mercoledì 27 gennaio 2016

Come d'incanto

È di queste ore la conferma dell'approdo di Alexandre Pato al Chelsea. A 26 anni il papero ritorna nel roster di una squadra europea, forte dei 26 gol in 57 presente nel 2015. Forse non è troppo tardi per rinascere, riconquistare almeno la nazionale brasiliana e mantenere in parte le promesse di inizio carriera.

di Emanuele Mongiardo







Impressioni di dicembre
Sentii parlare di Pato per la prima volta nel dicembre 2006. Era una delle solite domeniche sera post-partita e ControCampo trasmetteva un filmato di questo ragazzino brasiliano senza un filo di barba, talmente esile da far sembrare la divisa dell’Internacional de Porto Alegre un pigiama addosso a lui. Le immagini lo mostravano palleggiare ripetutamente con la spalla e poi col tacco sulla fascia, inseguito da un difensore avversario. E’ il Mondiale per Club, semifinale, gli avversari sono gli egiziani dell’Al Ahly, sconfitti, guarda caso, grazie a Pato e ad un’altra conoscenza milanista: Luiz Adriano. Terminato il video in studio si scatena il dibattito, in quello strano meltin’ pot di giornalisti pittoreschi e showgirls dalle dubbie competenze in materia. Mi sono rimaste impresse le parole di Franco Rossi, pressappoco suonavano così: «Se andiamo a vedere le videocassette, anche Morfeo sembrava Maradona». 

A dispetto del fisico riesce anche a proteggere palla e far cadere a terra il diretto marcatore.

Qualche mese più tardi tutti i media riportano l’interesse del club di via Turati per il giocatore. Cinque gol nelle prime nove presenze in carriera sono una discreta credenziale, soprattutto in quel Diavolo bisognoso più che mai di ringiovanimento e di un faro offensivo. Nutro un profondo affetto per quel Milan e se c’è una stagione in cui sono stato davvero milanista è la 2006-07. Tuttavia, per problemi di dinamismo ed età (Pirlo, Kakà e Gattuso unici under 30 tra i titolari), non era più l’armata del 2005 che andava in casa di Ferguson a dettare legge e neanche quella della stagione successiva, capace di risalire la china nei momenti decisivi, vedi Bayern, Lione e gol di Shevchenko al Camp Nou.

Sheva, mancava proprio lui, aldilà di quanto Kakà fosse divino in quella fase della sua carriera. Mancava la sua presenza risolutrice, l’incisività nelle notti più buie. Vero, Inzaghi era commovente nel suo sforzo di oltrepassare limiti tecnici apparentemente insormontabili ma non possedeva l’aura di inscalfibilità dell’ucraino. Difatti, nonostante il trionfo in Champions e la redenzione del cammino verso Atene, quel Milan non era una squadra di primissima fascia: azzardando un paragone cestistico, sembrava l’Olympiacos in Eurolega, sempre al margine del lotto delle favorite ma in grado di sovvertite i pronostici.

Pato doveva riaccendere la scintilla, essere il fuoriclasse degli ultimi trenta metri, mentre Kakà lo era per tutto il resto del campo. Così il Condor chiude l’affare, superando la concorrenza del Real Madrid e sborsando 22 milioni, cifra più alta mai spesa per un teenager. La FIFA però impedisce di tesserare minorenni in trasferimenti internazionali, per cui l’esordio è rimandato a gennaio. Gioca comunque un’amichevole a settembre a Kiev, contro la Dynamo, in cui segna di testa staccando tra i due centrali avversari, indirizzando la palla nel sette. E’ questo uno dei pregi che più salta agli occhi del brasiliano: al suo arrivo a Milanello è alto intorno al metro e 75 e non peserà più di 70 chili, tuttavia salta sempre con perfetta scelta di tempo.



Sbalorditivo
L’hype cresce, soprattutto perché il Milan in campionato sta deludendo. Tra l’altro Pato non fa neanche molto per smorzarlo, scegliendo la maglia numero sette. Così si arriva alla fatidica sera dell’esordio, 13 gennaio 2008: a San Siro giunge il neopromosso Napoli di Reja. La partita è un saggio delle qualità di Alexandre, tra tiri di destro, di sinistro, combinazioni con i compagni e dribbling ubriacanti. Imprime il sigillo sulla vittoria col gol del definitivo 5-2: Favalli lancia dalla sinistra, Pato scatta in profondità e con uno stop di controbalzo a seguire verso l’interno taglia fuori il difensore e insacca sull’uscita del portiere. Eccola la più grande qualità del papero: lo stop a seguire. Non penso si sia mai visto un giocatore a quell’età avere tanta padronanza del corpo e tanta sensibilità di piede nell’orientare dello stop, e in questo modo riesce sempre ad essere un tempo di gioco avanti rispetto a chi lo marca. 

Qua ne ruba anche due di tempi di gioco.


In generale tutto ciò che fa con la palla tra i piedi durante i suoi primi mesi da milanista non è normale per un diciottenne. E’ una figura candida, un bambino, con l’apparecchio e la lingua sempre tra i denti, sintomi di ingenuità e per questo anche di curiosità verso un ecosistema totalmente nuovo. Quasi l’opposto di Neymar, così malizioso e sicuro di sé già da adolescente. Lo si nota soprattutto nel dribbling: quello di O Ney è barocco, punta all'umiliazione. Pato è privo di queste sovrastrutture, per lui non c'è soddisfazione nel dimostrarsi superiore all'avversario,  ma solo la gioia infantile di tenere la palla tra i piedi tutta per sé: il dribbling è mera necessità di nasconderla per non farsela sottrarre da nessuno. 

Minuto 2:56: lancio sulla destra messo giù magistralmente col collo del piede. Punta il difensore, dopodiché fa scorrere il pallone sotto la suola per poi cambiare repentinamente direzione. È un gesto tecnico parecchio inflazionato tra gli attaccanti esterni da Cristiano Ronaldo in poi, ma si tratta di una spacconata. Nel caso di Pato invece non c’è alcuna alterigia

Ed è un aspetto della sua personalità e del suo modo di affrontare il calcio che si riverbera anche nella protezione di palla. Nonostante il fisico tutt’altro che titanico, anche marcato spalle alla porta è difficile rubargliela. Quel suo primitivo istinto di gelosia verso la sfera lo si evince quando per ostacolare la marcatura allarga il braccio sul difensore, rischiando sempre di commettere fallo.

Se c’è una componente del bagaglio tecnico di Pato non all’altezza del contorno, questa è la sua intelligenza spaziale, strettamente connessa alla gamma di movimenti, per la verità non molto variegata. Cerca di allontanarsi dalle zone più caotiche, non è il tipico attaccante brevilineo brasiliano col corredo genetico del trequartista, per cui predilige spesso allargarsi per facilitare la ricezione. Pato è una seconda punta col senso della porta di un numero nove, probabilmente perfetto in un attacco a due (questo equivoco di fondo peserà sulla concezione popolare e sulla carriera del giocatore). Se poi allargandosi è anche libero di attaccare la profondità e ricevere in corsa, allora diventa davvero micidiale. È una lepre, quando accelera sembra non toccare neanche terra, poggia a malapena le punte dei piedi (per alcuni in realtà si tratta di cattiva postura). In questo modo realizza il suo gol più icastico. 11 gennaio 2009, la Roma ospita il Milan all’Olimpico. In quella stagione Pato agisce per lo più da unica punta, nel vano tentativo di conciliare Ronaldinho e Kakà. Al  53’ il risultato è in parità, Pato ha da poco pareggiato il vantaggio di Vucinic con un gol a pochi passi dalla porta. Ronaldinho lo serve sulla sinistra all’altezza del centrocampo col suo classico passaggio da illusionista capace di attraversare gli avversari come ectoplasmi; Alexandre controlla, accompagna il pallone con la solita andatura e punta Mexes. Il francese è spaventato dall’ipotesi dell’uno contro uno, per cui preferisce accompagnare la corsa del brasiliano; purtroppo per lui tutt’a un tratto Pato si allunga il pallone e gli mangia tre metri, proseguendo la sua accelerazione più verso il fondo che non verso la porta. Doni allora decide di uscire, coprendo lo specchio della porta, ma lui, con un cucchiaio, riesce a indirizzare verso l’unico varco disponibile a depositare in rete.

Vogliamo parlare del geniale gol di testa di Vucinic?

