venerdì 29 maggio 2015

Unai Emery, lo scultore di finali


Poco tempo fa, quelli che seguono Unai Emery si sono stupiti per una frase. La scorsa stagione, dopo un derby con il Betis pieno di passione, l’allenatore spagnolo fu tacito, sincero, il suo Siviglia "aveva saputo competere". Competere, un qualcosa che non solo è implicito nel suo Siviglia, ma è un'essenza che lo ha accompagnato ovunque lui sia passato.

Un cammino di gloria, lavoro, illusione e fatica.




Calciatore modesto, senza una grande carriera nell'élite del calcio, è stato il ruolo di allenatore che lo ha messo tra i grandi. Terzino sinistro, prima di passare per squadre più rappresentative del calcio spagnolo, Emery ha dimostrato la sua abilità con il pallone in squadre come la Real Sociedad, il Club Deportivo Toledo, il Racing di Ferrol, il Leganès e infine il Lorca, squadra dove appese gli scarpini al chiodo e prese coscienza di quello che sarebbe stato il suo hàbitat naturale: la panchina.




La sua mente aperta e il suo voler imparare lo hanno portato a unire la sua carriera come calciatore con lo studio. Così, le sue tappe a Ferrol, Leganès e Toledo furono accompagnate dal titolo nazionale di allenatore e dalla laurea in "Gestione e amministrazione di aziende sportive", una prova di una mente sempre in lavoro. Forse proprio quella che lo ha portato ad essere oggi uno degli allenatori più in voga nel panorama calcistico mondiale.  

Questa situazione gli aprì una nuova via. Era la giornata 17 della stagione 2004/2005 quando il Lorca cambiò il destino di Unai Emery. Pedro Reverte, presidente e direttore sportivo della squadra di Murcia, oltre che amico personale di Unai, prese una decisione che gli avrebbe cambiato la sua vita. Era il momento che il guipuzcoano prendesse in mano la squadra. A soli 33 anni, la sua vita cambiò completamente.
Nacque suo figlio, si sposò e portò il modesto Lorca in Segunda Division. In meno di tre anni, il Lorca passava dalla fondazione alla gloria lottando nella categoria di plata, come la chiamano in Spagna, e questo si dovette in gran parte ai nuovi metodi imposti da un giovane Emery che già cominciava a far vedere quello che stava per venire.
Nel mondo del pallone si cominciò a parlare con forza di un giovane allenatore che impressionava per il suo temperamento e per la sua conoscenza del calcio. Fu talmente così che la stagione seguente, 2005/2006, l’allenatore vasco fece realtà quello che pochi credevano possibile. La squadra di Murcia riuscì a mantenere la categoria, anzi lottò per salire in Primera fino all’ultima giornata. Emery cominciava a farsi un nome nel calcio spagnolo.
Il Lorca finì quinto nella miglior stagione della sua storia. Unai era il faro di un progetto che non poteva che portare sogni in terre murciane. Durò poco però la vita dell’allenatore vasco a Lorca, un’offerta dall’Almeria lo fece migrare ancora di più a sud per continuare a crescere, correre per quella fascia e urlare, fedele al suo stile, temperamento puro e duro.





Emery cominciava la stagione 2006/2007 con la voglia di dimostrare che i due anni a Lorca non erano stati un miraggio. Quella stessa voglia riportò l’Almeria in Primera Divisiòn 27 anni dopo dall'ultima volta. Lui era l’eroe di una promozione che lo metteva di diritto tra i migliori giovani allenatori. I grandi club già gli avevano messo vari occhi sopra. A 35 anni aveva già l'esperienza necessaria per confrontarsi con il livello più alto del calcio spagnolo. Tutto il mondo parlava dei suoi metodi, dei suoi insegnamenti e della sua determinatezza per voler vincere sempre. Una carriera meteorica che lo portò in 4 anni da giocare in Segunda B ad allenare in Primera, qualcosa che non succede tutti i giorni.


La gestualità di Emery in panchina vista in modo ironico.


