sabato 30 aprile 2016

The Josh Doctson experience



Come Josh Doctson, da TCU, è diventato una delle sensazioni del draft NFL 2016.

di Michele Serra







Se vi piacciono le storie americane, quelle che partono male e finiscono bene, quelle in cui i protagonisti devono affrontare prove e ostacoli come fossero eroi mitologici, allora la vicenda di Josh Doctson fa per voi. Perché se è vero che adesso in sede di pre-draft l’ex TCU è uno dei giocatori più chiacchierati, è anche vero che non sempre è stato così. Prima di parlare delle difficoltà che il ragazzo ha dovuto affrontare per farsi notare a livello collegiale - e di conseguenza professionistico - è bene partire dall’inizio. 


Un'infanzia travagliata
La vita di Josh Doctson inizia nel Texas, a Mansfield, cittadina dalla bassissima età media (34 anni!) e piena di famiglie a metà, in cui in genere è la madre il genitore presente - e la sua non fa eccezione. Tracy Syler-Jones è una giovane madre disoccupata e divorziata che deve badare a due bambini: il nostro e il fratello Jeremiah. Purtroppo, fin qui niente di nuovo rispetto a tante storie che caratterizzano la comunità afroamericana statunitense.

La ragazza (perché all’epoca dei fatti era ben lontana dai suoi 30) era però cresciuta in una famiglia borghese, e il suo lavoro alla CBS - con sede a San Diego - faceva presagire che lo stile di vita, per lei e i suoi, non sarebbe cambiato. Nel 1992, però, capì che quella non era la sua strada e, dopo aver passato alcuni mesi come casalinga, decise di lasciare il Texas per trasferirsi in Alabama, a Birmingham (dove la sorella era giornalista per conto di una emittente televisiva), alla ricerca di un lavoro che ancora non trovava. Fu un periodo estremamente difficile per la famiglia Doctson, acuito dalla separazione tra i genitori, che non rendeva certo più facile la loro condizione economica. I tre andavano avanti coi 2 dollari e 75 che la madre guadagnava giornalmente durante il suo impiego alla Birmingham YMCA, un’associazione benefica a sfondo religioso che si occupa di fornire supporto ai giovani e alle loro attività, e in più si faceva sentire anche la mancanza di madre e sorella, che erano tornate nello stato natio del Texas. Senza l’aiuto economico del marito, e con zero possibilità di sostentamento per i suoi figli, anche per lei l’unica possibilità fu quella del ritorno, a Forth Worth.

Ed è qui che avviene la prima svolta, in parte determinante per il futuro di Josh, che all’epoca aveva solo 7 anni (siamo nel 1999). Con le spalle al muro, e con la prospettiva di andare a vivere da sua madre, Tracy sostiene un colloquio di lavoro con l’università locale, TCU, che per sua fortuna va a buon fine. Viene così assunta come assistente del direttore delle comunicazioni, che si occupava di marketing e strategie pubblicitarie all’interno del campus (e il suo cursus honorem non sarebbe finito qui). Come tutti i programmi universitari americani, anche quello di TCU aveva le sue usanze tipiche: in questo caso, si trattava di far correre centinaia di bambini sul terreno di gioco al suono di un corno, precedendo l’ingresso in campo dei beniamini locali. I suddetti pargoli vengono chiamati Bleacher Creatures, e i fratelli Doctson ne sono stati parte per diversi anni, scorrazzando su e giù per il campo e facendo foto con i giocatori: Josh non sapeva, ma forse sperava, che un giorno sarebbe stato al posto loro.

