Lo
Slam più rumoroso regala emozioni a non finire. E un'infinità di spunti tecnici
dalle finali maschile e femminile.
di Federico Principi
Non ritengo di essere un
grande amante della nostalgia, non fosse altro per quella sensazione
angosciante che ti attorciglia lo stomaco e ti annebbia le funzioni
intellettive. A volte è però purtroppo troppo umano e inevitabile abbandonarsi
alla malinconia che ci si chiede solamente quando passerà, senza provare a
scacciare quell'alone di tristezza che ricopre totalmente anima e corpo:
accettarlo, perché c'è e non si può fare nulla.
"Leaving New York never easy" era il refrain di un grande
successo dei R.E.M. del 2004. Sarà stato difficile anche per le nostre azzurre
allontanarsi dalla Grande Mela a fine torneo, lasciando una marea di ricordi
che potranno con ogni probabilità essere gli ultimi (per Flavia lo saranno)
delle loro carriere a Flushing Meadows. «Il
momento più triste è quando hai la coppa in mano, perché sai che non
ricapiterà»: la positività fatta persona di Paolo Rossi, riferendosi
ovviamente al Mundial '82. Flavia Pennetta si è invece detta felice di aver
deciso di smettere a fine stagione, consapevole che con il successo nello Slam
la sua carriera ha vissuto il momento più bello e più elevato, e
contemporaneamente decisivo per fugare ogni dubbio di abbandono. «Ogni anno dopo lo US Open mi chiedo se
valga la pena continuare», aveva detto, preannunciando quasi quella che
sarebbe stata la sua indiscutibile scelta.
A fine torneo Flavia ha
indicato la mancanza di motivazione a competere come fattore decisivo per la decisione
finale sulla sua carriera. Non sembrava, a giudicare da quello che si è visto
in questi giorni di lunghe dirette. Voleva forse utilizzare le ultime energie
mentali rimaste, spremendole a fondo per produrre un ultimo grande exploit che
l'ha innalzata nei vertici della storia del tennis italiano. Il destino le ha
tuttavia riservato un passaggio imprescindibile attraverso il quale transitare
verso la storia: il derby contro un'amica.
L'annuncio al minuto 1:28.
Viva l'Italia
Era facile prevedere
che la Pennetta mostrasse una lucidità e una saggezza tattica di altro livello
rispetto a Serena. L'americana non è molto avvezza né attrezzata per uscire dallo
schema del bombardamento, incapace di proporre un piano strategico differente
da quello: e comunque estremamente efficace - nonostante i movimenti
apparentemente grezzi (che ha tuttavia migliorato negli anni) - per via della
sua impareggiabile potenza muscolare.
Flavia ha costruito un
copione differente, forte della ultra-ventennale conoscenza dell'amica
diventata rivale per poche ore. La Pennetta ha lavorato molto negli ultimi mesi
con il suo nuovo coach, Salvador Navarro, compiendo notevoli progressi dalla
parte del dritto: soprattutto aumentando lo spin della palla, senza perdere (tutt'altro)
fluidità nel movimento. Spin che di Navarro era la prerogativa principale.
Per sfuggire alla
velenosità del back di rovescio della tarantina, Flavia ha caricato perfino
eccessivamente di top entrambi i fondamentali, fino ad alzare una manciata di
veri e propri campanili. La strategia, addirittura anti-estetica in alcuni
casi, è perfettamente riuscita nel suo intento: lo spin ha tolto (come
biomeccanicamente avviene nella normalità dei casi) sensibilità al back della
Vinci, che di conseguenza non poteva essere così basso e incisivo, né poteva
permetterle di guadagnare campo. Le consuete pallate piatte che la maggioranza
delle giocatrici propongono nel tennis contemporaneo non danno fastidio a Roberta
se non superano una certa velocità, consentendo alla tarantina di appoggiarsi e
tenere più facilmente basso il proprio rovescio tagliato, che molti grattacapi
crea alle picchiatrici poco razionali. La Pennetta non appartiene per sua
fortuna a quest'ultima categoria, e ha giustamente impostato la finale nel modo
che abbiamo spiegato qualche riga sopra: un back un po' più alto e meno
efficace di Roberta, e in qualche caso anche corto, era facile preda per Flavia
che poteva successivamente accelerare, generando spesso e volentieri colpi di
approccio o addirittura direttamente vincenti.
Al minuto 4:22 l'esempio più lampante del perfetto piano strategico
della Pennetta: carica la palla di top attanagliando la Vinci sul lato del
rovescio, attendendo con calma la palla giusta per attaccare. Roberta non ha
modo di uscire da quella trappola, e Flavia (non appena possibile) conclude
piazzando l'accelerazione vincente con il rovescio lungolinea, suo colpo
migliore. Altri esempi piuttosto simili ai minuti 7:48 e 9:25.