Il meglio, però, doveva ancora arrivare e il suo primo anno nel campionato delle stelle gli portò un'altra soddisfazione. Con uno dei budget più bassi della categoria, l'Almeria finì la stagione ottavo, facendo così ancora più grande il nome di Emery, che si inseriva con forza nelle agende di molti direttori sportivi. Una stagione che si ricorderà per sempre nella città andalusa, riuscendo a diventare la seconda miglior squadra appena promossa in Primera di tutta la storia della Liga. Tutto questo lo portò a vincere un biglietto per la piazza spagnola forse più complicata, Valencia. Un grande come la squadra ché, che pochi anni prima si giocava una finale di Champions, si affidava al giovane tecnico per resistere a una delle tappe più difficili degli ultimi anni. Le vendite polemiche di alcuni giocatori, i cambi nella direttiva e lo stesso ambiente non erano favorevoli per un allenatore giovane e senza una grande esperienza in Primera apparte il suo anno spumeggiante all’Almeria. Scommessa e rischio, tutto o niente, ma il carattere vincente e competitivo di Emery avrebbe fatto il resto. Firmò per due anni e ce ne rimase quattro. Dopo una prima stagione di cambi e dubbi, Emery prese in mano la squadra portandola fino al terzo posto per tre stagioni consecutive.




Stagioni di grande prestigio, capolavori tecnici e umani, considerando la vendita di giocatori importanti che caratterizzava la squadra anno dopo anno. Valencia non lo ringraziò mai abbastanza per tutto il lavoro che svolse e se ne andò in silenzio, senza far polemiche. Ora la squadra sta cercando di recuperare con Nuno quel prestigio che speriamo torni: l’allenatore portoghese dimostra a tratti di avere il DNA vincente del vasco.


L'addio di Emery al Valencia. È l'addio di chi ha fatto qualcosa di importante, ma che farà cose ancora più importanti.


Dopo Valencia, lo attendeva una destinazione molto particolare: Mosca. Lo Spartak provò a replicare il modello del calcio spagnolo in Russia ma durò solamente sette mesi: il freddo moscovita non era pronto per il calcio di Unai. Dopo tre mesi fermo, il destino gli dette una nuova opportunità in patria. Il Sevilla lo chiamò per sostituire Michel. Arrivò alla metà di gennaio completando un anno senza troppi elogi, una situazione che lo mise in dubbio e che continuò all’inizio della stagione seguente. Dopo 4 giornate occupava le ultime posizioni e Unai decise che era il momento di invertire la rotta.  




Emery non è più un ragazzino, si è fatto un uomo. Ha saputo creare una squadra rendendo importante ognuno dei suoi giocatori. Ha recuperato giocatori come Banega e Reyes, tra gli altri. Ha migliorato e fatto crescere Coke, Aleix Vidal e Vitolo. Ha lottato contro gli egoismi e ha dato opportunità a tutti di potersi esprimere e di dare il proprio contributo. Ha fatto sedere in panchina chi doveva starci e mai, fedele al suo stile, ha fatto prevalere un nome sopra la squadra. Un allenatore che non lascia trasparire nulla, è esattamente come si vede. Ossessionato dal mondo del calcio. Pazzo per quella fascia e stratega quando si tratta di parlare in conferenza. Un uomo al quale gli costò inserirsi nel mondo Siviglia, ma al quale già guardano i grandi colossi di Europa interessati ad affidare la gestione tecnica. Un vincente nato che riesce a competere e fare squadra.

Dopo l’epoca gloriosa di Juande Ramos, nessun allenatore era riuscito a rimanere così tanto tempo. Fino a che arrivò Unai.




Squadra e allenatore, allenatore e squadra, sono cresciuti insieme. Riaggiustò un sistema che non funzionava per cominciare a scrivere con polso deciso il suo capitolo nella storia sevillista. “Non ho detto che morirò con le mie idee”, diceva qualche tempo fa. Ma sempre ha avuto chiaro che voleva morire con le sue idee. Con un anno in più di contratto dopo essersi classificato matematicamente per giocare in Europa la prossima stagione, chiede godersi gli ultimi momenti di questa stagione prima di sedersi a parlare.
Nell’ambiente sevillista sperano che il capitolo abbia molte pagine e così anche il club. "È l’allenatore ideale", hanno dichiarato in numerose occasioni. Per questo vogliono Emery per un progetto fatto di molti anni.