Nelle prime due stagioni rossonere, oltre a giocare 54 partite di campionato su 56 dal suo arrivo, sciorina un ampio spettro di soluzioni nella ricerca del gol e sembra consolidare la candidatura a futuro Pallone d’Oro vaticinata da Ancelotti. Continua ad eccellere nel colpo di testa nonostante non raggiunga ancora il metro e 80 (chiedere a Reggina, Sampdoria, Lazio e altre), in spazi aperti è sempre più imprendibile e si specializza nel taglio tra terzino e centrale, ha sangue freddo nell’area piccola e comincia ad affinare anche la conclusione diretta. Non tira a giro col corpo quasi all’indietro come Ronaldinho, né possiede l’aristocrazia di Kakà nell’alzare la testa, mirare l’angolo lontano e calciare ad effetto quasi da fermo. Preferisce impattare di collo, una scelta più elementare ed istintiva, quasi come se il suo range di soluzioni fosse fermo ai tempi degli esordienti. Non ricordo un tiro ad effetto di Pato e forse è meglio così, sarebbe stata una macchia di caffè sulla fotografia del fuoriclasse ancora ragazzino. Contro lo Zurigo in Coppa UEFA sfodera un destro su punizione di una potenza che sembra non potergli appartenere; ovviamente toglie la ragnatela dall’incrocio. Osservando il replay si nota come dal rilascio della gamba scaturisca un calcio talmente secco e potente da impedire qualsiasi moto rotatorio al pallone, anche su se stesso. 



Un gol simile lo segna a Siena, nel giorno del trecentesimo gol di Inzaghi in carriera. Riceve un passaggio di Pirlo a poco più di venticinque metri dalla porta, non stoppa semplicemente la palla, come al solito la accompagna a seguire con l’interno, in modo da posizionarla per il tiro con un solo tocco. Naturalmente sceglie la conclusione di collo che trafigge il portiere sul palo lontano. Il segreto sta sempre nel rilascio della gamba, che anche in questo caso permette di imprimere sulla palla una potenza tale da farlo muovere quasi di moto rettilineo.



Turbe giovanili
Il 2009/10 è un’annata di transizione, sia per Pato, che inizia a mettere su muscoli e a superare il metro e 80, sia per il Milan. Kaka’ va al Real, Ancelotti parte per Londra, Pirlo resta controvoglia nonostante abbia in tasca un contratto per raggiungere Carletto e la società affida la panchina a Leonardo. Inizialmente il brasiliano schiera Ronaldinho trequartista centrale libero di svariare, con il papero ed un altro attaccante di fianco a lui. In effetti non è una cattiva soluzione: aldilà dei ritmi da Bossa nova il Gaucho è ancora in gradodi dipingere assist in verticale inconcepibili per qualunque altro giocatore e Pato sarebbe il primo a beneficiarne. La partita d’esordio a Siena è l’alba di un sole che non si è mai levato, perché Alexandre timbra due volte e in entrambe le occasioni tutto nasce da un filtrante dell’ex Barcellona. Ma l’andamento del Milan è sinusoidale, soprattutto il ritmo ormai è soporifero. 

Così Leo, in una notte d’ottobre a Madrid, con la partecipazione del Geometra Galliani, plasma quell’aborto tattico meglio noto come 4-2 fantasia. Al Bernabeu il papero diventa cigno, in una partita dai ritmi insolitamente blandi per standard europei tra due squadre lunghe e mal disposte. Pato parte largo a destra lontano dalla porta; la situazione cambia con l’ingresso di Borriello per Inzaghi. L’attaccante campano è più predisposto a giocare incontro e svuotare l’area, in modo da favorire gli inserimenti del brasiliano. Proprio da una situazione di questo tipo nasce il gol del momentaneo 2 a 1. Al 66', appena dopo il pareggio di Pirlo, nota una smagliatura nella linea eccessivamente alta della difesa merengue. Scatta dall’esterno in diagonale verso l’interno, dettando il lancio ad Ambrosini; l’assist è perfetto, ma lo è altrettanto il tempismo in uscita di Casillas. E proprio quando sembra che Iker sia destinato ad intercettare il pallone, Pato finge di tagliare a sinistra, come in occasione del gol al Napoli, per poi ributtarsi sulla destra. Questa finta di corpo crea confusione nel portiere spagnolo, il quale resta immobile per un decimo di secondo, convinto di poterlo anticipare sulla propria destra; ma, come detto, Pato è abbastanza lesto da cambiare lato, controllare a malapena e ciabattare in porta. Come da copione il Real pareggia, con la complicità di un Dida più farraginoso che mai, ma a due minuti dalla fine, dopo un gol inspiegabilmente annullato a Thiago Silva, il Milan riesce nuovamente a mettere la testa avanti. A seguito di un’azione convulsa di Pato sulla fascia la palla arriva a Ronaldinho che apre sul vertice sinistro dell’area per Seedorf. Clarence, con l’intelligenza e la temperanza che lo contraddistinguono, controlla il pallone e alza lo sguardo, alla ricerca della soluzione migliore. Nota come sul lato opposto Marcelo si sia disinteressato dello spazio alle proprie spalle, in cui Pato è staccato da ogni marcatura. Pennella «un pallone che canta» in quella direzione, dove Alexandre, di piatto stavolta, insacca. 


Da lì in poi, nella storia di quella stagione si passerà dalle verticalizzazioni di Ronaldinho ai cambi gioco di Ronaldinho, figli della nuova diposizione con i brasiliani larghi e tutto ciò che ne consegue: squadra sempre lunga, sambodromo con le provinciali e scoppole contro l’Inter; spesso i quattro difensori si ritroveranno ad affrontare contropiedi avversari schermati solamente da due centrocampisti ormai poco dinamici come Pirlo e Ambrosini. Pato gioca quasi tutto il girone d’andata partendo largo a destra e segnando, tra gli altri, un gol contro la Roma fotocopia di quelli dell’esordio e di Madrid. 


Ma il 5 gennaio, con uno stiramento alla coscia destra inizia il suo calvario. Da quel giorno fino al termine della stagione salta ben 15 partite di campionato su 22, sempre causa infortuni alla gamba destra, che si tratti di coscia, bicipite femorale o caviglia. 


Il mondo degli adulti
Anche la stagione successiva, quella dello scudetto, seguirà lo stesso spartito. Cambia solo la gamba, questa volta i problemi sono tutti sulla sinistra. Giocherà 19 partite di campionato, l’esatta metà degli impegni. Ma dal punto di vista realizzativo è il suo momento migliore con 14 gol. E’ un Milan più intenso e muscolare, con Boateng trequartista e Van Bommel (sigh!) sul trono che fu di Pirlo, conseguenze dirette dello sbarco di Ibrahimovic. Certo, la fase difensiva è pressoché perfetta, Thiago Silva è il miglior centrale al mondo e persino Abate è preciso e puntuale in entrambe le fasi. In avanti la dipendenza dallo svedese influisce in maniera catalitica sul dispiegamento della manovra, rinunciando quasi alla tessitura di schemi. Il doppio confronto col Tottenham è impietoso, mentre qualcun altro ritenuto inferiore di 46 milioni mette a ferro e fuoco l’Allianz Arena.

L’amore tra Pato e Zlatan non sboccia mai, nonostante le belle parole e nonostante i quattro assist dello svedese al papero. Con i due titolari dal primo minuto lo score del Milan è piuttosto ambiguo, sei vittorie, sette pareggi e tre sconfitte. Più che dal punto di vista tecnico, la distanza tra i due è a livello mentale. Per Alexandre la convivenza con Ibrahimovic rappresenta il vero step verso il professionismo. Il Milan di Kakà e Ronaldinho era una squadra mecenatista, filantropica nella gestione delle risorse umane.

Con Ibra invece si instaura implicitamente un clima di freddo rapporto lavorativo, lo svedese non ammette alcun margine d’errore né da sé né tantomeno dai compagni. Pato ne risente e la metamorfosi si palesa dopo il gol del 2 a 1 contro il Chievo al Bentegodi. Subentra a Cassano al 20’ del secondo tempo, sul punteggio di 1 a 1. Al 37’ riceve palla a sinistra, punta l’area, sguscia tra Rigoni e Morero ed incrocia col destro: palo-gol. 