Un'occasione da sfruttare
La vita, però, spesso fa attendere prima di permettere il raggiungimento i grandi traguardi. Nonostante adesso si parli del numero 9 come di una scelta da primo giro, il suo percorso verso la NFL è stato molto più tortuoso del previsto. In uscita da Mansfield High, Doctson ha attirato l’attenzione di soli due programmi, Duke e Wyoming. Non aiutava il fatto che non fosse particolarmente veloce né che fosse decisamente grezzo, visto che ha iniziato a giocare solo a partire dal suo anno da junior al liceo: tutti lo consideravano come un giocatore di basket, lui stesso in primis, e non vedevano il football nei suoi piani futuri. Derek Sage, però, aveva opinioni diverse. Il soggetto in questione era l’allora coach dei ricevitori per l’università di Wyoming, e fu lui e recarsi nel Texas per conoscere meglio il ragazzo, portandolo anche a fare un tour in quella che sarebbe diventata, seppur per poco, la sua università. Come detto, la sua esperienza nel football era minima, e di conseguenza c’erano anche pochi filmati a testimoniare le sue qualità. Ma il controllo del corpo che mostrava nel giocare a basket, traslato appieno anche sul campo di football, la sua precisione nel correre le tracce e, soprattutto, la sua serietà, hanno avuto un ruolo decisivo nel suo reclutamento.

Sage aveva notato quanto questo dipendesse anche dal modo in cui la madre, in mezzo a tutte le ristrettezze economiche del caso, lo aveva cresciuto, mai dando nulla per scontato e ponendo l’accento sul lavoro con l’obiettivo di migliorarsi. Affare fatto, dunque, ed ecco che Doctson si trasferisce in Wyoming. La sua prima stagione si conclude con 35 ricezioni per 393 yard e 5 TD (leader di squadra in ricezioni da TD e yard di media su ricezione, 11.2). Il destino, però, lo poneva ancora una volta di fronte al suo passato e al suo futuro, ed ecco che - guarda caso - la prima meta della sua carriera collegiale arriva proprio contro gli Horned Frogs, per giunta contro una probabile, futura stella NFL come Jason Verrett, suo diretto marcatore in partita. 

Ritorno al futuro
La sua avventura a Wyoming, però, dura solo una stagione, e non per ragioni sportive. La madre telefona a Josh annunciandogli che il nonno, sua figura paterna di riferimento, era malato terminale. Il ragazzo si struggeva all’idea di stare lontano da lui, e l’unica cosa da fare in quel momento era tornare indietro, continuando gli studi in una università più vicina a casa. Certo è che le offerte, ancora una volta, non abbondavano, tanto è vero che Doctson era convinto di continuare il suo percorso in college minori come North Texas o Texas State.

Ecco però che il fato torna a bussare alle sue porte, questa volta sotto forma di Rusty Burns, coach dei wide receiver di TCU che lo chiama al telefono, proponendogli di trasferirsi in quella che è stata anche casa sua durante l’infanzia. A rendere ancora più facili le cose c’era la presenza della madre, che nel frattempo era diventata Vice Chancellor of Marketing and Communication. In base alle regole NCAA, però, Josh fu costretto a rimanere fermo un anno, e poté tornare in campo per la stagione 2013. La vera svolta professionale per Doctson è arrivata nel 2014, quando coach Patterson ha ingaggiato i co-offensive coordinator Sonny Cumbie e Doug Meacham, che hanno installato un nuovo sistema di gioco, decisamente up-tempo e vicino ai giocatori, in modo da creare un attacco esplosivo, imprevedibile e che potesse esaltare le caratteristiche del personale a disposizione.

Il QB Trevone Boykin ha sviluppato un’intesa speciale con Doctson, aiutandolo a raccogliere numeri eccellenti: in tre anni a Forth Worth, le stats del numero 9 recitano 179 ricezioni (secondo all-time nell’ateneo), 2794 yard guadagnate (primo) e 29 TD (primo), oltre a vari record stagionali. TCU, intanto, diventava una delle squadre offensivamente più efficaci dopo gli anonimi anni del dopo Dalton, in cui erano arrivati anche 87esimi per punti a partita (25 a gara), finendo secondi e settimi nelle ultime due stagioni.