Questo Emery, che si sta facendo grande a Siviglia, come fa giocare le sue squadre?
Il miglior Siviglia, nella prima fase del campionato, era quello che si poneva come obiettivo un gioco di posizione in cui i giocatori dovevano cercarsi con passaggi corti, rapidi fraseggi. Non che un gioco diretto e più verticale non avesse la sua importanza, ma non dava frutti nella prima parte della stagione come invece li ha dati nella seconda parte del campionato dove la squadra ha saputo bilanciare le due diverse inclinazioni.
I giocatori si cercano tra gli spazi per iniziare la giocata , la presenza di Banega come centrocampista centrale e Denis Suarez come mezzala è fondamentale.
Le due immagini seguenti lasciano vedere chiaramente come Emery usa molto spesso questo gioco di posizione in zone centrali. 


Si può notare la presenza di Banega tra i due centrali per iniziare il gioco e per rompere la pressione iniziale offensiva degli avversarie la presenza delle due mezzali in appoggio per iniziare la giocata.


Il miglior Siviglia non tralascia il gioco in ampiezza ma ottiene migliori risultati quando il gioco sulle fasce è proiettato verso lo sfruttamento della zona centrale ed è in funzione della ricerca dello spazio centralmente.


Suàrez e Deulofeu si posizionano insieme in posizioni interne ma ad altezze del campo diverse.  I quattro giocatori sul lato forte formano un doppio triangolo e si creano opzioni di passaggio per lanciare in profondità.


Se la situazione di gioco non permette il gioco diretto con le punte perché la difesa avversaria non lascia spazio o chiude gli spazi su Iborra, la punta di Emery, il Siviglia prova, costantemente, l’attacco sulle fasce con la salita dei terzini. 


La profondità e l’ampiezza dei laterali aiuta l’attacco della squadra di Emery con il centrocampista che cerca i terzini se non si può giocare direttamente con gli attaccanti (mancanza di profondità o di spazio tra le linee centralmente).


La crescita della squadra andalusa è stata impressionante questa stagione, superando con relativa facilità le eliminatorie in Europa senza perdere mai la vista sulla Liga. Con due finali consecutive in Europa League vinte e il record storico di punti nella Liga le luci si sono accese inesorabilmente sulla crescita dell’allenatore di Hondarribia.
La finale di Varsavia ha segnato un prima e un dopo.
È arrivato il momento di sedersi a parlare di obiettivi, due o tre anni di prolungamento. Non è un questione economica.  L’allenatore è felice a Siviglia e giocare la massima competizione continentale è una sfida che lo attrae. 
La sua lettura delle partite, il "dominio" della lavagna, la gestione della squadra: queste sono i tre massimi principi e le tre maggiori qualità di Unai.




La valutazione di Emery si è alzata partita dopo partita. Tra i suoi meriti abbiamo già citato il recupero di giocatori come Reyes e Banega, sta facendo di Sergio Rico un portiere di prima linea, ha scommesso su Aleix terzino con ottimi risultati.




A Varsavia con il suo Siviglia ha portato a casa la coppa e il biglietto per la prossima Champions da giocare con la squadra plasmata e creata da lui. Questa è una sfida che piacerebbe a Unai Emery.
Sarà ancora Sevilla casa sua o cercherà posto altrove? Le pretendenti non mancano, tra qualche settimana il mistero sarà svelato.


giovedì 14 maggio 2015

Prospettiva Berlino


di AER

La Juventus si guadagna la finale di Berlino. È passata la squadra che aveva più fame, più voglia, la squadra più ordinata in fase di non possesso, la squadra che ha saputo soffrire e che ha fatto gol sempre nei momenti giusti, demoralizzando gli avversari: tutte caratteristiche che, al di là dei paragoni tra Conte e Allegri, hanno contraddistinto la Juventus degli ultimi 5 anni. Vedere tutto questo applicato al Bernabeu, in una semifinale di Champions, è la conseguenza di un processo lungo e difficile: ogni momento di ogni partita di questi 5 anni è stato importante per questa crescita enorme a livello di risultati.
Cerchiamo in questo pezzo di analizzare le due semifinali concentrandoci sui tanti aspetti positivi sia collettivi che individuali e sui difetti che potrebbero ripetersi ed essere fatali.





