’inizio dell’ultimo giro con Iannone davanti a Rossi e un Marquez distaccato di 913 millesimi dall’altro spagnolo. Proprio Marquez, come direbbe il Dott. Costa, “si mette in testa una cosa meravigliosa” cioè tentare un giro da qualifica (che poi si rivelerà il più veloce della gara) sfruttando l’esplosività della Honda e riuscendo ad infilare Lorenzo all’ultima staccata. 

Non è stata solo una delle gare più belle degli ultimi anni. Difatti ad un’analisi attenta, è stata la gara più tirata della stagione. Il passo gara messo in mostra dai primi 4 piloti è stata una sorpresa per tutti gli addetti al circuito, soprattutto il miglioramento di 6 decimi di Valentino, dal warm up alla gara. Non solo sono riusciti a girare stabilmente sull’1:29 e mezzo, ma per la prima volta nel 2015, il giro più veloce è stato effettuato all’ultimo giro. Considerazione che ci porta a concludere come non solo il lavoro svolto da Bridgestone sia senza ombra di dubbio il migliore di sempre, ma ci porta a pensare come questi piloti ogni gara, ogni giro spingano il limite un po’ più in là, costruendo il mondiale più tirato di sempre. In quest’ottica non rientra Dovizioso, che forse a 30 anni suonati ha capito di non essere completo come i primi 4/5 del campionato. A tal proposito il pilota forlivese soffre troppo le piste da lui non amate, che iniziano a diventare veramente tante, a differenza di Iannone e dei fantastici 4, i quali pur avendo piste indigeste, riescono sempre a tirar fuori qualcosa in più rispetto alla prima (?) guida Dovizioso. Un discorso a parte va fatto per Vinales, che in quel di Phillip Island è stato semplicemente maestoso, riuscendo a terminare a meno di 7 secondi da quei 4 mostri, dimostrando di essere, dopo Marquez, il miglior rookie di sempre. Qualche parola su Vinales l’ha spesa anche Valentino Rossi: secondo il pesarese infatti, che ha seguito il giovane talento durante le prove, <<Maverick diventerà nel giro di un paio d’anni un contendente per il titolo>>

I piloti hanno lasciato l'Australia con un +11 di Rossi in classifica generale, per poi ritrovarsi a Sepang. Il GP di Malesia sarà la vera chiave di volta del mondiale, sancendo un allungo, probabilmente finale di Rossi o introducendoci ad un’ultima gara spettacolare, qualora Lorenzo dovesse finire davanti al compagno. Le previsioni indicano pioggia e temporali, condizione in cui le Yamaha e le Ducati dovrebbero avere un vantaggio tecnico nei confronti della Honda. 

In ultimo vi lascio una considerazione: è vero che Jorge ha recuperato 7 punti su Valentino, ma è pur vero che ne ha persi 5 a 600 metri dal traguardo. Cinque punti che consentono a Rossi di poter arrivare sempre in seconda posizione, terminando, qualora Lorenzo dovesse vincerle entrambe, un punto avanti in campionato. 



Articolo a cura di Leonida Monaco



NBA Preview: Eastern Conference

L'inizio della stagione NBA 2015/2016 è sempre più vicino. Per arrivare preparati alla notte di apertura, abbiamo fatto 6 domande ai ragazzi della redazione di Pick and Pop Culture. Tutto quello da sapere sulla Eastern Conference.

di Redazione Pick and Pop Culture






1-  I Cleveland Cavaliers ripartiranno dalla sconfitta nelle Finals subita contro Golden State. Sono loro i favoriti a Est?

Marco Morelli
Assolutamente. La pochezza della Eastern Conference é qualcosa di imbarazzante, e sembra che quasi nessuna squadra possa arrivare a 55-60 vittorie, eccezion fatta per Cleveland. Forti delle Finals raggiunte lo scorso anno, i Cavaliers si presentano ai blocchi di partenza come la squadra da battere ad Est, nonostante l'assenza di Irving fino a Gennaio: i meccanismi di squadra sono già assimilati, e l'ex-Duke potrebbe essere sostituito degnamente da Mo Williams e Matthew Dellavedova e, al rientro, avere qualche minuto da SG grazie alle doti spot-up (mortifero 46.3% dall'angolo).
L'ago della bilancia per il titolo é Kevin Love, fresco di un pesante rinnovo contrattuale in estate e atteso al salto di qualità nei playoff dopo una stagione al di sotto delle aspettative: ne sarà capace?

Alberto Guerrini
La squadra di LeBron James, historia magistra vitae, è la favorita ad arrivare in fondo in quel letamaio che è la Eastern Conference. E si dà il caso che quest'anno tocchi ancora ai Cleveland Cavaliers. Rispetto all'anno scorso Cleveland è più profonda, più motivata e possibilmente sarà quasi impossibile ripetere la serie sfortunata di infortuni che ha rivolto l'ago della bilancia nei favori di Golden State. I Cavaliers giocano una pallacanestro PO, brutta, sincopata, ma difensivamente consapevole e dunque adatta a contrastare le velleità di chiunque si frapponga nel loro cammino verso le Finals. LeBron si sente in debito con la sua città per lo sgarbo pro-Miami e siamo sicuri ce la metterà tutta per portare i Cavs sul tetto del mondo, e se mai abbiamo imparato qualcosa beh quella è MAI, dicasi MAI scommettere contro il Re.