Gli occhi su di lui
Nel frattempo, come è ovvio che fosse, anche il resto degli Stati Uniti aveva iniziato ad accorgersi del ragazzo, che certamente faceva del suo per notarsi. É finito al primo posto della famosa top 10 di Sportscenter con la ricezione da TD a una mano contro Minnesota,


E in rete si sprecano video di highlights in cui si vede il nostro saltare in testa al marcatore di turno per andare a prendere il pallone, magari proprio con una mano sola.


È chiaro che il lavoro ha aiutato molto, ma anche Madre Natura ci ha messo il suo zampino, creando uno specimen fisico a tutti gli effetti. Come se non bastassero gli highlights, c’è anche una puntata di Sport Science a testimoniarlo.


Doctson ha trasformato TCU in un must-see della NCAA, non fosse altro per la curiosità di vedere che cosa il ragazzo avrebbe aggiunto ogni sabato alla sua già abbondante carrellata di mix collegiali su internet. I vari mock non lo fanno scendere più in là della metà alta del secondo giro, ma già giovedì sera potrebbe sentire il proprio nome chiamato da Goodell, magari proprio da una squadra texana, i Texans, o i Bengals, due tra le compagini bisognose di aiuto nel ruolo di WR (tra l’altro, non so voi, ma l’idea di una coppia Doctson - Hopkins/AJ Green è qualcosa di esaltante). Oppure a Tennessee, per costituire un asse altrettanto intrigante con Mariota. Quel che è sicuro è che il ragazzo ha tutti i mezzi, fisici, atletici e caratteriali per sfondare anche al piano superiore. E se, adesso che conoscete la sua storia, non vi è venuta voglia di tifare un po’ per lui, a prescindere da chi lo sceglierà, “non vogliamo neanche conoscervi”.


Articolo a cura di Michele Serra


lunedì 11 aprile 2016

In crescita


Gli Hornets hanno conquistato l'accesso ai Playoff. Ripercorriamo le chiavi di questa stagione positiva.

di Michele Serra






Il 5 ottobre scorso, con la stagione NBA lontana solo una ventina di giorni, gli Hornets hanno ricevuto una delle peggiori notizie possibili, a maggior ragione dopo un’annata già di per sé avara di soddisfazioni: Michael Kidd-Gilchrist avrebbe verosimilmente saltato tutta la stagione a causa della rottura di un tendine nella spalla, che ha richiesto un intervento. Non il modo di iniziare bene una stagione che doveva rappresentare una sorta di riscatto nel terzo anno di coach Clifford, dopo una insperata qualificazione ai playoff nel 2014 e un’annata da sole 33 vittorie nella campagna successiva, non esattamente il modo più adatto per celebrare il ritorno in città degli Hornets, dopo la parentesi decennale - piuttosto dimenticabile - dei Bobcats (solo due volte ai playoff, mai oltre il decimo posto nelle altre stagioni).

Nonostante tutto, siccome quando si vuole costruire qualcosa di importante, in qualunque ambito, in primo luogo si predica stabilità e pazienza, il GM Rich Cho ha provveduto al rinnovo contrattuale dell’head coach Steve Clifford, una vita da assistente, per tre stagioni con opzione sulla quarta. Senza nulla togliere ai giocatori che scendono in campo, e che sono i principali artefici della stagione da - fin qui - 41 vittorie, con la possibilità concreta di superare le 44, il massimo da 15 anni ad oggi, Clifford ha enormi meriti, essendo riuscito a modificare l’identità di gioco di un gruppo che si è trovato privo di uno dei suoi migliori giocatori (MKG) e con Al Jefferson fuori due mesi, e in comprensibile ritardo di condizione.