Le scelte giuste di Allegri

Massimiliano Allegri sorprende. La sua preparazione alla gara dimostra un'ottima conoscenza del calcio europeo. Sorprende la scelta di Sturaro titolare all'andata che, invece, si dimostra perfettamente funzionale al suo progetto tattico e che sicuramente avrebbe riproposto in caso di non recupero di Pogba. Allegri capisce la pericolosità del Real Madrid nella zona esterna del campo e trasforma il centrocampo a rombo, che continua a mantenere in fase di possesso, in una linea a 4 omogenea in fase di non possesso: Vidal si abbassa al fianco di Pirlo con le due mezzali che si allargano, Marchisio a destra e Sturaro/Pogba a sinistra.


Rombo di centrocampo in fase di possesso all'andata. Da notare la posizione di Tevez che si smarca e crea dei triangoli in modo da avere più opzioni di passaggio.

Linea compatta a 4 in fase di non possesso. Vidal retrocede, Marchisio e Sturaro si allargano.


La principale differenza tra andata e ritorno di questo accorgimento è la differenza di caratteristiche di Pogba e Sturaro. Il giovane italiano interpreta il ruolo con tanta corsa verticale e tanto dinamismo, tanti raddoppi e tanto pressing ma soprattutto riuscendo a mantenere benissimo la posizione. L'altrettanto giovane francese, invece, interpreta il ruolo in modo più “posizionale” e meno dinamico, attua un controllo della zona più fisico che dinamico e diventa un punto di riferimento importante per far respirare la squadra e per riorganizzare le linee di difesa e centrocampo.


Rombo al ritorno in fase di possesso palla.


Linea di centrocampo a 4 in fase di non possesso. Linee di difesa e centrocampo molto strette, attaccanti dietro la linea del pallone. Da qui si nota il tipo di partita impostato da Allegri.


Naturalmente Pogba scivola sull'esterno meno efficacemente di Sturaro e infatti Carvajal gioca sensibilmente meglio rispetto all'andata ma la grande prestazione di Evra e la bruttissima prova di Bale bilanceranno la situazione sulla fascia sinistra della Juventus.
L'alternanza tra Sturaro e Pogba è stata una necessità che si è trasformata, alla luce delle due partite, in un fattore fondamentale. Nella partita d'andata è stata perfetto Sturaro, per quel tipo di lavoro richiesto dal tecnico, infatti bisognava pressare più alto e stare attenti agli inserimenti alle spalle di Carvajal e raddoppiare su Bale che poteva prendere in velocità la difesa juventina. Nella partita di ritorno, invece, è stato fondamentale Pogba per controllare la zona e per avviare immediatamente qualche transizione veloce, senza dimenticare il peso specifico superiore di Pogba e la personalità richiesta per giocare una partita del genere in un contesto ambientale molto difficile.

Anche la scelta del 3-5-2 nei due finali è sembrata molto appropriata per contrastare i tanti cross che la manovra offensiva del Real Madrid produceva.


Per i finali Allegri sceglie il 3-5-2 per controllare i tanti cross e i lanci lunghi in area.


Barzagli, Bonucci e Chiellini sono stati molto attenti nelle situazioni di cross nonostante un paio di occasioni clamorose sprecate da Bale.

L'unico appunto che mi sento di fare ad Allegri è quello di non aver inserito prima Pereyra, un'arma tattica devastante che poteva contribuire ad alleggerire la pressione degli avversari nel finale.



Le prestazioni individuali




Il protagonista dei tabellini è senza dubbio Alvaro Morata, l'ex dal dente avvelenato. Grandioso nella partita d'andata e utilissimo al ritorno. Allegri lo ha preferito a Llorente facendo indubbiamente la scelta giusta. Lo spagnolo ha sfiancato la difesa avversaria lavorando sui centrali e dimostrando una continuità d'intensità che gli è spesso mancata in serie A. Oltre ai gol fondamentali si è mosso tanto, con e soprattutto senza pallone, ha dato spesso uno sbocco interessante alla manovra e tatticamente ha lavorato molto bene.