Alberto Ambrosio
Certamente, i Cleveland Cavs quest’anno sono ancor più favoriti dell’anno scorso: tolto il fatto che nessuna squadra ha fatto un “mercato estivo” tale da poter impensierire la supremazia James e compagnia, le affinità difensive che sono riusciti a trovare negli scorsi playoffs rendono ancor più favorita questa squadra. Certamente con il ritorno di Love l’efficienza difensiva vista nella scorsa post season calerà notevolmente, ma comprimari come Mattew Dellavedova e Timofey Mozgov saranno pronti fin da subito a lottare ad altissimi livelli. Resta da risolvere la grana Thompson, giocatore che si è rivelato estremamente importante nel sostituire Love ma che rischia seriamente di saltare l’intera stagione a causa di dispute contrattuali con l’attuale franchigia.

Tristan Thompson, un artista del rimbalzo offensivo.

Marco Braini
I Cavs sono nettamente i favoriti. L’assenza di Kyrie Irving e la grana del rinnovo di Tristan Thompson potrebbero compromettere la loro rincorsa al miglior record della lega, ma nessuna squadra ad Est si è rinforzata in modo tale da impensierire LeBron e soci: infortuni permettendo, il seed #1 sarà loro.


2- Atlanta riuscirà a ripetere l'incredibile Regular Season dello scorso anno?

Alberto G.
No, affatto. Senza nulla togliere al druido ex Spurs Mike Budenholzer, capace di scoprire e somatizzare i segreti dell'alchimia, la pallacanestro rimane uno sport dove la fiducia conta tanto, tantissimo, soprattutto nel momento in cui condividi la sfera ai volteggi a cui ci hanno abituato gli Hawks. Atlanta è una bella realtà, ma non sorprendiamoci se non dovesse ripetere l'exploit dello scorso anno. Horford in contract year è un punto a favore, Millsap fresco di rinnovo miliardario e la dipartita di Carroll lo sono a sfavore.

Alberto A.
Mi piacerebbe dire di si, il gioco offerto nella scorsa Regular Season dalla truppa di Budenholzer è stato entusiasmante, ma se ripetersi dopo un importante exploit è difficile, farlo senza un giocatore così importante negli equilibri offensivi e difensivi della squadra lo è ancora più.  Demarre Carrol infatti ha accettato l’importante offerta contrattuale di Masai Ujiri, andando a creare un importante buco nel ruolo di ala piccola nel roster di Atlanta: la capacità di segnare sugli scarichi e difendere con aggressività su ben 2 ruoli lo rendevano indispensabile alla causa di Budenholzer, che ora sarà costretto ad adattare altri tipi di giocatori in quel ruolo. C’è molta curiosità attorno al possibile “quintettone” con in campo contemporaneamente Millsap, Horford e Splitter, chissà se l’ex assistente di Popovich riuscirà anche in questo miracolo.

Marco B.
Ripetere 60 vittorie? Praticamente impossibile, ma Atlanta può contare sul miglior coach della Eastern Conference e su un roster che ha sì perso qualità in SF (Carroll volato a Toronto), ma ha guadagnato profondità in tutti gli altri ruoli. Tavares e soprattutto Splitter consentiranno finalmente ad Horford di agire da ‘quattro’, l’innesto di Hardaway jr sarà fondamentale per preservare Kyle Korver in vista dei playoff, mentre Justin Holiday è un giocatore che ha ben figurato nei pochissimi minuti avuti a Golden State (44% da tre lo scorso anno). Ci vorrà del tempo ai nuovi per inserirsi nel sistema di Budenholzer, ma 50W sembrano alla portata...

"Teamwork"...

Marco M.
Confermarsi é sempre molto difficile, e lo sarà in particolar modo per gli Hawks, già in calo durante l'ultimo segmento della scorsa stagione. Nonostante sia rimasto Millsap, la mancanza di Carroll (vero collante della squadra andato a Toronto con un esorbitante 60x4) si farà sentire specialmente in difesa, probabile punto forte della squadra anche il prossimo anno (non stupisce che coach Budenholzer abbia già proposto ai suoi allenamenti per migliorare i rimbalzi difensivi).
Si giocheranno con Washington il primato della Southeast, ma sarà quasi impossibile vederli nuovamente col primo seed di conference.


3- Anche alla luce dei cambiamenti nei vari roster, quali franchigie possono essere considerate le altre favorite per giocarsi i primi posti?

Alberto A.
Dopo Cleveland vedo un gruppo molto numeroso di squadre sicure della post season ma che lotteranno fino all’ultima giornata per un posto tra le prime quattro (il che vuol dire fattore campo ai playoffs): Chicago, Washington e Toronto sono le favorite in quest’ordine, ma Milwaukee e Miami con i nuovi arrivi sono pronte a scalzare di lì non appena una di queste tre dovesse fare qualche passo falso. Sarà interessante vedere se Hojberg aumenterà realmente l’efficienza offensiva della squadra che dopo anni di sofferenza con Thibodeau potrà trovare un po’ di sollievo in attacco con spaziature migliori e ritmi più elevati.

Marco B.
Per la conquista del fattore campo al primo turno di playoff (oltre alle sopracitate Cleveland e Atlanta), partono leggermente favorite sulle altre: i Bulls, che nonostante il cambio in panchina restano una squadra ricca di talento, e Milwaukee, che ha aggiunto al gruppo della scorsa stagione un pezzo da 90 come Greg Monroe (e spera di recuperare al più presto Jabari Parker). Leggermente staccati i Wizards, da registrare senza un veterano come Pierce, e i Raptors, che possono comunque contare sulla pochezza della Atlantic Conference per raggiungere un record da oltre 40 vittorie.