L’esultanza è rabbiosa, non è l’urlo di gioia del Bernabeu, lo sguardo è più torvo, sa quasi di rivalsa. Si sfila la maglia, non è più un ragazzino, ora è un uomo con tanto di addominali e quadricipiti voluminosi. Nello scontro diretto contro il Napoli a San Siro addirittura la piazza a giro d’interno sotto la traversa. La fase adolescenziale è definitivamente andata, non più sassate di collo pieno, non più controllo di suola e scatto repentino sulla fascia. 


Tocca lo zenit nella notte del derby di aprile, in concomitanza con l’assenza di Ibrahimovic per squalifica. L’interpretazione del Milan, più dominante di un’Inter inevitabilmente più bassa, e l’assenza di un assistman capace di assecondarne i movimenti in profondità, lo costringono ad agire più centralmente, spesso provando a dar manforte a ridosso dell’area di rigore. E’ così che nasce il primo gol: duetto tra Pato e Gattuso al limite dell’area e assist di quest’ultimo per l’inserimento di Robinho; Julio Cesar in uscita bassa riesce a respingere, ma la palla carambola sui piedi di Alexandre che ribadisce in rete. Nel secondo tempo l’Inter è costretta ad alzare il baricentro e al 54’ all’altezza del centrocampo taglia tra Maicon e Ranocchia, invitando Boateng all’assist. Lo stop in corsa come al solito è perfetto, lo scatto fulmineo lo lancia verso la porta: Chivu è obbligato ad atterrarlo rimediando l’espulsione che taglia le gambe ai nerazzurri. Il Milan sugella il trionfo col secondo timbro, frutto al 62’ di una situazione analoga a quella del primo gol. Pato riceve al vertice dell’area, scambia con Robinho e scatta in profondità alla ricerca dell’uno-due, ma ancora una volta la difesa interista ne occlude la linea di passaggio; l’ex Santos pertanto preferisce appoggiare a Seedorf che d’esterno allarga per Abate. Il terzino campano strozza il cross, ma riesce a servire Pato che indisturbato di testa realizza la doppietta. Al definitivo 3 a 0 ci pensa Cassano, per una vittoria che spiana la strada al Milan verso il diciottesimo scudetto. 

Mi piace ipotizzare che il comportamento del numero sette in quest’azione sia sintomatico proprio del suo stato d’animo ed è forse il manifesto della stagione rossonera. Dopo il passaggio a Gattuso si fionda in area, sperando di chiudere la triangolazione, come avrebbe fatto con Kakà, Ronaldinho o Pirlo. Tuttavia i difensori preferiscono osteggiarne l’inserimento, concedendo invece lo spiraglio giusto a Robinho. Probabilmente il papero avrebbe voluto concludere quell’azione in un altro modo, anche in memoria dei vecchi tempi. E’ solo la contingenza di trovarsi lì nell’area piccola per inveterata abitudine che lo costringe a segnare.

Certo, ho esultato anch’io per il trionfo in campionato, seppur da simpatizzante e non da tifoso, ma rivivendo le vicende di quel Milan con più distacco a distanza di anni continuo a preferire le accelerazioni patrizie di Kakà, i doppi passi e i cambi di gioco di Ronaldinho, le verticalizzazioni improvvise di Pirlo e i ritmi lenti ma cervellotici di Seedorf, piuttosto che lo scudetto vinto grazie alla signoria di Van Bommel a centrocampo, all’impeto di Boateng e alle smargiassate, seppur geniali, di un attaccante di cui sinceramente non comprendo la deificazione sui social network.

Vuoi mettere?


Speranze carioca
Il tabellino in campionato, 14 gol in 19 presenze di campionato, induce Thiago Silva a designarlo erede di Ronaldo O Fenomeno, rimarcando quell’equivoco di fondo per cui il papero non è una punta centrale ma tutti lo considerano tale. Soprattutto in Brasile, dove all’indomani dell’epopea di Luis Nazario da Lima, eccezion fatta per Luis Fabiano, nessuno è stato degno di portare il numero nove sulle spalle. La Copa America è alle porte e si disputa in Argentina, l’obiettivo è imporsi in casa del nemico. E’ la vetrina della nuova ondata di talenti brasiliani, capeggiata da Ganso e Neymar, soprattutto è l’occasione giusta per Pato di splendere anche in nazionale. Ma il CT Menezes è vittima dell’equivoco di cui sopra e lo schiera unica punta nel 4-2-3-1. L’esordio col Venezuela è mediocre, prestazione evanescente ravvivata solo da una traversa al 25’ del primo tempo. Non è in grado di sostenere il peso dell’attacco da solo, è costretto ad un gioco di sponda non consono alle sue caratteristiche ed in questo modo gli è sempre preclusa la via della profondità. Sulla trequarti per giunta non sembra ci sia molta organizzazione, spesso Neymar e Robinho si ritrovano in situazioni di isolamento, mentre Ganso è eccessivamente lento. L’unica valvola di sfogo per l'indole di Pato restano i traversoni: così segna il primo gol del 4-2 inflitto all’Ecuador. Taglio da accademia sul primo palo, cross al bacio di Andre Santos (<3) e incornata sotto la traversa. Firma anche il 3 a 2, nel secondo tempo, in seguito ad una mischia in area in cui si trova nuovamente nel posto giusto al momento giusto. 


Ma è l’ultimo attimo di gioia di Pato in nazionale, perché la zolla del dischetto del rigore e il Paraguay di Tata Martino, Justo Villar, Ortigoza ed Estigarribia mortificano ogni ambizione carioca in un ottavo di finale che ormai è leggenda.

Perché giocare con Lucas Leiva?



Declino
Pato torna in Italia, la relazione con Barbara Berlusconi sembra corroborare il suo futuro rossonero. L’esordio in Champions al Camp Nou conferma quest’impressione. Dopo 27 secondi riceve palla a centrocampo. Xavi, Iniesta e Keita sono alle sue spalle, tre metri più avanti Busquets e Mascherano accorciano verso di lui. Ma proprio mentre l’argentino avanza scorge un impercettibile corridoio tra i due centrali avversari. Si lancia col pallone in avanti e con un solo tocco in un unico scatto incenerisce Busquets; giunto dinanzi a Valdes lo perfora con un rasoterra sotto le gambe.


È l’ultimo acuto del papero, da qui in poi inizia il suo crepuscolo e sinceramente non mi interessa approfondire l’argomento. I soliti infortuni ne falcidiano il rendimento, colleziona la miseria di undici presenze in tutto il campionato e quando gioca è irriconoscibile: ha paura di scattare, i contrasti lo terrorizzano, pare abbia disimparato anche a dribblare. Prova di tutto per ritrovare condizione atletica e continuità, si sottopone anche alle cure di luminari americani, ma è tutto inutile. Secondo gli esperti, all’esponenziale aumento della massa muscolare non è seguita la crescita dell’elasticità dei muscoli stessi; quella cattiva postura, sia delle caviglie sia della mandibola (la lingua tra i denti ne è causa), ha sicuramente influito sulla crescita e sull’equilibrio fisico del giocatore.

A gennaio il condor intavola una trattativa con Tevez, legata a doppio filo alla cessione del brasiliano. Berlusconi si oppone, Pato resta e la Juve di Conte soppianta il Milan di Allegri. Forse sarebbe cambiata la storia della Serie A, chissà, ma si tratta solo di rinviare la partenza di un anno. Da agosto 2012 a gennaio timbra solamente 7 presenze tra campionato e Champions League, gli alti piani rossoneri decidono di cederlo al Corinthians per 15 milioni di euro.

Dal ritorno in patria in tre stagioni ha saltato appena 13 partite di campionato. Evidentemente il sovraccarico di stress, le poco liete vicende personali (matrimonio a 20 anni, divorzio e fidanzamento con Barbara, fine della love story con quest’ultima) hanno condizionato la salute, anche emozionale, di un ragazzo con le stimmate del fuoriclasse già a 16 anni. Si trova a metà della propria carriera da calciatore, a questo punto si tratta di ritrovare una tenuta mentale adeguata agli standard europei. Se tornasse, anche al Chelsea, sarei il suo primo tifoso. Senza hype, dalle retrovie, per riprendere da dove aveva lasciato. In caso di approdo a Stamford Bridge il destino gli offrirebbe uno degli assist più succulenti della sua carriera: l’ottavo di finale contro il PSG di Ibrahimovic, contro quelle pressioni che non ha saputo reggere e che pian piano l’hanno emarginato in un ambiente che con lui doveva risorgere. Per riconquistare eventualmente la gioia di quel ragazzino con la lingua tra i denti e le ali ai piedi.