Il lavoro che Allegri ha chiesto a Vidal è stato di grande responsabilità. Il cileno doveva scalare sulla linea di Pirlo in fase di non possesso ma soprattutto doveva leggere bene le situazioni di gioco alzandosi con i tempi giusti gestendo la linea di pressing all'andata e intasando la zona centrale al ritorno. Non a caso risulta tra quelli con più km percorsi nelle due gare. Forse ci si poteva aspettare qualcosa in più in fase offensiva, sfruttando gli spazi tra le linee ma non è un trequartista e si è visto.




Tra i migliori in entrambe le partite c'è sicuramente Evra. Non ha più l'esplosività fisica che lo caratterizzava a Manchester e nel secondo tempo di Madrid esclude quasi completamente la spinta offensiva dalle sue opzioni tattiche ma fa un grandissimo lavoro difensivo, un lavoro di profonda concentrazione e intelligenza tattica. Il Real Madrid attacca soprattutto e meglio sulla fascia sinistra con Marcelo e il francese è costretto a stringere al centro sui traversoni spessissimo sbagliando quasi niente. Nelle sue partite troviamo tre o quattro diagonali difensive di altissimo livello, accademiche, da rivedere e far vedere.


I difetti e le difficoltà

Il principale difetto della Juventus è la copertura dell'ampiezza che Allegri ha mascherato con il 4-4-2 in fase di non possesso. Gli esterni improvvisati sono comunque delle mezzali e faticano molto a scivolare sull'esterno sempre in modo efficace.
Inoltre la Juventus, con questo accorgimento, è costretta a difendere molto, sbilanciandosi, sul lato forte lasciando tanto spazio sul lato debole che può essere sfruttato dagli avversari se riescono a cambiare gioco con velocità e con efficacia (azione costruita dal Real all'andata e conclusa con il salvataggio di Sturaro).




Quando il Real riesce a cambiare il lato di gioco con passaggi veloci e precisi la Juventus va in difficoltà a causa della copertura dell'ampiezza molto sensibile all'attitudine delle due mezzali a scivolare sull'esterno. Inoltre la scelta di mantenere più uomini vicino alla palla lascia spazio sul lato debole agli avversari.

La Juventus, inoltre, incontra molte difficoltà quando i suoi centrali devono difendere contro un attaccante bravo a lavorare staccandosi dalla marcatura per arretrare e ricevere tra le linee o per attaccare la profondità nello spazio tra il centrale e il terzino.


Movimento di Benzema che si stacca dalla marcatura e attacca la profondità ricevendo il lancio di Marcelo.



Benzema si abbassa tra le linee per ricevere il pallone, creando spazi per gli inserimenti o per le combinazioni centrali nello stretto.


Situazione, questa, quasi inedita per il calcio italiano povero di grandi attaccanti di movimento, attaccanti moderni. Benzema, nonostante le precarie condizioni fisiche, ha messo molto in difficoltà la Juventus che ha controllato molto meglio Hernandez successivamente, attaccante con più attitudine a muoversi all'interno dell'area di rigore.



La Juventus ha dimostrato un gioco di squadra raffinato e ben sviluppato. Ha dimostrato di essere squadra e di giocare da tale. Ha dimostrato di voler arrivare a Berlino più dell'avversario Quel "sogno contro l'ossessione" predicato da Mourinho nella semifinale del 2010 è diventato "il sogno della Juventus contro l'abitudine, quasi contro la svogliatezza, del Real Madrid". C'è qualche piccola similitudine con la cavalcata dell'Atletico dell'anno scorso, i tifosi della Juventus si augurano un finale diverso.

mercoledì 13 maggio 2015

El hombre vertical

Una storia di tenacia, di forza di volontà, di ossessione, di sfida continua verso i propri limiti. Una storia di calcio di una verticalità folle, geometrico ma fantasioso.
La storia di Luis Enrique Martínez García, semplicemente Luis Enrique.

di Santiago Tedeschi







"Dormire per terra, con le pietre che ti si conficcano nel corpo, sopportare le bufere, che ti cada la tenda durante la notte, fare i tuoi bisogni davanti a tutti e vedere come lo fanno anche gli altri, mangiare poco, passare freddo e caldo in un breve spazio di tempo, sopportare il russare e tenere sempre con sé acqua è parte del viaggio della Maratona delle Sabbie e ti assicuro che sarà parte di un ricordo indimenticabile della tua vita". 