Marco M.
Washington e Chicago. I Wizards hanno perso Pierce, ma puntano sulla definitiva esplosione di Beal (in odore di ricco rinnovo), sulla crescita di Porter e, soprattutto, sul miglior mid-range game dell'intera lega. Sembrano corti sotto le plance, ma senza infortuni gravi e con il Wall dello scorso anno potrebbero ambire a qualcosa di più del quinto posto. Chicago ha cambiato allenatore, e l'arrivo di Hoiberg potrà solamente far bene ad un attacco troppo stagnante nelle ultime due stagioni; tra le note positive la coppia di lunghi Gasol-Noah e il rinnovo di Jimmy Butler, ormai tra le prime tre SG della lega. Non convincono troppo la tenuta fisica di Rose, ancora una volta sotto i ferri per un intervento facciale, e i pochi punti dalla panchina, nonostante Gibson, Mirotic e Hinrich siano delle assolute garanzie. Se il fisico di Rose reggerà sono da secondo posto, altrimenti è in dubbio la presenza a fine maggio alle Finali di Conference.

Le migliori 10 giocate di Butler nella scorsa stagione.

Alberto G.
Cleveland, poi Cleveland e infine ancora Cleveland. Dietro, a partire dal quarto posto è bagarre tra Chicago e realisticamente la nuova Miami firmata Pat Riley, infortuni permettendo. I Bulls schierano tra le loro file il principe catalano nonché matador di Eurobasket, ovvero Pau Gasol, e possono contare sul debordante talento di Jimmy Butler finché la speranza di rivedere un Rose competitivo non sarà scemata del tutto. Miami invece ha un quintetto interessante con Whiteside polo difensivo e il terzetto Dragic - Wade - Bosh a giostrare la fase offensiva: old, but gold dicono di là dall'Atlantico. Niente di più vero. A loro si aggiungono una serie di ottimi mestieranti per gli standard Eastern Conference come Luol Deng (se recuperato), Gerald Green e il rookie Justise Winslow. 


4- Quale sarà la franchigia destinata a migliorare maggiormente il record della passata stagione e quale invece a peggiorarlo?

Marco B.
I New York Knicks non dovrebbero aver problemi ad incrementare di 15 se non di 20 il loro numero di vittorie: hanno aggiunto giocatori solidi come Arron Afflalo, promesse come Kristaps Porzingis ed altri che sembrano fatti dal sarto per giocare la "Triple Post Offense" (vedi Kyle O’Quinn). Ah, rientra anche un certo ‘Melo Anthony. La squadra candidata invece a subire la flessione più importante in termini di record sono i cugini dei Brooklyn Nets: la panchina è fra le peggiori della lega, Joe Johnson è in netta parabola discendente e tutto l’attacco si basa sul talento di Brook Lopez e Andrea Bargnani, due lunghi "spesso" soggetti ad infortuni.

Per chi non conoscesse la "Triple Post Offense".

Alberto G.
Quotazioni sicuramente in rialzo per i Milwaukee Bucks: la franchigia del Wisconsin ha messo le mani su uno dei pezzi pregiati della FA, ovvero Greg Monroe, centro old school in grado di mettere una pezza alla sterilità offensiva che ha contraddistinto la Milwaukee post trade per Carter-Williams, soprattutto contro la difesa schierata. Poca fiducia invece nei confronti dei Toronto Raptors. La squadra canadese ha ristrutturato la second-unit assoldando una manica di atletoni defensive-minded pronti a mettere pressione sulla palla e sulle linee di passaggio andando così a lenire i difetti strutturali dello scorso anno, ma finché DeMar Derozan (ancora career low in eFG%) e Kyle Lowry continueranno il loro personalissimo regno del terrore beh, auguri. 

Marco M.
Indiana e Brooklyn. I Pacers ritrovano Paul George e, seppur non irresistibili sotto canestro, potranno essere guidati dalla loro stella ai playoff dopo l'esclusione al fotofinish dello scorso anno. La difesa dovrebbe rimanere solida grazie ai dettami di Vogel, e l'inserimento di Monta Ellis (probabilmente il miglior affare estivo in rapporto qualità/prezzo) aiuterà non poco l'attacco dei Pacers, 23esimi per offensive rating lo scorso anno.
Brooklyn si troverà di fronte a un anno di transizione, e avrà come uniche certezze Joe Johnson e il poco sano Brook Lopez: dalla salute del centro passeranno le speranze di post-season, ma la panchina continua a non convincere e, oltretutto, il progetto di Prokhorov sembra sempre più una follia ogni giorno che passa.

Alberto A.
Difficile scegliere la squadra che peggiorerà maggiormente il proprio record ma credo che proprio Atlanta, per i motivi sopracitati, farà molta fatica questa stagione. È vero che il buon gioco rimane pure togliendo qualche tassello, però ripetere la scorsa stagione, anche dal punto di vista delle motivazioni, sarà estremamente dura.  La squadra che invece migliorerà maggiormente il suo record probabilmente saranno i nuovi New York Knicks che, dopo una offseason finalmente gestita con criterio sembrano avere un progetto tecnico credibile, con giocatori funzionali al sistema e con un Carmelo Anthony più desideroso che mai di lottare per un posto ai PO. Non avendo nemmeno la prima scelta al draft del prossimo anno verso fine stagione i Knicks recupereranno diverse posizioni, diventando una seria pretendente al tanto ambito ottavo posto.


5- Due nomi: una squadra e un giocatore che ci sorprenderanno in positivo.

Marco M.
Orlando e Kemba Walker. I Magic hanno finalmente trovato un allenatore capace di imprimere una cultura e una work-ethic di un certo tipo, la panchina si é rinforzata e se Oladipo ed Harris continuassero a migliorare da oltre l'arco in Florida Centrale si potrebbe rivedere il sole dopo più di tre stagioni. Senza considerare il talento di Hezonja (fortemente voluto da Hennigan già quest'anno) e, soprattutto, Aaron Gordon, pronto a soffiare il posto da titolare a Frye, comunque utilissimo per aprire il campo alle penetrazioni di Oladipo e ai tagli di Harris. I playoff non dovrebbero arrivare a causa del totale ground zero tecnico lasciato a Skiles, ma 35 vittorie non sono proprio utopiche.
Big Shot Kemba é alla quinta stagione, ha recuperato dopo il brutto infortunio dello scorso anno, ha il posto sicuro e, soprattutto, una squadra che potrebbe metterlo più a suo agio rispetto a Stephenson ed Henderson. Le pericolose lacune al tiro sono state colmate con gli arrivi di Batum e la scelta al draft di Kaminsky, e l'intero organico sembra più disciplinato rispetto allo scorso anno.
Probabile che il MOP 2011 migliori sensibilmente la casella "assist", forte anche del buono inizio dello scorso anno, e che, con un po' di fortuna, possa guidare i suoi ai playoff.

