Dall’abisso delle
scommesse ai grandi successi, dalle plusvalenza al nuovo stadio: la parabola della famiglia Pozzo giunge alla trentesima stagione. Ed è sempre
più un brand.
di Emiliano Mariotti
Zoncolan, Stelvio,
Mortirolo. Sono le salite, insieme al calcio, la grande passione di Francesco
Guidolin. Salite disumane da azzannare in sella a una bici perché «solo lo sforzo libera la mente». Parola del migliore tecnico
nella storia dell’Udinese. Una società che di salite ne sa qualcosa.
Soprattutto nella persona del suo presidente Giampaolo Pozzo: asperità ne ha
incontrate tante nel corso della sua avventura alla guida dei friulani. E se
oggi, alla trentesima stagione della sua presidenza, i bianconeri sono ormai
una presenza costante nel nostro campionato, se si sono conquistati a suon di
risultati un posto d’onore nell’Olimpo del calcio nostrano e se rappresentano
un modello da imitare (ed esportare) all’estero lo si deve all’opera di questi
due scalatori, tenaci e determinati. Soprattutto del più anziano.
Il primo “strappo”, per
continuare con le metafore ciclistiche, l’ormai 74enne Pozzo se lo ritrova già
a pochi metri dalla partenza. È il luglio del 1986 quando Gianpaolo decide di
abbandonare la FreUd (Frese Udinesi), la ditta di famiglia specializzata in
utensili per la lavorazione del legno, per acquisire da Lamberto Mazza
l’Udinese Calcio. Nemmeno un mese ed ecco la prima grana. E che grana: la
Commissione Disciplinare della Lega spedisce i friulani in serie B nell’ambito
di un’inchiesta sul calcio-scommesse che passerà alla storia come Totonero-bis.
Inizio peggiore è difficile immaginarlo. A venti giorni dal via della nuova
stagione, però, al Corte d’Appello Federale corregge il tiro: l’Udinese resta
in A ma partirà con 9 punti di penalizzazione. Un’enormità in un campionato a
sole 16 squadre e con i due punti per la vittoria.
Pozzo non si scompone e
cerca di sopperire alle colpe di chi l’ha preceduto con una campagna acquisti
all’altezza dell’impresa sovrumana che lo attende. E così ecco che sbarcano in
Friuli l’argentino Daniel Bertoni e i Campioni del Mondo Fulvio Collovati e
Ciccio Graziani. Nonostante le 7 reti di quest’ultimo però i bianconeri non
riescono a ribaltare il fardello imposto dalla magistratura e chiudono a soli
15 punti il campionato dominato dal Napoli di Maradona. Oltre al danno la
beffa. Perché senza penalità si sarebbero salvati.
Le indagini, lo
scandalo, la penalizzazione e infine la retrocessione: ci sono più salite nella
prima stagione di Pozzo a Udine che in tutta un’edizione del Giro d’Italia. Una
piazza che appena quattro anni prima aveva sognato con l’arrivo dal Brasile di
Zico, il “Pelé bianco”, si ritrova ora rigettata tra i cadetti. Quelle che
seguono sono otto stagioni di alti e bassi. O di saliscendi, per restare sulle
due ruote: promozioni foriere di speranze e altrettante amare ricadute,
l’esplosione di giovani promettenti come Balbo e Sensini ma anche tante
sofferenze. Non solo sportive. Per Pozzo le notti di Italia ’90 (in occasione
delle quali il Friuli viene rimesso a nuovo) sono tutt’altro che magiche: 5
punti di penalizzazione alla squadra e, quel che gli fa più male, 5 anni di
deferimento a lui per una presunta combine che vede coinvolto anche l’allora
presidente della Lazio, Gianmarco Calleri. In seguito a questa delusione, il
patron decide di abbandonare ogni incarico ufficiale e di abdicare in favore
del figlio Gino.
Anche in tandem con
l’erede, comunque, il suo sostegno non viene mai meno. E finalmente, come un
gregario che dopo tanti sforzi si toglie lo sfizio di alzare le braccia al
cielo, la sua Udinese inizia a raccogliere quanto seminato. A partire dalla
stabilità: nel 1994 il club friulano raggiunge nuovamente la massima serie.
Questa volta però non la abbandonerà più: i bianconeri sono la quinta squadra
da più tempo in A, alle spalle solo delle milanesi e delle romane. Un traguardo
già importante di per sé per una società abituata fino ad allora a militare
nelle categorie inferiori. Ma il capolavoro arriva a cavallo del nuovo
millennio: sotto la guida tecnica di Alberto Zaccheroni arrivano una storica
qualificazione europea e un altrettanto storico terzo posto. Nel 1998 Oliver
Bierhoff si aggiudica la classifica capocannonieri per poi seguire il suo
mentore a Milanello. L’anno seguente, orfani del tedescone, le Zebrette trovano
in Marcio Amoroso il nuovo bomber: anche il brasiliano sarà il miglior
marcatore del torneo. Sono stagioni memorabili, in cui tante grandi sono
costrette a inchinarsi ai friulani:
E non solo le italiane:
Nelle ultime diciotto
stagioni, l’Udinese ha colto otto qualificazioni in Uefa/Europa League e tre in
Champions: niente male per una società che fino ad allora a livello
continentale aveva disputato solo la ormai desueta Mitropa Cup. La prima
storica partecipazione alla massima competizione europea, esattamente dieci
anni fa, naufraga ai gironi: fatale la sconfitta subita dai friulani a Brema
che permetterà al Werder di passare agli ottavi in virtù proprio degli scontri
diretti. Le altre due partecipazioni si spengono al turno preliminare:
probabilmente l’unico grande neo della gestione Pozzo-Guidolin.