Articolo a cura di Emanuele Mongiardo



lunedì 11 gennaio 2016

Il calcio che non c'è più: Àlvaro Recoba

Una presenza (e un'assenza) costante nelle esperienze in nerazzurro di Hector Cuper e Roberto Mancini, un perenne odi et amo in salsa uruguaya...

di Nicolò Vallone







31 agosto 1997. Una data che ci riporta al cuore del primo articolo di questa rubrica, e dalla quale ripartiamo per la seguente storia. Ricordate? A San Siro andava in scena Inter-Brescia, che costituì l'esordio in Serie A di Ronaldo, ma a sbloccare la gara fu un altro giocatore che faceva il suo ingresso nel nostro massimo campionato: Dario Hübner, il cui gol venne però ribaltato dai nerazzurri che vinsero 2-1. Quello che pochi ricorderanno è che le due reti interiste furono realizzate dallo stesso giocatore, e non si trattava dell'attesissimo Fenomeno brasiliano, né di un elemento già affermato dell'organico della Beneamata. In uno strabiliante intreccio di destini calcistici, a firmare quella doppietta fu infatti un altro esordiente assoluto, destinato a rafforzare il velo di romanticismo che ammanta il calcio a cavallo tra anni 90 e 2000: un nuovo acquisto gettato nella mischia da mister Simoni a 20 minuti dalla fine, un 21enne venuto dall'Uruguay, un ragazzotto con un aspetto vagamente orientale che gli era valso in patria il soprannome El Chino ("il cinese"), un fantasista mancino per cui il prodigo presidente Moratti avrebbe fatto follie. In breve, Àlvaro Recoba.

A partire da 1:59, ecco come Recoba si presentò al pubblico italiano: due tiri di sinistro tesi, potenti, precisi, telecomandati!

7 miliardi. Questa la cifra sborsata dall'FC Internazionale quell'estate per portare Recoba in Italia. Una cifra non galattica ma sostanziosa quanto basta per dare un chiaro messaggio: su questo giocatore si può puntare. A parlare per lui, le 28 reti in 67 incontri ufficiali disputati in patria nelle prime 4 stagioni da professionista, spalmate tra Danubio (squadra che lo aveva scoperto in tenera età grazie all'occhio eccezionale di Rafael Perrone, suo futuro suocero nonché talent scout che di lì a poco avrebbe lanciato un certo Chevanton) e Nacional de Montevideo. E non solo: 10 presenze già all'attivo in Nazionale, con tanto di sombrero rifilato allo spagnolo Hierro nell'amichevole in cui, appena 19enne, aveva esordito con la Celeste. Con la maglia del Nacional, invece, all'inizio di quel 1997 El Chino aveva segnato, in un match di campionato contro il Wanderers, il gol più bello della sua carriera, ipse dixit: partenza dalla propria metà campo, percussione in dribbling tra cambi di passo e finte di corpo, 5 uomini saltati compreso il portiere. Un'esecuzione così maradoniana non poteva non indurre la spendacciona Inter dell'epoca ad accaparrarselo a tutti i costi. Fu cosi, dunque, che in quel pomeriggio meneghino seguente alla morte di Lady D la Serie A diede il benvenuto non solo all'acclamato Ronaldo e all'outsider Hübner, ma anche al giovane talento con un accenno di occhi a mandorla e il numero 20 sulla schiena.

I difensori uruguaiani non erano certo impenetrabili, ma certe movenze di quel numero 10 mancino ricordavano quelle di un altro diez sudamericano...

Già, il 20; il doppio di 10, perché valeva il doppio di 10, Moratti dixit. E in effetti di maradoniano non pareva avere solo lo splendido gol in Nacional-Wanderers, ma anche il tiro di sinistro. Alle bordate ribalta-Brescia, infatti, fece seguito a gennaio una perla sul campo dell'Empoli che permise all'Inter di uscire dal Castellani con 1 punto dopo l'iniziale vantaggio empolese: 50 metri dalla porta, vento a favore, Roccati fatalmente stazionante all'altezza del dischetto del rigore, e via con la precisa e beffarda traiettoria a lunga gittata, scavata praticamente da fermo, col busto calcolatamente all'indietro e il giusto movimento "a pendolo" del piede sinistro, secco ma non rigido, come quando i Pirlo e i Beckham lanciavano in profondità i loro centravanti dalla propria metà campo con la naturalezza di un passaggio corto. Impossibile evitare il parallelo con la parabola disegnata dal Pibe de Oro contro il Verona circa 12 anni prima, rimasta una pietra miliare della storia del Napoli e del nostro campionato. Con Recoba ci si trovava davanti a un giocatore la cui caratteristica peculiare era la capacità di battere a rete col mancino in qualunque modo e da ogni posizione, grazie a un dosaggio pantocratico della potenza e della precisione, della pesantezza e della morbidezza: una dote ricevuta in dono da Madre Natura e forgiata da ragazzino allenandosi a calciare la palla medica.

Al 3:09 la perla da distanza siderale entrata nell'immaginario dei tifosi interisti e non.

La prima annata in nerazzurro si concluse con la vittoria della Coppa UEFA nella memorabile finale contro la Lazio e un totale di 19 presenze e 5 gol tra Europa, Serie A e Coppa Italia. Ma se per il presidente, parafrasando la celebre affermazione di Gianni Agnelli su Sivori, Recoba era un vizio (e come quasi tutti i vizi, assai dispendioso, come vedremo più avanti), per chi guidava dalla panchina non poteva valere lo stesso discorso, tanto più che i soldi incassati per il successo continentale vennero investiti per comprare Roberto Baggio: la prima parte della stagione 1998-99, a metà tra le gestioni Simoni e Lucescu, vide scendere in campo El Chino solo 4 volte. Del resto, l'Inter di Ronaldo, Zamorano, Djorkaeff e ora anche del Divin Codino non poteva concedere troppo spazio a quel tipico mancino sudamericano, ancora un po' acerbo e soprattutto di difficile collocazione tattica. Se infatti da un lato si era potuto toccare con mano il pezzo forte del suo repertorio, il micidiale sinistro "a più marce", dall'altro risultava palese la sua allergia ai congegni tattici. Trequartista, seconda punta, ala? Era un anarchico del fronte offensivo, che in un qualsiasi punto del campo poteva esprimere le sue meraviglie tecniche. Ma per il calcio italiano ciò non poteva bastare. Per offrirgli la titolarità di cui aveva bisogno per abituarsi realmente al futbol nostrano e compiere il definitivo salto di qualità, a gennaio la dirigenza interista lo mandò in prestito al Venezia, in zona retrocessione. La risposta dell'uruguaiano fu la migliore possibile: 11 gol, tra i quali una tripletta contro la Fiorentina, e una caterva di assist per Pippo Maniero, giocando da esterno a piede invertito nello scacchiere di mister Novellino. Che fosse questa la chiave dell'esplosione veneta? Era pronto finalmente a prendere le redini dell'attacco di un team ambizioso?

Un breviario su come El Chino abbia salvato il Venezia nel 1999. Quando posizionava il pallone per battere una punizione, era una sentenza.

L'assenza di pressioni. Ecco la chiave. Nella sua carriera Recoba sarebbe stato provato in tutti i ruoli là davanti. Ma la verità è sempre stata una: il suo carattere gli impediva di allenarsi adeguatamente sotto il profilo tecnico-tattico e psicologico. Pigro e romantico, sua moglie dixit. Un giocatore del genere non si prende la briga di forzare i propri schemi mentali per migliorarsi. Un giocatore del genere non mantiene livelli d'attenzione costanti durante tutto l'anno e non sopporta la pressione di giocare titolare in una grande. Un giocatore del genere non può mai occupare stabilmente le file di un'armata che lotta per vincere in uno dei campionati più competitivi al mondo. Un giocatore del genere tira fuori una magia delle sue quando nemmeno lui stesso se lo aspetta, o magari se ne esce con un'insospettabile progressione palla al piede quando nessuno se lo aspetta, e ha bisogno di tanto tempo e tante possibilità per mostrare il suo repertorio. L'importante è che le sue prestazioni non siano mai vincolate a obiettivi e dettami, ma possano dipendere soltanto dalle circonvoluzioni della sua vena artistico-calcistica. Le sue performance non si chiedono prima, si accolgono con meraviglia quando arrivano. Ecco perché fece benissimo nel Venezia e non avrebbe mai convinto appieno all'Inter. Ed ecco anche perché non avrebbe mai stretto forti legami con l'ambiente della Celeste, pur togliendosi la soddisfazione nel 2002 di disputare e segnare una rete in un Mondiale (il suo Uruguay fu eliminato alla fase a gironi, arrivando davanti alla decaduta Francia ma dietro al sorprendente Senegal e alla solida Danimarca): "pigro e romantico" com'era, finiva per stridere con la Nazionale della famigerata garra charrua.