Orlando è anche questa roba qua...

Alberto A.
La squadra rivelazione della Eastern Conference mi piacerebbe fossero gli Orlando Magic di Scott Skiles che si ritrova tra le mani un potenziale difensivo straordinario, perfetto per la sua idea di pallacanestro vincente. Magari non otterranno grandi risultati fin da subito, ma la rinomata capacità di Skiles di costruire in un paio di anni al massimo un eccellente sistema difensivo, pone gli Orlando Magic in una situazione molto intrigante e da seguire con attenzione per gli anni a venire. Sul giocatore rivelazione della prossima stagione punto tutto su Bradley Beal, giocatore estremamente versatile pronto a replicare per 82 partite tutto ciò che di buono ha mostrato negli scorsi playoffs, chiusi con una produttività offensiva da stella assoluta: il contract year è il vero turning point della carriera di ogni giocatore nba, e sono certo che Beal non si farà sfuggire questa occasione.

Marco B.
Mi attendo sviluppi importanti dagli Orlando Magic, non tanto in termini di risultati, ma nel trovare finalmente un’identità di squadra (improntata sulla difesa, tanto cara a Scott Skiles).
Otto Porter sarà una piacevole sorpresa in quel di Washington: il degno sostituto di JaVale McGee nelle top 5 di Shaqtin’ a Fool, gioverà dell’aumento di possessi dei nuovi Wizards, e avrà spazio in abbondanza dopo la partenza di Paul Pierce in direzione L.A.

Alberto G.
Sorpresa? Difficile, la Eastern è cambiata tanto per non cambiare affatto, il livello medio resta desolante. Punterei sul tandem team -giocatore Indiana - Paul George, entrambi chiamati a riscattarsi dopo una stagione ai box. Indiana interpreterà una pallacanestro più dinamica è vicina agli standard della Western, scelta che potrebbe pagare vista la durezza mentale tipica della squadra di Vogel. George invece si caricherà sulle spalle i compagni nel tentativo di rovinare la festa a James, occhio perché il ragazzo scalpita e potremmo vederlo alle prime posizione della MVP race tra Marzo e Aprile.


6- Quale dei rookie finiti nell'Eastern Conference avrà l'impatto migliore con l'NBA?

Alberto A.
Ad inizio stagione prevedere il rookie dell’anno è sempre una lotteria, e l’anno scorso in molti hanno preso clamorosi abbagli. Personalmente vado su Myles Turner, lungo atletico ed estremamente interessante, tanto da far innamorare di lui nientemeno che Larry Bird, disposto a (quasi) tutto pur di vederlo protagonista fin da subito. Il nuovo contesto tattico di Indiana è adatto al suo tipo di gioco e un giocatore con quelle qualità atletiche unite alla mano morbida dalla lunga distanza lo rendono l’ideale per sostituire difensivamente Hibbert e migliorare le spaziature in difesa.

Marco B.
Jahlil Okafor sarà probabilmente il migliore nelle voci statistiche, grazie soprattutto all’ampio spazio che troverà a Phila (anche in ottica trade?), ma il suo innesto difficilmente cambierà le sorti dei Sixers…quindi se dovessi giocare un euro lo punterei su Stanley Johnson. I Pistons hanno una voragine nel ruolo di SF, e il prodotto di Arizona University garantisce di sicuro difesa, rimbalzi e tantà fisicità. Da verificare le % da fuori, ma se manterrà la cattiveria agonistica vista in SL e preseason, si divertiranno in quel del Michigan.

Alberto G.
Per venerazione personale punto tutto (casa, vestiti, salvadanaio) su Frank Kaminsky. La competizione con Cody Zeller non dovrebbe essere un grosso problema per coach Steve Clifford, e Kaminsky ha le qualità tecniche, la comprensione del gioco, l'autostima e l'autoironia per diventare un protagonista in campo e fuori per questa lega. La coppia Kaminsky - Jefferson potrebbe rivelarsi gustosissima in una serie di possessi anni '90 al gomito. Old School, che vuol dire Will Ferrel, che vuol dire The Tank, che vuol dire Frank Kaminsky.

Meglio con la palla in mano? Nah...

Marco M.
Jerian Grant. É sempre più semplice, per un rookie, emergere in un contesto perdente: si é giovani, pagati poco, e con molto margine di errore a causa delle tante attenuanti dovute all'età, all'adattamento e all'inesperienza. É per questo che il fratello di Jerami, reduce da un grandissimo senior year a Notre Dame, potrebbe trovare da subito minuti da PG a New York, in uno spot che, ad oggi, vede come rivali Langston Galloway e José Calderon (non proprio Steph Curry e Chris Paul). La stazza, il primo passo e gli istinti per il passaggio e l'anticipo potrebbero garantirgli un posto in rotazione fin dal day one, e non é così folle scommettere su di lui per un posto al rookie challenge e, in generale, come sorpresa di questo anno.     


"Fuori Dagli Schemi ringrazia Alberto Ambrosio e tutta la redazione di Pick and Pop Culture."