Questa è l’idea di divertimento che ha Luis Enrique. Senza dubbio è un uomo particolare. Il triathlon, la maratona, Ironman: sono le sue passioni. Prove sportive che richiedono un livello ossessivo di forza di volontà. “Quanto mi fa star bene mettere in agenda gli allenamenti” scriveva nella sua pagina web. Si tratta di un uomo a cui piace annotare minuziosamente la sua sofferenza ermetica, familiare e sportiva fino al punto da farci pensare che possiede qualcosa del semplicistico auto-assorbimento dell’atleta. (Non hanno i grandi allenatori una visione paternalistica, esperta e più ampia della vita?).


Luis Enrique e la sua "verticalità".
Fece parte dell’ultima generazione del calcio "asturiano" (odio eterno al calcio moderno). Debuttò con lo Sporting nel 1989, era un promettente attaccante centrale che cominciò con rovesciate, ma finì con lo scalare la sua posizione. Nel Real Madrid, tra alti e bassi, finì per giocare terzino. Dopo 5 anni nella capitale spagnola contraddistinti da una grande professionalità, lo acquistò il Barcellona. La storia è famosa. Otto stagioni dove migliorò e finì per diventare una stella. Arrivò fino ai 20 gol in una stagione e finì nel centrocampo della squadra di Van Gaal, buono, ma incompreso. Prima, con Robson, brillò nell’anno della Coppa del Re e della Recopa insieme a Ronaldo.


Luis Enrique e il naso rotto, Luis Enrique e il sangue.
Luis Enrique si ritira proprio quando sta cominciando il boom del grande Barça e il ciclo trionfante della Nazionale spagnola. Condivide la squadra e lo spogliatoio con quei giovani chiamati a vincere tutto. Un calciatore, quindi, di transizione, che in Nazionale ci lasciò con quell'immagine che tutti conosciamo, il naso rotto e il pugno di Tassotti. Quella fu l’ultima immagine, l’ultima figurina, il canto del cigno della "Furia".

Luis Enrique e il Triathlon.
Come allenatore e come persona, Lucho, è veramente un uomo misterioso. È parte ormai della tradizione asturiana del Barça, ma è un asturiano particolare, non è un asturiano simpatico come Abelardo o come Quini. È un asturiano arrabbiato con quel suo gesto famoso di serrare le labbra, un gesto di nervosismo, di tensione davanti alla stampa e forse, anche peggio, un gesto di dubbio, di non avere le idee chiare e di camminare pensando alle scelte che dovrà prendere.
Con la stampa ha un rapporto molto equilibrato. A Barcellona ancora non ha sofferto critiche, ma a Roma la pressione lo ha ferito. "Tranquilli, un giorno in meno e poi non mi vedrete", arrivò a dirgli. Chi l’ha visto in conferenza stampa racconta di un uomo cordiale, tranquillo, ma duro se vuole, tagliente.

Luis Enrique e Federico Buffa.
Luis Enrique è protagonista di uno degli episodi più controversi del rapporto non felicissimo tra Federico Buffa e il "giornalismo calcistico" volgare. Si narra che questa intervista fu la causa del suo allontanamento da Sky Calcio Show. 

Luis Enrique debuttò mentre Pep Guardiola construiva la storia blaugrana. Nel Barcellona B, filiale della prima squadra, arrivò in Segunda (la nostra Serie B) e finì terzo, record per quella squadra. Nell'aria c’era una suggestione logica che, forse proprio per quella coincidenza e per essere un maniaco del triathlon, Luis Enrique sarebbe finito per essere il sostituto di Guardiola. Ma Luis Enrique non cadde nelle mani del cruyyfismo, non cadde nella mani del tiqui-taca. Dopo il Barça B, andò a Roma. Lì passò un anno difficile. Cominciò scegliendosi casa in un quartiere laziale, sfortunato, e oltretutto litigò con tutti quando decise di mettere in panchina Totti, simbolo di Roma. Con il tempo, il capitano riconobbe il lavoro di Luis Enrique, ma in uno dei primi allenamenti entrò a Trigoria con una maglietta dove si poteva leggere: "Basta!". All'esperienza romana e romanista deve la fama di avere una mano dura con le stelle. Arrivare a Roma e come prima cosa mettere in panchina Totti dimostra coraggio, ma forse mancanza di quello che si potrebbe chiamare "gestione del tempo".