In Nazionale, Recoba impressionò soprattutto nella prima parte della sua carriera: ecco alcune delle giocate più apprezzabili.

Ma se "un giocatore del genere" è poco adatto a occupare un posto di rilievo in un top club, soprattutto in un calcio che ha continuato ad evolversi nella direzione dell'aumento degli standard atletici e tattici, è pur vero che in una squadra prestigiosa è riuscito a starci fino al 2007: dal ritorno dall'esperienza veneta nell'estate '99, El Chino ha militato nell'Inter per altri 8 anni. Come questo sia possibile, lo si è già accennato: Massimo Moratti era calcisticamente innamorato di lui, tanto da renderlo per un momento il calciatore più pagato al mondo. Proprio così. La stagione 1999-2000 aveva visto l'ormai 24enne uruguaiano andare per la prima in doppia cifra in campionato con la maglia dell'Inter, e l'inizio della 2000-2001, nonostante un decisivo rigore sbagliato contro l'Helsingborg nei Preliminari di Champions League, pareva confermare il trend positivo. Tanto bastò al suo procuratore Paco Casal (per intenderci, lo stesso che pochi anni prima era riuscito a piazzare al Real Madrid un bidone di nome Magallanes) per convincere il presidente nerazzurro ad accettare di rinnovare il contratto al proprio pupillo per una cifra complessiva di 100 miliardi di vecchie lire: era il periodo di Natale dell'anno del Giubileo quando l'FC Internazionale e Àlvaro Recoba stipularono quest'accordo da 15 miliardi annui di stipendio per 6 anni, più l'acquisto immediato a 10 miliardi di Antonio Pacheco, altro assistito di Casal, un "talento" del Peñarol coetaneo e amico di Recoba che con l'Inter avrebbe totalizzato appena 2 presenze prima di intraprendere un breve pellegrinaggio in Spagna con successivo ritorno in patria...

Ecco l'uomo più potente del calcio uruguaiano, nonché uno degli individui più ricchi del suo Paese, colui che portò nel nostro campionato Recoba e Pacheco, ma anche Francescoli, Ruben Sosa, Fonseca, O'Neill, Chevanton, Carini, Diego Lopez (quello del Cagliari) e tanti altri.

Nelle intenzioni e nelle previsioni degli interessati, questo faraonico rinnovo sarebbe stato il suggello di un sodalizio e la premessa per una consacrazione definitiva la cui beneficiaria sarebbe stata la squadra milanese. In realtà, fu l'inizio di una seconda parte di carriera sempre meno felice per Recoba, segnata da una spada di Damocle chiamata discontinuità. Discontinuità una e trina. Tre infatti ne furono i tratti peculiari: alla già ampiamente discussa "romantica pigrizia" vanno aggiunti gli infortuni e il coinvolgimento nello scandalo passaporti del 2001. Quest'ultimo, un neo tanto antiestetico quanto innegabile nella vita calcistica del fantasista uruguaiano, pose un freno fatale alla sua parabola: la bufera mediatica prima, la (blanda, a dire il vero) squalifica di 6 mesi poi, gli preclusero irrimediabilmente la continuità di cui necessitava uno come lui per guadagnarsi il posto da titolare che il suo piede sinistro e il suo ingaggio reclamavano. Da lì in poi, El Chino fluttuò in quella condizione trascendente di giocatore borderline che ne è diventata la caratteristica da tutti oggi ricordata, quella di un bombardiere-giocoliere capace di incantare una tantum le folle e di scomparire tantum dai radar: il tocco di magia che si apprezza in quanto perla rara, il concentrato di sorniona maestria sudamericana che il calcio europeo mette agli argini, ma di cui al contempo necessita una volta ogni tanto per ricordarsi la propria mistica essenza. Rassegnati e assuefatti a tale status quo, i tifosi nerazzurri impararono ben presto a tollerare a denti stretti quel talento mai del tutto esploso, sapendo apprezzare come tanto di guadagnato i bei momenti che sapeva regalare. Come in un Empoli-Inter 3-4, stagione 2002-03: stesso stadio e stesso avversario di 4 anni e 10 mesi prima, un portiere diverso (non più Roccati ma Berti), distanza più tradizionale (non più 50 metri ma 30), posizione centrale, difesa tardiva nella chiusura, colta di sorpresa da uno dei consueti posizionamenti anticonvenzionali del numero 20 interista, e sinistro a dir poco perfetto, un dosaggio magistrale di coordinazione, precisione e potenza, che termina la sua traiettoria nell'angolino. Simile mix di potenza e precisione, simile lancio e rilascio della gamba mancina, ma pathos decisamente maggiore troviamo invece nel gol del 3-2 in Inter-Sampdoria 2004-05, definitivo compimento di una rimonta da 0-2 negli ultimi 6 minuti di partita che alimentò il mito della Pazza Inter: assalto in pura trance agonistica, palla a spiovere fuori area, Stankovic appoggia all'indietro con un intelligente ed impercettibile tocco appena fuori area, Recoba in una frazione di secondo si coordina da par suo ed estrae dal cilindro non una parabola d'interno-collo come suo solito bensì una rasoiata d'esterno, come la posizione sua, dei difensori e del portiere richiede. Ma ci sono altri brividi nella storia recobiana all'ombra della Madonnina, in particolare quei calci di punizione che sfidavano le leggi della fisica classica; o quelle rare volte in cui si ricordava che, oltre a calciare da distanza siderale, nel gioco del calcio è lecito anche accompagnare quella palla in dribbling e saltare qualche uomo per arrivare a concludere a rete a tu per tu col portiere. Specie se hai qualità. E lui, in un modo o nell'altro, ce l'aveva.

Uno scatto che simboleggia l'affetto tra il presidente e il suo pupillo.

Ma la pazienza dei tifosi ha un limite. Specialmente se è una pazienza "a denti stretti". Nella mente degli interisti, una certezza aleggiava durante gli anni di Recoba: se il danno ad inizio millennio era stato fatto, con quell'opulento accordo contrattuale, restava da godersi gli sprazzi magici offerti dal giocatore, in attesa della fine del contratto per poterlo salutare una volta per tutte. Tale pensiero era scontato per tutti, meno che per una persona. Si tratta ovviamente di Massimo Moratti, che nell'estate del 2006 intavolò le trattative per un nuovo rinnovo. Meno dispendioso, certo, ma pur sempre un rinnovo, per un eterno pupillo ormai 30enne che in un settore offensivo occupato dai Vieri, dai Ronaldo, dai Crespo, dai Martins, dai Figo e dagli Adriano aveva quasi sempre agito in seconda battuta, mai preso seriamente in considerazione come leader dell'attacco. La rivolta dei supporter nerazzurri infiammò sul web, ma arrivò subito Calciopoli a placare gli animi, portando con sé un parco giocatori rinnovato a dovere e la sensazione che per l'Inter si sarebbe aperto un ciclo dominante in Serie A. Al contempo, però, questa nuova consapevolezza di essere vincenti fece capire anche ai vertici societari che ormai il fantasista sudamericano dagli occhi a mandorla non poteva più trovare spazio, nemmeno marginalmente. Di quel nuovo ciclo fece dunque parte solo il primo anno, quello senza la Juventus di mezzo, quello del record di punti. Andò a segno in una sola occasione, a campionato ormai ampiamente acquisito, in una delle passerelle casalinghe delle ultime giornate. Per una curiosa coincidenza, l'avversario era l'amatissimo Empoli, la cui porta era stavolta difesa da Bassi. E stavolta la perla fu la più preziosa di sempre: un gol direttamente da calcio d'angolo! Una delle espressioni tecniche e balistiche più appropriate e più incantevoli per un giocatore della sua tipologia. Altrettanto curiosamente, fu una fine e insieme un inizio, poiché inaugurò una serie di gol dalla bandierina (in Sud America ribattezzati olimpici da quando nel 1924 l'argentino Onzari direttamente da corner permise all'Argentina di sconfiggere l'Uruguay campione in carica) che proseguì nella parte finale della sua carriera: tra questo all'Empoli e gli altri che avrebbe realizzato poi in patria, come vedremo, sono in tutto 6 i gol olimpici che il curriculum dell'uruguaiano oggi può vantare. Senza dubbio, quello fu un congedo in grande stile dall'FC Internazionale, con la quale El Chino è arrivato a totalizzare 262 presenze e 72 reti, togliendosi la soddisfazione di portare a casa, oltre alla Coppa UEFA appartenente al secolo precedente e ai due scudetti propiziati da Calciopoli nel suo ultimo anno a Milano, due edizioni della Coppa Italia e altrettante della Supercoppa Italiana. Nella stessa estate del 2007 si congedò pure dalla Nazionale, dopo 68 presenze condite da 10 gol.