A cura della redazione di Pick&Pop Culture



mercoledì 21 ottobre 2015

Guanjun

Si dice così "campione" in cinese, o almeno credo. Lo è Djokovic, ancor di più dopo l'ennesimo trionfo. Lo sono stati, e lo sono ancora, Nadal e Federer: a Shanghai il termometro del loro attuale stato di salute.

di Federico Principi







Non preoccupatevi, non conosco il cinese ma ho buoni informatori. Appena ho deciso che avrei scritto un pezzo di analisi post-Shanghai ho immediatamente contattato il mio amico linguista di fiducia: mi è stato detto (e se non è corretto prendetevela con lui, io non c'entro niente) che "campione" in senso sportivo, in cinese, si pronuncia proprio "guanjun". Prendendo spunto dai ruffiani ideogrammi che Djokovic disegna sulla telecamera, ho provato anche io ad attribuire una originale definizione al serbo. Guanjun. Un bisillabo che Nole avrà forse ascoltato spesso nelle ultime due settimane in Oriente, chi lo sa.

Va da sé dire che il guanjun del momento stia silenziosamente riscrivendo i record: ha conquistato per la sesta volta Pechino senza aver mai perso un match in carriera nella capitale, e con il Masters 1000 di Shanghai ha superato Federer nella classifica storica di tornei vinti nella categoria dei vecchi Masters Series. Djokovic è contemporaneamente nuovo uomo e nuovo giocatore. Sempre più solo. Ma le vecchie corone tentano di resistergli, in qualche modo.


Un uomo in fuga
L'epoca ciclistica delle fughe solitarie dei campioni sembra ormai tramontata, assorbita nel robotico concetto di lavoro di squadra e maniacale controllo del gruppo attraverso i gregari e le ammiraglie. L'approccio attuale che ha Djokovic nei confronti del tennis è molto simile all'attitudine mostrata da Froome al Tour del 2013, sulla salita del Mont Ventoux. Il serbo si mette in campo e mulinella, senza strappi né violente accelerazioni, consapevole di possedere un ritmo medio assolutamente superiore alla concorrenza.

Di Froome condivide anche l'affinità alla noia che buona parte dell'opinione pubblica ha proposto, incapace di comprendere quanto sia invece esaltante scoprire minuscoli segreti di fabbricazione di un campione di simili dimensioni, sotto tutti gli aspetti: tecnico, fisico e mentale. Nonché assistere alla incessante e martellante catena di montaggio di colpi profondi per lunghezza o stretti per aprirsi il campo, alla capacità di rovesciare immediatamente lo scambio in contrattacco, senza subire la velocità della palla avversaria: un'arte apparentemente invisibile, fruibile da pochi.

Il match andato in scena nella domenica cinese, oltre che rappresentare una delle più brutte e scontate finali Masters 1000 della storia (ex aequo con Nadal-Raonic a Montreal nel 2013), è stato in realtà una corrida. Tanto segnato era il destino di Tsonga che sarebbe perfino potuta balenare in mente l'ipotesi che se non fosse riuscito Nole da solo a sconfiggere il francese (evento quanto mai improbabile), qualcuno sarebbe sceso in campo ad affiancare il numero uno del mondo, assistendolo nell'esecuzione del toro. Per preservare l'ordine naturale del cosmo.

Sostanzialmente la partita finì al primo break di Nadal, nel terzo game.

Ho approfittato della finale, così come dei precedenti turni che hanno visto in campo Djokovic, per cercare principalmente di intravedere qualche impercettibile crepa o insicurezza nella perfetta fabbricazione della macchina da titoli. Quelli che in gergo motoristico vengono definiti come "problemi di affidabilità", le uniche speranze per i gregari (chiamali gregari: Federer, Murray, Nadal, Wawrinka, Nishikori) a cui aggrapparsi per poter strappare qualche singolo successo, magari di spicco o di rilievo, al cospetto del nuovo dittatore. Ho fatto molta fatica.

Non era certo Tsonga il Pokémon più adatto per sfidare il re della palestra, ma Murray ha deciso di eliminarsi da solo mandando in campo in semifinale il suo gemello: identico fisiognomicamente, molto più svogliato, molto più scarso. Ci siamo quindi dovuti accontentare di Cassius Clay per tentare un ultimo disperato assalto alla sorpresa della settimana, rimasta poi in realtà la vittoria di Ramos su Federer della quale riparleremo. Aveva preceduto la finale annunciando intenzioni (sportivamente) bellicose: «Non tirerò che bombe» le apparentemente minacciose dichiarazioni pre-partita del mulatto francese. Si augurava di ripetere il doppio 6-2 con cui aveva prepotentemente estromesso Nole dal Masters 1000 di Toronto dello scorso anno, poi vinto da Tsonga stesso: era però un Djokovic post partum, che avrebbe ceduto perfino a Robredo (rispettabilissimo e pure un mio grande idolo, ma è pur sempre Djokovic contro Robredo sul cemento) la settimana successiva a Cincinnati.

«Il servizio è il colpo su cui si baseranno le sue speranze»: aveva esordito così Elena Pero in telecronaca, tentando disperatamente di trovare qualche appiglio per creare interesse ad una partita della quale avevamo evidentemente tutti già visto le scene conclusive. Soprattutto già al terzo game: doppio break immediato per Djokovic in apertura, con Tsonga assalito dalla classica ansia di chi sa di dover esprimere una prestazione oltre il proprio potenziale per tentare di fare partita pari. Il francese è entrato troppo tardi nella propria dimensione, e non è stato comunque sufficiente.

La finale di Shanghai.