Luis Enrique e Francesco Totti.
A Roma, la squadra non finì mai di definirsi, non c’era fluidità nel gioco e non riuscì mai a completare la sua idea di attacco attrattivo. Forse la cosa più audace fu reinventare De Rossi come difensore. A Roma Luis Enrique soffrì. Decise di annullare l’anno di contratto che gli rimaneva e tornò in Spagna. Passò un anno sabbatico, facendo chilometri a piedi o in bici con il suo gruppo di amici.
Dopo Roma e quell’anno correndo arriva a Vigo. Il Celta arriva ottavo. Una buona stagione mentre il Barça passava per l’anno di transizione del Tata Martino.

Prima di arrivare a Barcellona Luis Enrique postò una foto sul Mortirolo. Conosce bene le più alte montagne. Ma non sappiamo come si comporterà nella scalata alla montagna calcistica più alta. Nelle sue dichiarazione cerca constantemente il termine medio, l’equilibrio, fugge dagli estremi: "L’elogio debilita. Se mi elogiano, mia moglie mi rimette subito con i piedi per terra quando torno a casa". Luis Enrique è già completamente culè. Metodo, miglioramento e sacrificio. Mentalità Ironman.


Tre professionisti del Barcellona (due giocatori e un "tradutor de futbol") camminano lungo una strada bagnata. Uno dei momenti germinali del calcio contemporaneo. Si può fotografare il "tempo"? Evidentemente si: passato, presente e futuro.
Una cosa sembra piuttosto chiara. Nella sua carriera come allenatore non è ancora riuscito a mostrare un calcio all'altezza del tifoso culè. Avere carattere, essere ossessivo, non significa essere Guardiola. Pep fu il mister del cardigan perfettamente in ordine, mentre  Luis Enrique ha portato una "ribellione serena" a Can Barça. Gli manca trasmettere la sua idea di calcio verticale, la capacità che le sue squadre attacchino sinfonicamente.  Dopo esser riuscito a trovare un equilibrio con il doppio centrocampista con Rakitic e Busquets gli manca il difficile: la scienza o l’arte dell’attacco, quel segreto che da Cruyff in poi possiede solamente il Barcellona.
Il gioco del Barcellona questa stagione forse ci ha messo un po’ a definirsi, ma finalmente possiamo rappresentare chiaramente un analisi tattica globale e minuziosa del Barcellona di Luis Enrique.


Luis Enrique e Pep Guardiola pt.1.
Il fatto principale ed evidente è che il gioco di Guardiola non potrà mai essere superato, fu qualcosa di nuovo e determinante, qualcosa che fece storia, creò un prima e un dopo nella forma di vedere il calcio. Pep incontrò dei giocatori determinati, in uno stato di forma eccezionale e in una situazione privilegiata, tutto questo li portò a vincere tutto e a stabilire un’egemonia mai vista prima. I due allenatori che ereditarono il lavoro di Guardiola, secondo me, fecero un grande errore che fu quello di cercare di imitare uno stile già finito o meglio, neutralizzato. Con Tito, all'inizio si poteva vedere qualche sprazzo di gioco di quello storico Barcellona ma con la malattia dell’allenatore la squadra si demoralizzò e tatticamente si sciolse. Il Barcellona continuava a praticare il tanto nominato, spesso erroneamente, “Tiki-Taka” anche con l’arrivo da Rosario del Tata Martino che,  con la stessa premessa e con l’importante appoggio di quasi tutto lo spogliatoio, provò a seguire il legame con il guardiolismo ma, questa volta, fu molto più evidente il fallimento.


Luis Enrique e Pep Guardiola pt.2.
Luis Enrique ha cambiato lo stile, ha capito le necessità del club blaugrana e, aiutato dal suo profilo di allenatore duro e irriverente si è auto-spinto a trovare quello che aveva bisogno il Barcellona, cercare un nuovo stile. Finalmente un allenatore ha dimostrato personalità con i suoi giocatori per convincerli che bisognava creare uno stile di gioco che, anche se hanno provato a distruggerlo durante questi due anni, rimane la più adatta ai giocatori della rosa. In un futuro si parlerà dell’era Luis Enrique, il calcio verticale, efficace ed offensivo. 