Le scorse edizioni di Charlotte erano diverse, poiché diversi erano gli interpreti, e qui appunto sta il merito di Clifford. Sebbene la statistica riguardante il pace non indichi un cambio radicale nel ritmo con cui la squadra attacca - quest’anno è 16esima, contro il 22esimo e 21esimo posto delle ultime due stagioni - quest’anno l’attacco è molto più efficace, e gli Hornets segnano più di 104 punti a partita, decimi, rispetto al 28esimo posto dello scorso anno, pur mantenendo comunque un’ottima difesa (sono settimi con 101.7 punti a partita subiti). Sicuramente è diverso il modo di attaccare. Gli scorsi anni, il gioco passava per gran parte dalle mani di Al Jefferson e dal suo gioco in post, che monopolizzava le azioni d’attacco dei suoi, basti pensare che il 14% dei suoi tiri arrivava con 7-4 secondi rimasti sul cronometro, in quel periodo dell’azione che NBA.com definisce come “late” (è il secondo dato più alto tra i suoi indicatori di tiro che tengono conto del cronometro).

Quest’anno Jefferson ha patito molto dal punto di vista fisico, ed è rientrato a pieno regime neanche da un paio di mesi, e solo nelle ultime uscite sta trovando uno stato di forma migliore. É (dovrebbe essere) nelle corde di un veterano capire cosa è meglio per la squadra, e lui lo sta facendo, giocando poco più di 20 minuti di media, decisamente meno di quanto fosse abituato a fare quando, fino allo scorso anno, era il giocatore più importante degli Hornets. Invece, il suo posto in quintetto è stato preso da Cody Zeller, terzo anno da Indiana, che quest’anno ha fatto un deciso passo in avanti aiutato dal gioco più offensivamente propositivo di Charlotte. In particolare ha grande efficacia in situazioni di gioco off-the-ball, come P&R e tagli. Nel primo caso è sesto per frequenza nei blocchi e, in questa situazione, segna ben 1.16 punti di media, ma anche per quanto riguarda i tagli dimostra di avere un buon tempismo: non è infrequente vederlo aspettare lungo la linea di fondo in attesa delle penetrazioni di Kemba e, quando la difesa collassa sul play, eccolo spuntare per un taglio dietro il canestro, situazione in cui segna 1.19 punti a partita. É inoltre un ottimo atleta, che sa finire al ferro mettendo palla per terra e un buon rimbalzista (9 carambole di media per 36 minuti). Qui due esempi del suo utile lavoro off-the ball.





A proposito di Kemba, il vero uomo copertina di questa squadra è proprio il ragazzo dal Bronx, artefice della miglior stagione nella sua pur breve carriera, con i suoi 21 punti, 5 assist e oltre 4 rimbalzi di media ottenuti con il 46% dal campo e il 37% da 3, ben oltre le sue medie carriera. Il duro lavoro estivo ha pagato, grazie agli insegnamenti di Bruce Kreutzer, shooting coach, e di Steve Heizel, assistente di Clifford con cui invece ha sviluppato il suo gioco sul P&R, situazione in cui Kemba opera per il 46.4% dei casi con 0.89 punti per possesso, sesto tra i play. Questa improvvisa crescita al tiro ha colto di sorpresa gli avversari, con i diretti marcatori che passavano regolarmente sotto ai blocchi, e i lunghi che si abbassavano per non concedergli una penetrazione facile. Nelle ultime otto partite, invece, si nota un’inversione di tendenza, con le difesa avversarie che - alla buon ora - sembrano aver preso le misure a Kemba, che sta tirando con il 38% dal campo e il 30% da tre. Non appena parte il gioco a due, ecco lo show forte del lungo, ed in generale il diretto marcatore di Kemba presta molto meno il fianco ai suoi tiri, come si vede qui sotto: dalla partita contro i Pistons, infatti (le otto gare a cui ho accennato prima), la percentuale di tiri definiti “open” da NBA.com, quelli con il difensore a 4-6 piedi di distanza (circa 180 cm) è passata dal 30 al 21%, segno che ormai Walker non è più un’incognita per nessuno.


La grande abbondanza di talento nel ruolo di PG e il fatto di giocare in un mercato mediaticamente poco esposto come è Charlotte rendono difficile una ipotetica chiamata dell’ex UConn all’All Star Game, convocazione che non è appunto arrivata, ma la sua stagione, stats alla mano, è molto simile a quella di giocatori come Lillard e Isaiah Thomas, che nella partita domenicale della kermesse ospitata quest’anno a Toronto hanno giocato. Kemba ha dichiarato di non essere interessato al riconoscimento di media e tifosi, ma è certo che, continuando così, non potrà nascondersi dagli apprezzamenti degli addetti ai lavori.