La Pero non aveva effettivamente tutti i torti: considerando le statistiche annuali al servizio, nonostante l'ampia discrepanza di livello e di classifica i numeri erano molto simili. Spiccava una differenza sostanziale: la forbice tra punti vinti con la prima e con la seconda, molto più ampia per il francese. Si sa che Tsonga non sia in possesso di una seconda estremamente velenosa: contro Nadal in semifinale ha servito le seconde palle ad una media oraria molto vicina a quella dello spagnolo, che non è uno specialista del colpo. A questo si aggiunge il fatto che non sembra avere un repertorio di tagli al servizio molto fastidiosi (kick o slice, per intenderci) e tirando le somme la sua seconda palla sia mediamente attaccabile. Niente a che vedere con i TGV lanciati con la prima.

Djokovic ha +15% di punti vinti con la prima rispetto alla seconda, in tutto il 2015. Tsonga allarga la differenza a +24%.

Le statistiche annuali non sono però indicative del rendimento nei singoli match. La qualità dei giocatori affrontati può essere differente a seconda dei tornei scelti o dei sorteggi. I dati possono risultare altalenanti soprattutto prendendo in considerazione giocatori non di primissima fascia, per non dire seconda, soggetti a mutamenti sostanziali tra un primo turno contro Gimeno-Traver o una semifinale contro Murray. Più in linea rimangono invece i numeri, quasi sempre altissimi, dei primi della classe.

Tsonga ha pesantemente sporcato le sue statistiche al servizio nella finale di Shanghai contro Djokovic. C'era da aspettarselo, forse non in questi termini. La percentuale di prime in campo è stata in linea con la media stagionale (64% contro 63%): forse perfino troppo bassa, partendo dal presupposto che contro Djokovic in generale, e per lui in particolare, è un'impresa titanica portare a casa un punto su due, o perfino uno su tre, quando si serve la seconda. Lo stesso Federer a New York non era andato oltre il 46%.

Numeri al servizio della finale cinese.

È andata peggio del previsto sulla seconda palla. I numeri qui sopra dicono che Tsonga ha totalizzato solamente quattro punti: non c'è nella stessa statistica la percentuale reale di punti portati a casa con la seconda, deducibile dal semplice calcolo aritmetico dato dalla somma con i punti in risposta di Nole, sempre sulla seconda di Tsonga. Il risultato finale è che il francese ha uno score del 16%: insufficiente. Sarebbe un dato accettabile con una percentuale di prime in campo aggiratasi intorno all'85% o perfino qualcosa di più, totalmente utopistica.

Statistiche in risposta della finale di Shanghai. A sinistra i numeri di Djokovic, a destra Tsonga.

Questa ultima grafica evidenzia inoltre quello che sarebbe stato un ineluttabile destino: la differenza di punti totali in risposta. Con il 49% Djokovic mette a segno un dato mostruoso per un match di quel livello, e che Tsonga si sia fermato al 17% non sorprende molto. Il francese ha avuto talmente poche possibilità che ha perfino messo a segno un punto in più sulla prima di Djokovic rispetto alla seconda: chiaro segnale di una strada totalmente sbarrata.

Non era dalla risposta che sarebbe passato l'improbabile successo del mulatto di Le Mans, quanto piuttosto nei game di servizio. Tsonga avrebbe dovuto fare il possibile per aumentare al massimo le percentuali di probabilità di successo nei propri turni di battuta. Con una velocità e una resa sulla seconda praticamente nulle, rimanevano due possibili strade: aumentare la percentuale di prime ben oltre il 70% abbassando di poco le velocità, senza confermare i dati abituali di prime in campo (perché quando si sfida Djokovic non c'è niente di abituale). Oppure, in alternativa, scegliere la strada forse preferita al suo istinto: forzare la seconda, sia nelle velocità che nella precisione e nella profondità. Le due prime di Ivanisevic sono forse un'idea di gioco irriproducibile per il francese, ma era comunque il caso di rischiare qualche doppio fallo in più, pur di tentare di avere il gioco in mano anche con la seconda palla. Per lo meno per giocarsela in qualche eventuale tie-break, completamente scongiurato.


Uccidere il mostro
Duole molto sostenere, per chi come il sottoscritto è cresciuto con la perfetta dicotomia del Fedal (fusione dei due cognomi più famosi del tennis), che Djokovic 2015 sia probabilmente il giocatore più vincente dai tempi del Grande Slam di Rod Laver nel 1969. Un successo a Parigi-Bercy andrebbe inoltre a ritoccare il personale record (condiviso attualmente con Nadal 2013) di Masters 1000 vinti in una stagione, in quel caso sei. Sei su nove.

Come già detto prima, la curiosità maggiore che avevo era quella di riuscire a scoprire che cosa in questo momento possa mettere in crisi Djokovic. Quale strada percorrere, con forza e continuità, per metterlo in difficoltà, insinuargli dubbi, sgretolargli qualche certezza acquisita recentemente anche nelle situazioni tattiche o psicologiche che in passato lo avessero tormentato. Oltre il classico e banale "forte e sulle righe" (e in alcuni casi non basta neanche quello), da Shanghai non ho avuto risposte.

Nole è riuscito ancora a migliorare servizio e dritto rispetto alle passate stagioni in cui era già numero uno. Probabilmente anche e soprattutto l'incremento di autostima ha contribuito a facilitare la scioltezza e la velocità delle esecuzioni: non sempre in passato il serbo dava estrema continuità ai propri picchi di rendimento. La stessa finale del Roland Garros di quest'anno è stata probabilmente una piccola, sportivamente drammatica, ricaduta in qualche incertezza del passato. Il braccio, sul dritto, non andava veloce e con esso neanche la palla a seguito dell'impatto. Ma è rimasto sostanzialmente un unicum di una stagione in cui mente e corpo sono andati in automatico.