Ci sono sicuramente situazioni tattiche che possiamo studiare e analizzare, soprattutto estrapolandole dalle ultime partite del Barcellona.

La prima è senza dubbio la sicurezza difensiva. Una rapida transizione offensiva necessita sempre di un’attenzione maniacale dei centrali difensivi. Il Barcellona è riuscito a cambiare un suo deficit difensivo, provocato dai laterali/ale grazie alla formazione di un triangolo quasi impenetrabile ai cui vertici ci sono i due centrali e il portiere. Piquè e Mascherano sono la miglior difesa del campionato, come coppia combinano alla perfezione. Lo spagnolo sta tornando ai suoi massimi livelli con l’aiuto dell’argentino, onnipresente e vero pilastro difensivo della squadra.

Uscita della palla dalla zona iniziale, sempre in maniera collettiva: centrali che si allargano, laterali aperti, e centrocampista che facilita l'uscita pulita con l'appoggio.
Il tridente offensivo lo possiamo inserire nel secondo fondamento della tattica di Luis Enrique. La ormai battezzata MSN si vede terribilmente favorita da questo nuovo calcio verticale e per questo ha un ruolo da protagonista nello schema culè. Il fattore Messi si sa che è uno dei più importanti per qualsiasi squadra e il Barcellona per questo lo rende il principale finalizzatore di tutte le combinazioni d’attacco, l’argentino sceglie sempre la decisione giusta per finire brillantemente la giocata e a lui si appoggiano due mostri sacri come Neymar e Suàrez. Il brasiliano rompe la difesa rivale costruendo letteralmente spazi con i suoi movimenti, spazi che l’argentino non deve fare altro che vedere. Suàrez appare nell'attacco statico in un modo molto attivo, è riuscito a far suo il ruolo di attaccante centrale interpretandolo attraverso le proprie caratteristiche e una delle giocate più frequente è l’uno-due veloce. Tutti i giocatori blaugrana che si propongono in fase offensiva lo cercano. Ovviamente non dimentichiamo la sua naturalezza nel cercare lo spazio libero quando la difesa rivale finisce per aprirsi ed è proprio lì che si evidenzia la sua fama da killer.

Occupazione razionale dello spazio nella zona di finalizzazione, posizionano fino a due uomini in ogni zona di influenza nella fase di attacco. Questo comporta il dominino di questa fase non solo per qualità e talento individuale, ma anche per le ottime spaziature.

Il terzo fondamento serve per chiudere il cerchio ed è quello della pressione immediata dopo la perdita della palla, questo è il principale metodo difensivo blaugrana. Luis Enrique per riuscire a mascherare in una maniera quasi perfetta gli errori tattici ha costruito un piano di pressione: quando la squadra perde il pallone in posizione offensiva, automaticamente si produce una pressione asfissiante sull'uscita della difesa rivale, provocando così errori nella squadra avversaria. (Primo gol di Messi contro il Bayern docet.)


Schieramento difensivo basato nel 4-4-2, la difesa si abbassa nella propria metà campo. Così facendo la squadra è molto corta e predisposta d un pressing alto. La linea di quattro è composta dai due centrali e dai due laterali con profilo offensivo e molto profondi che giocano sempre in ampiezza per provocare l'uscita in zone esterne, due mediani molto offensivi per asfissiare gli avversari nell'uscita. Il 4-4-2 si forma con l'arretramento sulla linea di centrocampo di uno degli attaccanti sul lato debole e la mezzala sul lato forte che scala.
Con tutto questo si crea una nuova era a Barcellona, un gioco con il quale Luis Enrique ha stabilito il record di vittorie dopo 50 panchine. A fine stagione l’allenatore asturiano aspira ancora alle competizioni più importanti, ma in testa ha sicuramente un unico obiettivo: tornare ad essere ambiziosi e regnare in Europa. Non avrà vinto titoli importanti, ma una cosa la sa fare bene, scalare le montagne più alte. 



Articolo a cura di Santiago Tedeschi