"La pazienza del ragno" era il titolo di un romanzo di
Andrea Camilleri sul commissario Montalbano, magistralmente interpretato in RAI
dall'infallibile Luca Zingaretti. Quella stessa pazienza che la Pennetta ha
palesato fin dalle prime battute, forse ancora leggermente intaccata dalla
tensione nei primissimi game, ma che le ha permesso di costruirsi - senza
strappi al suo tennis, modificandolo ma senza snaturarlo - la vittoria dello
Slam, sacrificando accelerazioni frettolose in luogo di una costruzione più lenta,
ma estremamente precisa, del punto. L'ansia aveva invece mandato completamente
in tilt la Williams: l'americana non è forse del tutto convinta e sicura dei
propri mezzi, a giudicare dalle frequenti situazioni in cui si caccia da sola
nei guai. O forse è talmente superba da pretendere di chiudere gli scambi e gli
incontri in un batter d'occhio, senza necessità di sviluppare il benché minimo
accorgimento tattico: un grosso difetto che le è costato il torneo newyorkese e
di conseguenza il Grande Slam.
Una delle leggi più
giuste e sacrosante del tennis recita che quando un giocatore esce dai suoi
schemi abituali è il chiaro sintomo che l'avversario stia perfettamente
interpretando la partita. Roberta Vinci aveva colpito, prima del match contro
la Williams, il 97% di palle in back con il rovescio. Statistica confermata
dalla semifinale contro la numero uno del mondo, sporcata invece dal derby con
la Pennetta: la brindisina ha costretto Roberta a cambiare spesso e volentieri
impugnatura e giocare il rovescio in top, anche quando non chiamata a giocare
il passante (come avviene con altre giocatrici). Soprattutto dopo qualche game,
la Vinci ha capito che non poteva colpire sempre con il back le palle
estremamente arrotate e profonde della Pennetta, decidendo per un cambio di
strategia giusto nelle intenzioni, ma che l'ha fatta inevitabilmente cadere
nella trappola di un tennis non suo. Costretta anche a spostarsi sul dritto in
situazioni scomode, tentando soluzioni forzate per coprire il colpo più
vulnerabile, Roberta è inesorabilmente finita fuori giri mancando il dritto
anomalo in diverse occasioni. Ma a quel punto alternative non ce ne erano.
Al termine dello scambio che inizia al minuto 1:23, la Vinci tenta esageratamente
di spostarsi sul dritto ma la palla le era arrivata troppo a sinistra.
Ovviamente non ha tempo per piazzarsi in maniera ottimale e il colpo fallisce.
È finita quindi per
prevalere Flavia, come da noi in parte previsto, capace di esaltare alla
distanza la propria superiorità generale in fatto di velocità e pesantezza di
palla, oltre che di condizione atletica. E come da noi previsto è stata Roberta
ad avvertire una minor sensazione di fame: la vittoria contro Serena ha
provocato alla Vinci una certa sazietà. Appare complicato pensare allo scenario
inverso: facile invece credere che la Pennetta avrebbe reagito in maniera
differente alla propria eventuale sconfitta, avendo dalla sua i favori del
pronostico. E la vittoria di Roberta sulla Williams ha fatto il resto: dopo un
primo set tirato la tarantina è parsa decisamente appagata, e quando ha ceduto
il settimo combattuto game del secondo parziale, che ha portato Flavia avanti
per 5-2 tamponando un abbozzo di rimonta di Roberta, ha alzato bandiera bianca.
L'ultimo game è stato una pura formalità, e la smorzata giocata sullo 0-30
altro non era che un chiarissimo segnale di resa consegnato all'ambasciata di
Brindisi. Il magnifico abbraccio finale ha fatto il resto.
Repressione violenta
Non era ovviamente
soltanto il weekend delle italiane. Nel maschile si riscriveva la storia per
altri motivi: Pennetta e Vinci lo hanno fatto in materia di successi singoli,
Djokovic e Federer puntavano invece a stabilire nuovi primati nelle gerarchie
della storia del tennis mondiale.
Che Federer sia e sia
stato probabilmente il più grande e completo giocatore di tutti i tempi è
dibattuto, e in ogni caso credibile affermarlo. Ma se si estende il concetto di
talento e completezza fino ad abbracciare la sua intelligenza tattica, ci
stiamo allargando troppo. Un così marcato concentrato di perfezione dovrà pur
avere qualche piccolo buco sufficiente per giustificare i (pochi) passaggi a
vuoto nella carriera.
La vittoria piuttosto
netta di Federer a Cincinnati e lo stato di forma senza precedenti mostrato
dallo svizzero nel corso dello US Open potevano trarre in inganno sulle reali
percentuali di possibilità di vittoria anche dello Slam americano. Avevamo
infatti anticipato che i precedenti, in particolar modo quelli recenti sui
campi in cemento, fossero statistiche semplicemente fini a se stesse.