Esattamente un anno fa, nella finale di Pechino contro Berdych, Djokovic ha avuto sul proprio servizio la palla per chiudere il doppio 6-0. Non ha sicuramente messo su quella palla la stessa cattiveria che avrebbe sul 6-5, avendo poi ceduto il servizio e chiuso 6-2. Il Nole attuale sembra aver dato continuità a quella prestazione talmente inconcepibile da aver spinto lo stesso Berdych a dichiarare di non aver mai affrontato un giocatore di quel livello. Djokovic non strappa più violente accelerazioni, né azzardate smorzate: il suo gioco è composto e lineare, perfettamente equilibrato ed automatico. È talmente rilassato e convinto di sé che non emette più alcun gemito, come aveva invece abituato in passato specialmente nei punti importanti e nelle partite complicate.

VirtuaTennis modalità "facile".

La superficie dura ("cemento" è un'approssimazione giornalistica) è studiata apposta per il serbo, e le due settimane cinesi non hanno fatto altro che confermare l'assoluta inossidabilità del numero uno su questi campi, se non si incarta da solo. La superiorità di Djokovic è talmente evidente da lasciarlo tranquillo e confidente nello scambio, senza la necessità di spostarsi sul dritto e caricare palle medio-lente nella zona centro-sinistra del suo campo: inutile cercare di aggredire e aumentare il volume della pesantezza di palla con il rischio di aprire la zona destra all'avversario. Il rovescio, come ormai da più di un decennio, va da solo ed è più che sufficiente per tenere il palleggio alla velocità media di Nole, che per quasi tutti gli avversari diventa velocità massima.

Trovare qualche zona grigia nella sua ragnatela è pressoché impossibile su questo tipo di superficie. Djokovic è più attaccabile sulla terra, nel momento in cui l'avversario sia in possesso di una pesantezza di palla mediamente maggiore, e decida e soprattutto riesca a impostare il match prevalentemente su questo aspetto. A dispetto infatti di quanti sostengono la superiorità atletica di Nadal sul serbo negli ultimi anni come fattore decisivo per le vittorie nei Roland Garros precedenti all'ultimo, lo spagnolo ha sconfitto Nole soprattutto in fatto di pesantezza di palla: il dritto mancino, in particolare, è riuscito a salire sopra la velocità media dei colpi del serbo, mediamente più alta, anestetizzandoli quel tanto che bastava per rallentarli. Un discorso piuttosto simile si potrebbe trapiantare anche alla finale dell'ultimo Roland Garros, dove Wawrinka è riuscito grazie alle sue palle mediche da 5 kg a tenere lontano Djokovic dal campo, rendendolo molto piccolo. Contributo decisivo fornito anche dall'ansia di Nole per il risultato della carriera e la sfrontatezza dello svizzero, sfavorito e con poco da perdere.

Almeno nel 2014 Nadal non era più superiore atleticamente a Djokovic, anzi. Ma la maggiore pesantezza di palla gli ha consentito di marcare quella differenza decisiva.

Anche sui prati verdi, soprattutto quelli immacolati di inizio torneo dove è più complicato muoversi, Djokovic ha evidenziato qualche piccola crepa. Il dritto in particolar modo, se pressato con attacchi veloci e penetranti, ha mostrato qualche apparentemente impercettibile segnale di debolezza. Nole usa un'impugnatura che viene classificata come "3/4 western": molto aperta, piuttosto estrema, inadatta ad incontrare una palla bassa che su erba è abbastanza frequente. Superfici simili sono però una grande rarità: le palle rimbalzano mediamente più alte e il grip del serbo è assolutamente in linea con gli standard presenti e futuri.


Uccidere il mostro è diventata quindi una grossa impresa. Entrambi gli scenari (su terra ed erba) proposti restano in ogni caso delle situazioni tattiche che nessun avversario è più capace di riprodurre con costanza. Per lo meno quella di cui ci si deve fornire prima di affrontarlo ad armi pari. E la più grande malinconia generata dalla dittatura del serbo è quella di aver creato il forte sospetto che Nadal e Federer siano ormai tramontati: qualcuno, per trovare un valido antagonista, sta già proiettandosi su talenti futuri.


I vecchi re
L'ultima asserzione non trova, chiaramente, molto d'accordo Roger e Rafa. Lo spagnolo in particolare sembra piuttosto in crescita: nonostante la trasferta in Oriente abbia quasi sempre rappresentato il punto più basso delle sue stagioni, era davvero difficile scendere ulteriormente rispetto al livello mostrato per quasi tutto il 2015.

Il fatto che Nadal si sia dichiarato molto soddisfatto della prestazione a seguito del doppio 6-2 incassato da Djokovic a Pechino la dice lunga. Per mesi si è insistito sul calo atletico subito pesantemente da Rafa in quest'ultima stagione, che va però assolutamente sottoposto ad un ancora più marcato cedimento mentale. Perdere un set in cui hai quattro palle consecutive per chiuderlo (Roma 2015 contro Wawrinka) non è ascrivibile a scarsa forma atletica. Perdere due incontri su terra contro Fognini è la stessa cosa. Affossare in rete dritti che negli anni d'oro andavano ad occhi chiusi a baciare le righe, lo è ancora di più. Specialmente nei punti importanti: un tempo il terreno di caccia preferito, da qualche mese il vero problema.

Nadal si è detto soddisfatto dopo una prestazione così. Segno evidente che i suoi standard si siano abbassati.

Non voglio certo giungere alla conclusione che le prestazioni atletiche di Nadal siano vicine a quelle dei tempi migliori e che la questione riguardi esclusivamente la sua psiche. Semplicemente non era sufficiente giustificare le premature sconfitte con una carenza di forma fisica. Vero è che la fiducia va di pari passo con la condizione atletica, ma l'autostima di Nadal era scesa ben al di sotto della soglia consentita dalle sue nuove, inferiori, potenzialità. Credo che Rafa se ne sia accorto: accettando di aver diminuito la cilindrata, sta comunque tentando di ricavare il massimo che il corpo e il braccio gli consentono al momento. Quello che aveva magistralmente spiegato nella sua autobiografia: "Resistere significa accettare. Accettare le cose come sono e non come vorremmo che fossero, e poi guardare oltre, non indietro. Il che significa capire esattamente dove si è e ragionare con freddezza".