Peraltro, in quel campione di partite, gli Hornets hanno finito con un record di 6-2, con vittorie illustri ai danni di Heat e Spurs e una, che può rivelarsi fondamentale in ottica playoff, contro i Pistons. Questo perché sono vari gli uomini su cui coach Clifford può fare affidamento. Uno su tutti è arrivato in estate via trade con Portland: in Oregon sono stati spediti Gerald Henderson e Noah Vonleh - che tra infortuni e altro ha visto pochissimo campo durante la sua annata da rookie - e dentro Nicolas Batum, con un solo anno di contratto. Il francese, reduce da un’annata decisamente sottotono ai Blazers, si è rimesso in carreggiata con una stagione da 15 punti, 6.2 rimbalzi e quasi 6 assist di media, con il 42% dal campo, il 35% da 3 e una buona difesa. Si muove molto per il campo, sia se c’è da tagliare, portare blocchi o uscirne, situazione in cui è uno dei migliori in NBA: tra tutti i giocatori con almeno il 10% di conclusioni tentate off-screen, Batum è quinto con 1.15 punti per possesso  e il  57.4% di efg (davanti a giocatori come JJ Redick, JR Smith e Klay Thompson).


A proposito di free agent, in estate anche Marvin Williams sarà libero di testare il mercato dopo quella che può essere considerata la sua migliore stagione NBA. Gli 11.5 punti di media sono il massimo dalla stagione 2008-09, i 6.6 rimbalzi un career high così come la percentuale da 3, un ottimo 40%, un’arma che l’ex Hawks ha affinato con l’arrivo della maturità cestistica e che ora fa ampiamente parte del suo arsenale, oltre a buone letture difensive lodate anche dal suo allenatore. Per non parlare di Jeremy Lin che, dopo l’annata disgraziata in quel di LA, ha trovato un ambiente in cui mettere in mostra le sue qualità come scorer e come atleta, che gli permettono di avere un impatto anche in difesa, soprattutto nelle palle rubate, o i giovani Lamb e Kaminsky. Il primo, dopo essere finito nel dimenticatoio tra Rockets e Thunder è ripartito dal basso per cercare di trovare fiducia in un ambiente con meno pressioni, e l’ex Wisconsin che, dopo una prima parte di stagione difficile, tra panchina e prestazioni opache, sta fornendo un’ottima soluzione come stretch four.

C’è però un’incognita, che riguarda il futuro prossimo della franchigia, la quale in estate dovrà fare i conti con la scadenza dei contratti di Al Jefferson, Batum, Marvin Williams, Courtney Lee - arrivato via trade alla deadline via Memphis e che si sta rivelando una buona acquisizione, con il suo tiro da tre e la sua difesa sugli esterni - oltre alla player option di Lin, che verosimilmente uscirà dal contratto per guadagnare più dei due milioni e spicci attuali, e al dimenticato Tyler Hansbrough. Con l’aumento del cap, l’ottima stagione della franchigia ha dato loro grande visibilità e la possibilità di racimolare parecchi soldi, sia nel North Carolina, sia altrove. Sarebbe un peccato che una squadra che sta sorprendendo così nonostante le ultime recenti avversità, tra campo ed infermeria, venisse smantellata. Quel che è certo, però, è che coaching staff e dirigenza hanno saputo dare buonissime risposte, in termini di scelte di campo e mercato. Decisamente, l’epoca dei disastrati Bobcats pare lontana e ormai alle spalle. 