Nel pre-partita avevamo postato il precedente più recente, quello di
Cincinnati. Stavolta tocca al penultimo precedente sul duro, quest'anno a
Dubai.
Roger Federer non ci ha
dato molto retta. Non che le nostre previsioni rappresentino per forza la
Bibbia da cui attingere per sviluppare un proprio percorso tattico, ma lo
svizzero è venuto meno in due punti cardine fondamentali che avevamo indicato
nel nostro pre-partita e attraverso i quali sarebbe forse dovuto passare: le
scelte al servizio e la volontà di manovrare sulla diagonale destra.
Soprattutto quest'ultima è stata la vera carenza del gioco di Federer, visto
che con il servizio poteva anche impostare la partita con successo nel modo in
cui ha poi fatto, con implicazioni diverse. Ma andiamo per ordine.
Roger ha servito con
velocità medie assolutamente costanti per tutto l'arco del torneo, che sono poi
le stesse da sempre. Lo svizzero ha tenuto il cruise control attivo anche contro un ribattitore come Djokovic:
senza cercare velocità di punta più elevate, mantenendo una discreta
percentuale di prime in campo. Con una velocità media della prima di servizio
issatasi a 185 km/h è riuscito a piazzare il 64% di prime palle nel quadrato
avversario.
Al di là del fatto che
nel primo set le prime di servizio di Roger in campo erano state decisamente
poche, spicca ovviamente la differenza di resa dei rispettivi servizi. Nonostante
la velocità media della prima palla sia la stessa per entrambi i giocatori, e
nonostante Djokovic sia universalmente riconosciuto il miglior ribattitore del
circuito, Federer ottiene in media più punti dalla propria prima palla di
servizio: 71% contro il 66% di Nole. La differenza non sarebbe così notevole se
non conoscessimo i differenti livelli di abilità in risposta dei due giocatori.
Tutto questo spiega come Federer da sempre abbia nella varietà di tagli, nella
precisione e nell'illeggibilità la vera arma vincente del proprio servizio. Il
dato si inverte nella resa della seconda: prevedibile, perché quando si scambia
di più è normale che sia Djokovic a prevalere.
I numeri al servizio.
Era interessante capire
in che posizione psicologica si sarebbe messo il vecchio campione. Accettando
il fatto che Nole sia un fenomenale ribattitore, rimanevano due scelte:
attaccarlo immediatamente a rete per togliergli l'iniziativa e forzare qualche
errore in ribattuta, oppure aspettare la risposta e provare ad accelerare
successivamente, con i fondamentali di rimbalzo. Federer ha optato
prevalentemente per la seconda via, forse sbagliando.
Sbagliando perché nel
lungo periodo (e qui tornano le considerazioni pokeristiche che avevamo fatto qualche tempo fa) ha dato troppi punti di riferimento alla risposta di
Djokovic, che senza la sagoma a rete ha avuto un po' più di spazio per
respirare. Ovvio che in questo modo abbia anche evitato qualche facile passante
del serbo, ma allo stesso modo in cui ha correttamente utilizzato la
"SABR" (eccetto un caso in cui ha esagerato proponendola in due punti
consecutivi, il secondo dei quali aggiudicato facilmente dal serbo) avrebbe
dovuto aumentare la percentuale di serve and volley. Ne ha falliti un paio,
nelle prime battute, finendo per commettere lo stesso errore che gli abbiamo
visto spesso fare contro Nadal: scoraggiarsi per qualche errore in fase di attacco,
rintanandosi nelle sabbie mobili della linea di fondocampo e diminuendo la
pressione e le verticalizzazioni. Federer ha elevato il livello di gioco in
questo periodo della carriera proprio grazie ad una migliorata propensione alla
ricerca del punto verso la rete: contro Djokovic si è invece rannicchiato
leggermente verso la posizione degli anni d'oro, che a 34 primavere non può
però più produrre gli stessi risultati.