Tutti i gol realizzati in Serie A da Recoba dopo il rientro dalla squalifica, durante le gestioni di Cuper e Mancini. Un campionario di tutto quanto scritto su di lui negli ultimi due paragrafi.

Il canto del cigno (anzi, del Chino) in Europa passò attraverso una stagione al Torino, con parecchie presenze ma solo 3 reti all'attivo, e una e mezza in Grecia, al Panionios, dove gli infortuni lo perseguitarono e lo convinsero che, a quasi 34 anni di età, era ora di tornare alle origini, in un contesto che poteva tributargli onori regali senza pretendere la luna, alias la continuità. E le sue origini erano al Danubio. Lì trascorse un anno e mezzo, periodo fondamentale per ritrovarsi protagonista e padrone assoluto dell'amore dei tifosi: le distanze più ampie tra i reparti, un pizzico di anarchia tattica tutto sudamericano, la maggiore lentezza, il minor pressing... tutto questo permetteva a lui di giocare praticamente da fermo e al suo sinistro magico di esprimere tutto il proprio straordinario potenziale più facilmente che dall'altra parte dell'Atlantico, e di certo le pressioni erano minori. Riscopertosi top player, o quantomeno vissuto come tale, decise di rescindere col Danubio per fare l'ultimo salto di qualità, completando la sua "seconda giovinezza" nell'altra squadra in cui aveva militato in Uruguay ad inizio carriera prima di venire in Italia: il prestigioso Nacional. Annata 2011-12, buona la prima: Primera División e Copa Libertadores, le presenze arrivarono addirittura a 30, le reti si fermarono a quota 8 ma due di esse furono decisive per le vittorie dell'Apertura e del Clausura, quindi del campionato. Il primo campionato uruguaiano vinto nella sua lunga e discontinua carriera. Le 3 stagioni successive videro un fisiologico calo graduale delle statistiche, ma l'amore dei tifosi nei confronti del loro numero 20 (numero di cui Recoba si era riappropriato dopo il 4 al Torino, il 9 al Panionios e l'11 al Danubio) venne costantemente infiammato dalle sue perle, ormai quasi esclusivamente da calcio piazzato. E non solo calci di punizione, come già accennato: 22 settembre 2012 contro il Fenix in campionato, 20 ottobre 2012 contro il Liverpool Montevideo in campionato, 3 febbraio 2013 contro l'Argentinos Juniors in amichevole, 27 settembre 2014 contro il Wanderers in campionato, 20 gennaio 2015 contro il Deportivo Luqueño in amichevole; questi i 5 gol olìmpici che hanno insindacabilmente consacrato questo giocatore come divinità del fùtbol uruguayo.

I 5 gol olìmpici made in Nacional, che si aggiungono al primo della serie, ovvero l'ultimo gol segnato con la maglia dell'Inter (vedi secondi finali del video precedente). Facciamo un gioco: riusciamo a individuare ed elencare tutti gli epiteti celebrativi riservati dai vari telecronisti?

Ma la degna fine di una leggenda non può limitarsi a una serie di firme d'autore disseminate negli ultimi anni di carriera. Ci vuole qualcosa di veramente importante, qualcosa come... un altro campionato. Stagione 2014-15, la quarta al Nacional. A distanza di 3 anni dal precedente titolo, la squadra torna a girare come si deve e battaglia contro gli acerrimi rivali del Peñarol. Il primato nel torneo Apertura è propiziato dalla vittoria nel Superclásico: punteggio bloccato sull'1-1, punizione per il Nacional al 94' da una trentina di metri, El Chino si incarica della battuta e disegna una straordinaria linea arcuata che gonfia dolcemente la rete. Per quella sponda di Montevideo è una gioia immensa, per lui è un autentico trionfo: il presidente del club propone di erigergli una statua accanto a quella del grande tanguero Gardel, il giovane Gaston Pereiro (oggi al PSV Eindhoven) si tatua il suo volto sul braccio destro. Come se Giaccherini si fosse tatuato Del Piero dopo la punizione con la Lazio che propiziò il primo scudetto di Conte... E il Clausura come si conclude? Con una finale "superclásica": è ancora il Nacional a prevalere, questa volta per 3-2 ai supplementari. A giustiziare il Peñarol è un'incornata di Santiago Romero su calcio d'angolo battuto proprio da Recoba. E poco importa se pochi minuti dopo proprio lui si fa parare il rigore del possibile 4-2, quasi a ricordare a tutti quale sia stata la cifra sintetica della sua carriera mai sbocciata come avrebbe potuto. Per Àlvaro Recoba questa partita costituisce il ritiro del vincitore. È il Campione che, a 39 anni suonati, sceglie di appendere gli scarpini al chiodo e chiudere la sua esperienza di calciatore da romantico dominatore dei sentimenti popolari. Da Montevideo con pigrizia.

Àlvaro Recoba è stato a suo modo una leggenda: per ricordarlo come merita, ecco il suo ultimo trionfo: la mitica punizione in zona Cesarini nel Superclásico dello scorso torneo Apertura.

In concomitanza con l'annuncio ufficiale del suo addio al calcio, a giugno di quest'anno, il Nacional ha proposto all'Inter di organizzare un'amichevole in suo onore nel mitico stadio Centenario, sede delle partite della Nazionale uruguaiana e dei match più importanti di Nacional e Peñarol. Stiamo ancora aspettando.


Articolo a cura di Nicolò Vallone



sabato 9 gennaio 2016

Il ritorno del Principe

Cosa ha già dato e cosa Kevin-Prince Boateng può ancora dare al Milan.

di Federico Principi







Kevin-Prince Boateng se ne era andato dal Milan in una di quelle malinconiche giornate di fine agosto (2013) nelle quali chi adora il mare - specialmente se del centro Italia come il sottoscritto - comincia a pensare a quanto freddo dovrà sopportare prima di riavere una nuova stagione estiva. Una sorta di letargo, per intenderci, che il tifoso milanista avrebbe dovuto attraversare senza il controverso ghanese ma con il regalo presidenziale del ritorno di Kakà. E inizialmente - a livello mediatico e per la portata del brasiliano nella storia recente del Milan - sembrava una mossa vincente, con l'aggiunta di un surplus di 10 milioni (qualcosa in più) di euro derivanti dalla cessione di Boateng.


Colpo di fulmine
La storia d'amore - a tratti complicata - tra il Milan e Kevin-Prince Boateng era iniziata nella piena estate di 3 anni prima. I rossoneri avevano una pesante eredità ancelottiana alle spalle ed un'altra, tattica - probabilmente utopistica o forse semplicemente male impostata - marchiata da un Leonardo maltrattato dai piani alti, dopo oltre un decennio di onesta e produttiva servitù. Al Milan era arrivato quel Max Allegri che, dopo il salto dal Sassuolo al Cagliari (dalla vittoria del campionato di C1 direttamente in Serie A), aveva tutta l'aria di essere una delle tanto decantate scommesse berlusconiane, stavolta al di fuori della regola aurea del "Milan ai milanisti".