Articolo a cura di Michele Serra

lunedì 4 aprile 2016

False partenze

Hamilton (dalla pole) e Raikkonen partono molto male, Vettel non parte nemmeno. Alla fine il Gran Premio del Bahrain se lo aggiudica l'unico pilota di vertice che non commette errori o non conosce disavventure.

di Federico Principi







Togliendo le tre vittorie di Vettel, il Gran Premio del Bahrain era stato l'appuntamento nel quale - nel Mondiale 2015 - le Ferrari erano state più vicine alle Mercedes. Sia in qualifica che in gara, rispettivamente con Vettel e Raikkonen, una Rossa si era infilata a sandwich nell'ordine di arrivo, in mezzo alle due vetture tedesche. La performance del Gran Premio di Australia, con la vittoria sfumata per qualche errore strategico misto a sfortuna, alimentava legittime aspettative ferrariste anche per Bahrain 2016.

L'incognita delle gomme
Nel Mondiale 2015 il Gran Premio di Australia era stato coperto con soft e medie e con una sola sosta, non avendo suscitato quindi clamore la scelta di Pirelli di affiancare la super-soft nel 2016. Qualche perplessità è sembrata invece legittima considerando che il fornitore italiano ha effettuato la stessa scelta anche per il Bahrain, nonostante nel 2015 le soste (con soft e medie) furono due e che il degrado (sia per il caldo, sia per la sabbia del deserto che gratta un po' il battistrada, sia per i curvoni lunghi che stressano di più le gomme rispetto al circuito semi-cittadino di Melbourne) è decisamente superiore a quello dell'Australia.

Guardando le simulazioni di qualifica sono perfino arrivato a sospettare che Ferrari e Mercedes avrebbero potuto decidere di eliminare la super-soft in gara e copiare le strategie delle ultime due edizioni del Gran Premio del Bahrain. Il regolamento prevede che la prima parte di gara (per chi passa in Q3) vada coperta con gli pneumatici del miglior tempo della Q2. Nelle seconde prove libere, durante le simulazioni di qualifica, era emerso che Ferrari e Mercedes (con gomme soft) erano state più veloci di tutte le altre che montavano le super-soft, comprese Williams, Red Bull, Toro Rosso e la sorprendente Haas di Grosejan. Il tutto nonostante Rosberg, Hamilton e Vettel avessero fatto il tempo prima e quindi con pista più sporca e meno gommata, mentre il tempo di riferimento di Raikkonen era stato ottenuto con le più lente gomme medie.

La classifica provvisoria della FP2 prima che Ferrari e Mercedes inizino le loro simulazioni da qualifica con le super-soft. Situazione già affrontata dai vari Bottas, Ricciardo, Massa, Sainz, eccetera.

Le decisioni alla fine sono state univocamente direzionate verso le super-soft, sia per un discorso di sicurezza del tempo della Q2 che per un fattore strategico di gara, come vedremo. In ogni caso, guardando i risultati della Q2, il margine per Ferrari e Mercedes per bypassare la super-soft c'era tutto.

Raikkonen, il peggiore dei primi quattro in Q2, aveva comunque 1,2 secondi di margine sulla zona eliminazione (il nono posto di Grosjean). Sarebbe comunque potuto partire in seconda fila con le soft, se avesse voluto.

Ritmo gara
Ormai siamo abituati a non fidarci più molto delle scelte dei treni di pneumatici nel pre-weekend. La Ferrari aveva puntato su 3 treni di medie per entrambi i piloti a fronte di un solo treno scelto da Hamilton e Rosberg.

Le scelte di tutti i piloti per tutto il weekend.

In realtà poi la Ferrari ha sfruttato le prove libere del venerdì per provare e scartare subito due treni di medie. Nei test a Barcellona le Rosse non avevano insistito - come la Mercedes - con quel tipo di gomma e la stessa cosa è avvenuta al Gran Premio di Australia, nel quale né Vettel né Raikkonen hanno indossato la gomma bianca, con questa scelta che è probabilmente costata la vittoria al tedesco. In questo modo, al semaforo di partenza della gara del Bahrain, Ferrari e Mercedes si sono presentate nelle medesime condizioni di disponibilità di pneumatici.