Ma è in questo
ventennio d'oro che inizia a prendere forma quell'incredibile capacità
gestionale che fa della famiglia Pozzo una delle realtà imprenditoriali più
virtuose del nostro panorama sportivo. Quasi ogni anno la squadra perde un
giocatore-chiave: dopo Bierhoff tocca ad Amoroso che si trasferisce alla corte
dei Tanzi. Parte invece per Roma, sponda Lazio, Stefano Fiore, mattatore della
stagione 2000-01. Poi è la volta di Helveg, seguito da Pizarro, Jankulovski,
Mauri, Iaquinta, Muntari, Pepe, Quagliarella, Handanović: in molti lasciano
dopo poche stagioni la piazza che li ha visti esplodere. Eppure, al contrario
di tante altre piazze, la squadra non subisce mai scossoni di rilievo. Perché
partita una stella c’è sempre un giovane (italiano o straniero) pronto a
stupire.
Scovare talenti, farli
crescere, rivenderli, fare plusvalenze. Facile a dirsi, difficile a farsi.
L’Udinese però ne ha fatto un modello di successo. Il pezzo forte nell’estate
2011: i tre milioni e mezzo spesi rispettivamente tre, quattro e sei anni prima
per Sánchez, Inler e Zapata si trasformano, come nella leggenda di Re Mida, in
65. Plusvalenza: oltre 60 milioni. Con le rigidissime regole finanziarie
imposte dalla Uefa, una manna dal cielo.
Ma a Pozzo non basta:
vuole allargare il proprio raggio d’azione, internazionalizzare gli affari,
moltiplicare le opportunità. Ecco perché nel 2009 si assicura il controllo del
Granada e tre anni dopo quello del Watford. Due club, quello andaluso e quello
dell’hinterland londinese, dal palmarès molto modesto e dall'ambiente caldo ma
non troppo esigente. L’humus perfetto per ricreare due piccole Udine
(calcisticamente parlando) in Spagna e in Inghilterra. L’esperimento per ora va
a gonfie vele: il Granada nel 2011 è tornato in Primera a 35 anni dall’ultima
volta e in seguito ha ottenuto quattro sofferte quanto meritate salvezze mentre
gli Hornets che furonodi Elton John
sono appena riapprodati in Premier League dopo otto stagioni tra i cadetti.
Due teste di ponte nei
due campionati più importanti del mondo, in cui far crescere e maturare giovani
talenti spalla a spalla con Messi e Rooney o in cui “parcheggiare” elementi in
esubero sperando in un loro rilancio. Il tutto senza perdere di vista i
risultati per non scontentare i tifosi e non buttare all’aria la preziosa
(anche economicamente) posizione acquisita. Un sistema di sussidiarietà tra le
tre società di famiglia in cui tutti vengono in soccorso di tutti. Sempre,
però, con un occhio di riguardo in più per la casa-madre. Che può così contare
su una rosa “triplicata”.
Una novità assoluta? Il
paragone con la Red Bull regge fino a un certo punto: l’idea di base (marchio a
parte) è la stessa ma i risultati per ora sono ben diversi. Il piccolo impero
dei Pozzo annovera tre squadre nella massima divisione in paesi chiave, tratta
decine di giovani promesse ogni anno affiancandole a campioni affermati. Il
Toro Rosso, invece, oltre al club di Salisburgo (eterno campione in patria)
vanta una replica, il Lipsia, nella serie B tedesca, una tra i cadetti
austriaci e una, quella newyorkese, buona più come brand pubblicitario che come
fucina di talenti. L’esperimento di Pozzo quindi può davvero inaugurare un
nuovo modello di successo basato su spese oculate, potenziamento dei settori
giovanili e abili mosse finanziarie.
Non è un caso che sia
stata proprio l’Udinese la prima a seguire l’esempio di Juve e Sassuolo. Ad
avere cioè uno stadio di proprietà sulla falsariga di quello delle grandi
d’Europa. All’appello manca solo la curva sud e poi, per la partita casalinga
con la Juve, prima giornata del girone di ritorno, sarà tutto pronto per
l’inaugurazione ufficiale. Il nuovo “Friuli”, costato 50 milioni di euro (cifra
minore della somma delle plusvalenze dell’estate 2011, tanto per dare un’idea),
conterrà solo 25.000 spettatori ma permetterà ai tifosi una visuale perfetta,
grazie alla rimozione della pista d’atletica e di tutte le barriere tra spalti
e terreno di gioco. Una struttura all’avanguardia, dotata di tutti i comfort.
Come lo Juventus Stadium di Torino e come il Mapei di Reggio Emilia.
Presenza fissa in serie
A, levatura internazionale, affari d’oro e stadio di proprietà: al via della
trentesima tappa, la strada per Giampaolo Pozzo sembra ormai in discesa. Ma un
corridore esperto come lui sa che le cadute sono sempre dietro l’angolo. E che
prima o poi si dovrà ricominciare a scalare.
Articolo a cura di Emiliano Mariotti
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