Una grafica proposta durante il match di Shanghai contro Wawrinka faceva un'interessante comparazione tra la posizione in campo di Rafa nel momento di colpire durante il torneo cinese con la stessa dell'ultima edizione di Indian Wells. Ne è uscito un ritratto di un maiorchino molto più avanzato e di conseguenza propositivo, capace di colpire perfino il 30% di palle dentro il campo. Lo aveva detto qualche mese fa lo zio Toni: «Nel 2005 Rafa perse a Wimbledon contro Müller registrando tre errori gratuiti. Dovrà essere molto più propositivo, non voglio più vedere una statistica di errori così bassa». Pronto anche un nuovo modello Babolat, Pure Aero, a partire dal 2016: garantirà probabilmente più spin alla palla. Compensando quello che Nadal ha perso, in conseguenza del suo calo di massa muscolare.


Nadal prova a stare più dentro al campo.

Il terzo game del terzo set nella semifinale contro Tsonga è la prova del recupero di autostima dello spagnolo, quasi ai massimi livelli: servendo sotto 0-40, Nadal gioca probabilmente i migliori punti dell'anno. Quando dovrebbe chiudere non riesce invece ad avere la stessa fluidità: l'attacco di dritto sul 5 pari è timido e Tsonga, passandolo, piazza il break. Nonostante una percentuale di prime in campo dell'85% nel solo terzo set, il francese ha servito solo due prime su sei punti (33%) nel game conclusivo. Nadal non è riuscito ad approfittarne come avrebbe invece spietatamente fatto in passato: non è guarito, ma è convalescente.



Parlando di Rafa avrò probabilmente fatto riaffiorare qualche demone recondito nell'inconscio dei tifosi di Federer. Se lo sono ritrovato di fronte al secondo turno (il primo in realtà per lo svizzero) del torneo, sotto forma di Albert Ramos. Un simpaticissimo spagnolo, già noto ovviamente agli appassionati, che ho avuto il piacere di conoscere (essendo io marchigiano) questa estate al Challenger di San Benedetto del Tronto. Uscì dal circolo sudato e con la borsa in spalle, stranamente diretto a farsi la doccia in albergo: una scena estremamente divertente, della quale ho ovviamente approfittato per fare foto e scambiare due chiacchiere veloci. Pur consapevole della sua forza, confermata ai miei occhi dal vivo al "Maggioni", mai mi sarei aspettato di vederlo sconfiggere Federer di prepotenza, a maggior ragione sul duro.


Definire Ramos un clone di Nadal in scala 1:2 sarebbe fin troppo semplicistico, anche in considerazione del fatto che soprattutto i rispettivi dritti mostrano alcune differenze sostanziali. La palla di Ramos è più pulita ma non per questo più efficace, e il movimento più composto rispetto a quello di Rafa (molto più raramente opta per il finale sopra la testa, grande prerogativa del fuoriclasse di Maiorca) gli impedisce di produrre quello spin mortale che sporca notevolmente la palla rendendola però molto più velenosa.


Nonostante questo, Federer ha eccessivamente sofferto quell'accenno di nadalismo che il suo avversario di secondo turno ha voluto a tutti i costi tentare di riprodurre più fedelmente possibile, giustamente. A partire dal servizio, dove gli slice mancini sul rovescio di Roger erano più puntuali dei treni all'epoca del fascismo (o almeno così si dice, chissà se era vero). Fino ad arrivare alla perfetta costruzione del punto con il dritto: Ramos ha giustamente insistito il più possibile sulla diagonale sinistra, come il suo più titolato connazionale ha impeccabilmente fatto per un decennio.



Diagonale sinistra: minuto 0:52.

Ramos ha così spostato Federer in una posizione sempre più vicina al proprio corridoio sinistro. Lo svizzero ha cercato il più possibile di coprire il rovescio e tentare di giocare il dritto anomalo con la chiara intenzione di rovesciare l'inerzia dello scambio. Ma spostandosi verso sinistra, Federer ha aperto qualche varco in più all'intelligentissimo spagnolo, che ha sorpreso Roger con dritti lungolinea anche in punti chiave della partita.


Minuto 10:40: occhio al punteggio. Il punto che in realtà decide la partita è risolto con un dritto lungolinea.

Si è quindi riproposto un problema forse cronico per il vecchio re del tennis: la difficoltà di trovare il giusto timing sul rovescio quando viene pressato proprio da quel lato, e il conseguente pericoloso rallentamento del braccio per evitare errori. In realtà, però, l'atteggiamento più passivo con il rovescio dà più sicurezza all'avversario che riesce con successo a impostare la partita martellando da quel lato. Federer avrebbe dovuto accelerare l'entrata sulla palla, anche a costo di scentrare qualche palla in più, ma senza cadere nella trappola della diagonale sinistra: soprattutto contro un avversario mancino, e per di più in giornata di grazia.

Avrebbe potuto ugualmente vincere la partita, chiaramente, limitando il più possibile queste situazioni quasi irrimediabilmente sfavorevoli e sfruttando tutte le altre abilità di cui dispone. Forse un leggero richiamo di preparazione atletica, in vista del Master, lo ha leggermente contratto nelle gambe. Federer sa che Murray sarà quasi sicuramente assente, con vista sulla Coppa Davis, e sa che i campi indoor sono probabilmente il miglior terreno su cui giocare le proprie carte. Anche contro un Djokovic così: forse per l'ultima volta.


Articolo a cura di Federico Principi