I set di gomme disponibili per la gara, rispettivamente suddivisi in durezza di compound e in set nuovi o usati. Situazione identica per i primi 4 piloti.

Durante il giro di ricognizione Vettel ha accusato immediatamente un problema che ha fatto fuoriuscire del fumo dal retrotreno. Nella sua Ferrari sembrerebbe che si sia rotta la turbina o un inettore e che il motore sia da sostituire, aumentando quindi il chilometraggio medio che sarà richiesto agli altri 4 propulsori da qui a fine campionato. E alimentando il sospetto che servirà una sesta power unit, con relativa penalizzazione.


Alla partenza invece sono scattati molto male sia Hamilton che Raikkonen. L'inglese è stato facilmente sverniciato dall'odiato compagno di squadra e ambiziosamente attaccato da Bottas alla prima curva. Il contatto con il finlandese gli farà perdere diverse posizioni e gli danneggerà leggermente il fondo, compromettendo il massimo potenziale nel ritmo gara fino al traguardo.

Le lente partenze di Hamilton (a destra), risucchiato da Rosberg, e di Raikkonen (a sinistra), risucchiato dal gruppo.

Bottas attacca Hamilton troppo avventatamente. Il Campione del Mondo verrà sfilato da altre vetture e si ritroverà in nona posizione al primo intertempo.

La partenza ha in pratica deciso la corsa. Rosberg ha preso il largo, senza troppe preoccupazioni derivanti da prevedibili rimonte di Raikkonen e di un Hamilton parzialmente mutilato dal fondo vettura non perfettamente centrato - a seguito della botta alla prima curva - che lo rallentava leggermente soprattutto nel secondo settore. Entrambi sono comunque stati tappati nei primi 5 giri, perdendo parecchio tempo.

Il paradosso della gomma media si è verificato anche in Bahrain. Nonostante le Ferrari abbiano ancora una volta scelto più treni di medie rispetto a Hamilton (e stavolta rispetto anche a Rosberg), il Campione del Mondo è stato l'unico pilota di vertice a montare le gomme bianche in gara senza averle provate nelle libere, sfruttando l'unico set.

Le strategie definitive: Hamilton è l'unico col bollino bianco, nel secondo stint.

La gomma media poteva sembrare una scelta giusta alla vigilia, considerando l'obbligo di montare la super-soft che nei piani iniziali era destinata a stint corti. In gara, con pista più gommata e più pulita, le super-soft di Rosberg, Hamilton e Raikkonen hanno tuttavia mostrato una durata maggiore rispetto alle prove libere, dove crollavano più velocemente. Di conseguenza è sembrato inutile - sia a Rosberg che a Raikkonen - montare la gomma media, che aveva una durata simile alla soft ma prestazioni sicuramente inferiori.

La super-soft montata nelle prove libere su Bottas (in alto) è calata molto rapidamente. La Williams in gara l'ha infatti sostituita dopo appena 7 giri, ma su Ferrari e Mercedes è durata molto di più (13 giri sulle Mercedes nel primo stint). Soft e medie (rispettivamente foto al centro e in basso) sembravano avere invece una parabola di degrado piuttosto simile nelle libere, con ovvio vantaggio prestazionale sulla soft (non devono ingannare i tempi, la Renault è nettamente più lenta della Williams). La media in gara si è rivelata una scelta piuttosto inutile.

Le Mercedes e Raikkonen hanno sfruttato due dei tre set (usati) di super-soft rimasti disponibili per la gara. Il finlandese nel finale (per tentare un improbabile undercut su Rosberg, troppo lontano) ha puntato per primo sulla soft nuova anziché sulla super-soft usata, cercando di sfruttare il picco di prestazione della gomma nuova che il treno usato di gomme rosse aveva inevitabilmente perso, con Rosberg e Hamilton che lo hanno poi marcato a uomo. Le distanze fisiche tra i tre piloti di vertice erano tuttavia talmente elevate che le posizioni si sono cristallizzate fino alla bandiera a scacchi.