Allegri aveva la poco nascosta intenzione di rompere un sistema che, con grande sincerità, non funzionava più con continuità. Il Milan era diventato una sorta di culla del palleggio ma con interpreti ormai abbastanza statici (Pirlo, Seedorf, Ronaldinho) tutti contemporaneamente utilizzati, con l'aggiunta del solo Ambrosini (che Leonardo preferiva scientificamente a Gattuso, con polemiche postumea proteggere una difesa che, pur dotata di Nesta e Thiago Silva, nella stagione di Leonardo (2009-10) aveva incassato 39 gol in 38 partite di campionato.

La voce di Allegri in sede di mercato si era alzata subito: il livornese chiedeva insistentemente un centrocampista dinamico e non si accontentava del solo Flamini. Il chiaro messaggio alla società era che i tre gioielli del palleggio non potessero da soli sopportare la fase difensiva (soprattutto se schierati contemporaneamente a due punte di ruolo) e rischiassero di essere estremamente immobili e prevedibili in impostazione.

I numerosi traffici di mercato tra Genoa e Milan si attivarono anche nell'affare Boateng, che i rossoblù prelevarono formalmente dal Portsmouth appena retrocesso. Il ghanese si era appena messo in luce ai Mondiali in Sudafrica e rispondeva perfettamente all'identikit del centrocampista che Allegri esigeva per completare la sessione di mercato. Non sappiamo se era previsto in quell'accordo, ma al prestito al Milan (con riscatto fissato intorno agli 8 milioni) si legò, pochi giorni dopo, la partenza di Kaladze verso il Grifone.


L'era Ibrahimovic
Boateng ebbe la fortuna di accasarsi al Milan nello stesso momento in cui Galliani aveva completato con successo l'acquisto di Ibrahimovic, con pagamento abbastanza ridicolo e dilazionato nel tempo. L'importanza tattica dello svedese si rivelò perfino superiore alle attese, e perfettamente coniugata con le caratteristiche naturali di Boateng.

Il ghanese ha fin da subito mostrato qualità atletiche fuori dall'ordinario, e un'altrettanto elevata motivazione e capacità nell'inserimento centrale. Nella prima partita che gioca, contro l'Auxerre, subentra ad Ambrosini dopo soli 15 minuti. Da posizione di mezzala destra si butta sugli spazi centrali creati dai movimenti ad allargarsi di Ronaldinho (quasi sempre verso sinistra):

Minuto 1:07.

Causando poi, con lo stesso movimento e nella stessa situazione tattica, l'assist volante e vincente per il primo gol rossonero di Ibrahimovic:

Minuto 1:36.

Con il passare delle settimane, Allegri si rende conto che sempre più difficilmente riesce a rinunciare a Boateng. Il progetto tattico dell'allenatore livornese svincola Pirlo dal suo canonico ruolo di playmaker centrale trasvolandolo sul centro-sinistra (scelta più che controversa), con il mantenimento della mediana a 3 ma con Ambrosini centrale e Gattuso (rivitalizzato da Allegri) nella sua posizione di mezzala destra di ancelottiana memoria. In questo nuovo meccanismo di centrocampo, meno impostato sul palleggio orizzontale (come una sorta di rottura con il passato), Boateng ridefinisce il concetto di trequartista. A partire dalla sfida di San Siro contro il Real Madrid si proietta in avanti come vero e proprio elemento offensivo alla ricerca degli spazi centrali in cui picchiare, parzialmente esentato dai compiti di rottura della mediana a 3.

Quella del trequartista è la posizione che Kevin-Prince Boateng avrebbe ricoperto con continuità - quando il fisico glielo avrebbe permesso - per due anni. Il tedesco-ghanese non aveva nulla del 10 classico: non aveva compiti di playmaking per via di tangibili lacune di sensibilità nei piedi ed era uno di quelli che, in quello scacchiere, necessitavano di giocare la palla con pochi tocchi (meno rispetto a Pirlo, Seedorf, Ibrahimovic, Pato, Robinho, Ronaldinho, ma anche Ambrosini) perché poco capace di aprire gli spazi con giocate illuminanti palla al piede in spazi intasati. La forza atletica e lo spunto secco gli permettevano di creare talvolta superiorità numerica ma solo con giocate in velocità o magari con delle sponde (sfruttando la sua stazza), e molto più agevolmente in campo aperto. Il suo pensiero tattico era molto più fine in fase di possesso (e quindi nei tempi dell'inserimento) piuttosto che nella diligenza delle coperture e del posizionamento in fase di non possesso, e per questo motivo Boateng ha trascorso la grande minoranza del suo tempo al Milan nella linea mediana a 3 come mezzala.

La proiezione in avanti in campionato provoca due gol nelle prime due partite, e pure abbastanza simili. Con il Brescia, Boateng capitalizza l'assist di Ibrahimovic e brucia tutti sul tempo, di forza e a difesa schierata:

Minuto 0:11.

Contro il Bologna sfrutta invece una maggiore profondità e sorprende i centrali rossoblù, stavolta in velocità, e sempre sull'assist di Ibrahimovic. Che - in mancanza di un Ronaldinho ormai fuori dal progetto tattico - prende sempre più confidenza con il movimento a venire fuori dal centro dell'area per allargarsi, specialmente verso sinistra:

Minuto 0:19.

Quella del perfetto sfruttamento degli spazi aperti dai movimenti delle punte era diventata una felice costante per Boateng. Non solo ricevendo assist da Ibra, ma anche da Pato che, ad esempio contro il Napoli, attrae uno dei centrali della difesa di Mazzarri (Cannavaro) e serve il ghanese, fresco di ingresso in campo e ancor più pimpante (come se non bastasse) rispetto agli altri due centrali napoletani, bruciati.

Minuto 3:04.


Post-Ibra e le difficoltà
La presenza in campo di Ibrahimovic non si limitava a generare una sicura fonte stagionale di gol decisivi, almeno in campionato (per le polemiche sulla dimensione europea dello svedese, cercare altrove), che portavano la sua firma. Ibra aveva creato attorno a sé una sorta di campo magnetico nel quale attraeva i corpi e le attenzioni delle intere difese avversarie, liberando autostrade agli inserimenti di mezzali, trequartisti o seconde punte.

Nocerino e Boateng sono forse stati i maggiori beneficiari della dominanza di Ibrahimovic. La prolificità dell'italiano nella stagione 2011-12 è da attribuire principalmente a situazioni tattiche simili a questa: Ibra attrae l'attenzione di tre giocatori del Lecce e con una magia al volo libera l'ex palermitano in uno spazio completamente vuoto.

La sostituzione dello svedese con Pazzini, oltre che ad un drastico calo di livello tecnico e fisico, aveva inoltre portato a una forzata revisione degli schemi offensivi. L'ex interista era ed è sicuramente un ariete più statico, formidabile attaccante d’area, poco capace però di creare spazi per i compagni.

Per la stagione 2012-13 il Milan aveva rivoluzionato l’organico con l’addio di tutti i senatori (ad eccezione di Abbiati ed Ambrosini) e dei fuoriclasse Ibrahimovic e Thiago Silva. Allegri tuttavia non aveva inizialmente intenzione di cambiare sistema di gioco, fedelissimo al 4-3-1-2 fin dai tempi del Cagliari e con Boateng ancora in posizione di trequartista, stavolta con la 10 ereditata da Seedorf.

Il ghanese si è ritrovato ben presto con lo scettro tra le mani, con tutti gli oneri che comporta, ma senza tutti quegli spazi nei quali sguazzava allegramente. Boateng, con la 10 sulle spalle e un organico impoverito, si è improvvisamente voluto (dovuto?) prendere troppo spesso la responsabilità delle giocate, e troppo spesso con difese avversarie schierate. Tentando di mostrare al pianeta calcistico un salto di qualità in questo senso, è finito in realtà per snaturare le proprie caratteristiche naturali: Boateng non è un vero e proprio produttore qualitativo di gioco, ma un killer che capitalizza la mole di gioco dei compagni, specialmente in transizione o comunque a campo sufficientemente aperto.

Dopo aver inizialmente virato su un 4-2-3-1 creato su misura di El Shaarawy per permettergli di partire dalla mattonella preferita (la fascia sinistra), Allegri modella il Milan sul 4-3-3 fin dalla metà del girone di andata e da quel momento perderà una sola partita in tutto il campionato. Boateng rinuncerà ovviamente alla posizione che lo ha reso grande nei rossoneri, ma con il nuovo modulo il ghanese dimostra di trovarsi maggiormente a proprio agio, di nuovo parzialmente deresponsabilizzato da giocate palla al piede.