L'altro errore in cui
Federer è caduto è stato senza dubbio una latitanza di lucidità nella
costruzione dello scambio da dietro. Prendendo appunti (a proposito, a
quell'ora della notte non è un'operazione semplicissima) ho forse esagerato
iperbolicamente, scrivendo ad inizio secondo set "non si è ancora visto un
back lungolinea di Federer". Lo stesso Panatta su Eurosport si era
espresso in modo condivisibile quando aveva contestato le scelte strategiche
dello svizzero, reo di «troppi rovesci in
diagonale». Quello che temevamo per lo svizzero era proprio l'eventualità
che lo scambio si svolgesse sulla direttrice del rovescio. Federer ha
decisamente esagerato nella ricerca, con il proprio dritto, del rovescio di
Nole, che non aspettava altro: iniziare a martellare su quella diagonale era
per il serbo garanzia di successo. Federer ha fornito un contributo essenziale
per cadere (soprattutto nelle prime fasi del match) in questa trappola
infernale. Avrebbe dovuto leggere meglio gli scambi, accelerando verso il
rovescio di Djokovic solo nei momenti buoni e nei quali si sentiva realmente
sicuro di mettere in difficoltà il numero uno del mondo, e cambiare molto più
spesso verso il dritto del serbo anche con il back. L'abilità di Nole di
spingere con il proprio dritto una palla in back non è la stessa di Nadal, e lo
svizzero avrebbe comunque per lo meno tentato di portarsi in una situazione di
gioco più favorevole. Non ci spingiamo a dire che avrebbe rovesciato la
partita, ma avrebbe in ogni caso avuto maggiori chance di successo.
Soprattutto lo scambio al minuto 4:20 è emblematico per quello che
riguarda gli errori nelle scelte di Federer: il quarto dritto (quinto colpo se
consideriamo anche il servizio) perché è stato giocato lungolinea? Djokovic ne
approfitta come un falco prendendosi immediatamente il dominio del punto, prima
martellando sulla diagonale sinistra e poi accelerando con il rovescio
lungolinea. Analogo discorso per il secondo dritto (terzo colpo) nello scambio
al minuto 0:27 e per il primo dritto (secondo colpo) nello scambio al minuto
1:59.
Ho sentito in giro imputare
a Federer una bassa percentuale di conversione delle palle break, fino a
spingere perfino qualcuno a definirlo un "fifone". Andiamoci con i
piedi di piombo: le statistiche innanzitutto ci riferiscono che lo svizzero ha
piazzato il break in 4 occasioni a fronte delle 23 totali. Djokovic è ovviamente
risultato più efficace, convertendo 6 palle break sulle 13 totali a
disposizione. La prima considerazione da fare è che il dato emerso dalla
prestazione di Federer sembrerebbe all'apparenza scandaloso, ma non è
esattamente così. Le palle break vanno infatti rapportate alle rispettive
percentuali di punti ottenuti in risposta: solo così è possibile stabilire se
un giocatore è risultato più o meno freddo o efficace al momento della zampata
sul servizio avversario. Che si convertano 4 palle break su 23 potrebbe infatti
essere un'ottima statistica se si sta fronteggiando Isner o Karlovic,
decisamente pessima invece contro un Fognini.
Nella finale di
Flushing Meadows, Federer ha ottenuto il 39% di punti in risposta e solo il 17%
quando ha avuto la chance per il break. Statistica inversa per Nole, che ha
alzato la percentuale di capitalizzazione della chance per il break al 46% a fronte
di una realizzazione totale di punti in risposta del 38%. Perfino inferiore a
quella fatta registrare da Federer: i detrattori dello svizzero hanno quindi in
questo caso ragione, ma va detto che per natura il giocatore più forte in campo
generalmente fa spesso valere il margine di superiorità proprio nei punti più
importanti, generando ansia nell'avversario che si sente in dovere di spingere
oltre il limite, sovra-ritmo. Potremmo
parlare del banale dritto da metà campo fallito sul 5-4 del secondo set, ma
forse la realtà, difficile da digerire per gli ultras del campionissimo, è che
la coperta di Federer fosse troppo corta. E al momento di alzare ulteriormente
il livello di gioco il suo motore non ne aveva più.
Non è infatti chiaro
cosa sarebbe successo se lo svizzero si fosse aggiudicato anche il terzo
parziale, ma la sensazione è che Djokovic sarebbe comunque rimasto sul pezzo.
Cosa che non è in realtà avvenuta a parti invertite, con Federer che all'alba
del quarto set ha registrato un brusco calo mentale ed anche atletico (forse di
conseguenza). Alla fine ha prevalso, come era prevedibile anche dai più
superficiali appassionati, la maggior "consistenza" di Djokovic:
soprattutto dal punto di vista fisico è in questo momento superiore al vecchio
svizzero, così come al resto della concorrenza. Un'altra volta è confermata la
teoria che il tennis al meglio dei 5 set non è esattamente coincidente con
l'altro, più breve: i tempi si dilatano e chi necessita di massima brillantezza
sarà prima o poi colpito da passaggi a vuoto che potrebbe pagare caro. Sempre
nei miei faticosi appunti avevo segnato un calo della velocità dei piedi di Federer
in un momento coincidente al 4-3 o 4 pari del terzo set: non è un caso che da
lì in poi il serbo abbia preso di prepotenza in mano le sorti dell'incontro,
uccidendolo. Potremmo fare tutti i discorsi possibili, ipotetici, ma la verità
è fondamentalmente una sola: Djokovic ne aveva di più.
Articolo a cura di Federico Principi
Nessun commento:
Posta un commento