Il grafico dei tempi in gara (riferimento il tempo medio di Rosberg): 
- Tralasciando il primo stint in cui Raikkonen ed Hamilton erano nel traffico, le differenze sostanziali si vedono nel secondo stint: la media di Hamilton non è più costante della soft di Raikkonen (come già visto nelle simulazioni del venerdì di Massa e Magnussen) e anzi cede prima rispetto alla soft di Rosberg; 
- Il ferrarista tiene un ritmo identico a Rosberg nel terzo stint (entrambi su super-soft), perdendo qualcosina in più nel secondo e nel quarto in cui entrambi erano su soft: ulteriore conferma che la Ferrari predilige compound più morbidi possibile. Dati Forix.

Duello mancato
La Ferrari sembra sempre più vicina in termini prestazionali alla Mercedes, ma un vero corpo a corpo a 4, dall'inizio alla fine di una gara, non si è ancora visto per motivi differenti.

La tendenza della Mercedes ad avere più margine in qualifica rispetto alla gara si conferma anche nel 2016. Oltre al fatto che Hamilton e Rosberg riescono a scaldare un po' più velocemente le gomme per fare subito il tempone, le frecce d'argento dispongono probabilmente di un picco di potenza per il Q3 ancora inarrivabile per la Ferrari. 

Hamilton e Rosberg velocissimi e praticamente identici nel loro giro migliore del Q3.

L'oltre mezzo secondo sul giro che le Rosse hanno subito in qualifica sia a Melbourne che a Sakhir non si è però visto in gara in nessuna situazione, né quando in Australia la Ferrari era davanti, né quando Raikkonen in Bahrain ha inseguito Rosberg e contemporaneamente tenuto a distanza Hamilton. Il finlandese è uscito dalla zona di traffico al sesto giro, con il sorpasso su Ricciardo, e aveva accumulato 10 secondi di ritardo da Rosberg: sotto la bandiera a scacchi il gap è rimasto identico, segnale che sul passo gara le prestazioni sono piuttosto omogenee.

Per inseguire la Mercedes in termini prestazionali, la Ferrari si è presa dei rischi di progettazione che sta pagando caro, con due ritiri nelle prime due gare. La power unit Ferrari è quella che ha speso più gettoni-sviluppo rispetto a tutti gli altri, redistribuendo inoltre tutte le componenti per restringere più possibile il retrotreno e guadagnare in termini aerodinamici. Un atteggiamento del genere è rischioso ma comunque giusto in un piano aziendale e sportivo che punta al titolo mondiale.

Le sostanziali modifiche aerodinamiche della Ferrari sulla vettura 2016: il posteriore è molto più rastremato rispetto al 2015.

Quando nel 2014 la Formula Uno conobbe la rivoluzione ibrida, la Ferrari si rivelò la vettura più affidabile del Mondiale (due soli ritiri di Alonso a Monza e Suzuka) ma con un grave ritardo prestazionale dalle Mercedes, che pure si rompevano spesso. Lo scorso anno gli stop di Hamilton e Rosberg sono stati ridotti all'osso e anzi Mercedes è stato l'unico costruttore a rispettare la regola delle 4 power unit. La Ferrari non poteva continuare verso la strada del podio sicuro ma con la certezza di pagare sempre dazio ai rivali: il sacrificio dell'affidabilità è stato necessario per togliere qualche certezza agli uomini Mercedes in fatto di prestazione. 

La stagione è appena iniziata e mancano ancora 19 gare. Alla Ferrari mancano 9 gettoni da utilizzare ed è previsto un piano di crescita progressiva lungo la stagione. I più informati ipotizzano inoltre che dal Gran Premio di Spagna verrà utilizzata una nuova turbina che dovrebbe garantire un salto in avanti nel settore dell'affidabilità. Il duello, che solo a tratti (e non sempre ad armi pari) si è visto nelle prime due gare, potrebbe inasprirsi e caricarsi di nuovi spettacolari episodi.


Articolo a cura di Federico Principi