Nella sfida casalinga contro la Juventus del novembre 2012 Boateng viene addirittura preferito a Pazzini come centravanti. La scelta ha il chiaro scopo di dare meno punti di riferimento possibili alla solidissima difesa a 3 bianconera (priva di Chiellini, al suo posto Caceres).

Nonostante Boateng sia teoricamente il centravanti, i movimenti dei tre attaccanti non sono così bloccati dalle posizioni. Qui il ghanese parte da dietro, largo a destra, ottenendo l’uno-due da Robinho che in questo caso occupa la posizione del centravanti. Boateng andrà al tiro con Buffon pronto a respingere.

Il motivo principale della sua collocazione da falso nueve era però da ricondurre a situazioni di non possesso. Non disponendo di un trequartista, con De Jong raramente (in carriera) disposto ad alzarsi e tentare un recupero palla medio-alto, Allegri aveva chiaramente collocato Boateng in posizione centrale per schermare ogni possibile riferimento verso Pirlo, accettando che l’azione partisse invece da Bonucci, vertice basso dell’ormai famoso rombo di impostazione juventina.

I tre attaccanti del Milan lasciano giocare agevolmente il pallone ai tre difensori bianconeri, abbassandosi contemporaneamente all’altezza del vertice alto del rombo juventino (Pirlo), schermato da Boateng. Bonucci tentenna ma capisce che non può appoggiarsi sul suo playmaker, e sulla pressione di El Shaarawy è costretto ad impostare l’azione rinunciando ai piedi delicati del bresciano.

Con l’acquisto di Balotelli il tecnico rossonero rinuncerà definitivamente alla collocazione di Boateng come centravanti, alternandolo con Niang nella zona destra del tridente e schierandolo molto raramente come mezzala. Così come gli omologhi a sinistra (Robinho e soprattutto El Shaarawy), Boateng e Niang rivestiranno una fondamentale importanza in entrambe le fasi, in un modulo estremamente propenso a trasformarsi in 4-5-1 in fase di non possesso e che richiedeva agli esterni di attacco continui raddoppi su terzini e mezzali in copertura.


Quale futuro?
In molti, compreso Hottmar Hitzfeldsospettavano che alla base del calo di rendimento di Boateng a partire dal 2012 vi fossero problemi fisici più o meno cronici. Si è parlato di ginocchia e perfino di pubalgia, e l’allenatore tedesco non ci ha pensato due volte a denunciare quello che secondo lui fosse il vero motivo - mai ufficializzato - della cessione allo Schalke 04.

Boateng è tornato ufficialmente al Milan a gennaio 2016, in un momento in cui la stabilità societaria della gestione Berlusconi è probabilmente ai minimi storici, e con essa i risultati sul campo. Il ghanese è tornato ad allenarsi a Milanello dai primi di ottobre e, insieme allo staff medico e atletico, avrà potuto saggiare con calma le sue reali condizioni fisiche prima del tesseramento ufficiale.

La domanda che molti tifosi rossoneri si saranno fatti è sicuramente pertinente ad un suo ipotetico collocamento in campo, prima ancora che nella definizione delle gerarchie. Mihajlovic in questa stagione ha sperimentato tre differenti moduli, partendo con il 4-3-1-2 e virando su una maggiore propensione allo sfruttamento delle fasce laterali, prima con il 4-3-3 e successivamente con l’attuale 4-4-2 col retrogusto del 4-2-4.

Se dovessimo inserire Boateng nello scacchiere del Milan, al netto del modulo attuale, la sua presenza sarebbe complicata e non sarebbe certamente contemplata nella mediana a 2. Mihajlovic ha epurato un giocatore di rottura come De Jong costruendo una coppia di ex trequartisti davanti alla difesa composta da Montolivo e Bertolacci. Se il primo - come sottolineato da Federico Aquèsi è incredibilmente rivelato il più prolifico giocatore della Serie A in materia sia di anticipi che di palloni recuperati, Mihajlovic pretende che l’impostazione del gioco sia quasi equamente spartita tra i due mediani, che a turno si avvicinano (uno per volta) ai due centrali di difesa per raccoglierne il compito dell’impostazione. Impossibile chiedere a Boateng un lavoro simile.

Montolivo (sopra) e Bertolacci (sotto, con Montolivo in posizione volutamente più avanzata) si alternano nell’impostazione del gioco rossonero avvicinandosi rispettivamente alla linea dei centrali.

Sarebbe altrettanto difficile ipotizzare la presenza di Boateng nel tandem d’attacco, con Bacca inamovibile e con un’intesa sufficientemente rodata tanto con Niang quanto con Luiz Adriano. I prossimi rientri di Balotelli e Menez scoraggiano ancora di più un eventuale pensiero di vedere il nome del ghanese a fianco di quello del centravanti colombiano.

Se volessimo proprio trovare un posto a Boateng nell'attuale 4-4-2 non potrebbe che essere quello di esterno destro alto, che nello schema di Mihajlovic ricopre teoricamente la posizione di esterno di centrocampo ma con propensioni sicuramente offensive visti i nomi accostati a quel ruolo nel corso delle settimane (Cerci, Honda e addirittura Niang). Quella che era all’incirca la mattonella occupata da Boateng per buona parte della stagione 2012-13 e che sarebbe obbligatoria vista la presenza sull’altro lato del campo di un Bonaventura sempre più insostituibile.

Il problema principale risiede nel fatto che Mihajlovic abbia posizionato in quella zona di campo i giocatori sopracitati per via della loro propensione e capacità di puntare l'uomo palla al piede, situazione di gioco nella quale Boateng fa sicuramente molta fatica e che riesce a sfruttare con successo quasi solo ed esclusivamente quando è lanciato in velocità a campo aperto. La posizione di esterno destro alto sarebbe però interessante con la contemporanea presenza di una seconda punta pronta a svariare e con Boateng pronto all'inserimento nelle zone di campo lasciate scoperte dai centrali avversari. Nell’ultimo match, contro il Bologna, Niang si è ricordato di quanto sia devastante anche come esterno, andando a creare spazi importanti che soltanto un evidente calo psicologico e di automatismi ha impedito ai suoi compagni di sfruttare, e sui quali Boateng era invece solito fiondarsi fulminando intere difese avversarie.

Niang si allarga ed è tallonato dal centrale difensivo (Maietta). Le maglie della difesa del Bologna si allargano ma l’esterno destro del Milan (Honda) non sfrutta lo spazio enorme creatosi. Come in un’altra azione precedente in cui era stato seguito dall’altro centrale (Gastaldello), Niang è costretto a fare tutto da solo e puntare l’uomo anziché cercare un gioco associativo.

Se Mihajlovic tornasse fedele agli schemi di gioco di inizio stagione, potremmo assistere alla presenza di Boateng nella mediana a 3 come mezzala destra a raccogliere il testimone di Kucka se, come prevedibile, difficilmente il tecnico serbo dovesse rinunciare a Niang che in un eventuale 4-3-3 andrebbe certamente a ricoprire la posizione di esterno offensivo. Ugualmente complicata sarebbe la collocazione di Boateng come trequartista in un eventuale ritorno di moda del 4-3-1-2, in un ruolo nel quale Mihajlovic negli ultimi due anni ha mostrato tutta l'intenzione di schierare esclusivamente giocatori di qualità (Soriano, Bonaventura, Bertolacci).

Boateng non è stato atteso in realtà come un rinforzo decisivo e determinante per risollevare il Milan da una quantità immensa di problemi di ogni tipo. La parabola discendente intrapresa inizialmente nell'ultima stagione al Milan e successivamente protrattasi al periodo a Gelsenkirchen infonde al pubblico poca fiducia sulle sue possibilità di titolarità e, a maggior ragione, di risultare decisivo in un'inversione di tendenza che al momento pare alquanto improbabile. Eppure, dopo aver lavorato diversi mesi in allenamento a Milanello - senza lo stress delle scadenze delle partite ufficiali - il suo fisico potrebbe aver recuperato da tutti quegli acciacchi che gli impedivano di sfruttare appieno le sue ormai antiche spaventose qualità atletiche, fondamentali nella sua espressione in campo. La sua carica psicologica, contagiosa per il gruppopotrebbe sicuramente avere un discreto potere taumaturgico nell'infondere una scossa decisiva a tutto l'ambiente.


Articolo a cura di Federico Principi