mercoledì 16 settembre 2015

Weekend da campioni

Lo Slam più rumoroso regala emozioni a non finire. E un'infinità di spunti tecnici dalle finali maschile e femminile.


di Federico Principi








Non ritengo di essere un grande amante della nostalgia, non fosse altro per quella sensazione angosciante che ti attorciglia lo stomaco e ti annebbia le funzioni intellettive. A volte è però purtroppo troppo umano e inevitabile abbandonarsi alla malinconia che ci si chiede solamente quando passerà, senza provare a scacciare quell'alone di tristezza che ricopre totalmente anima e corpo: accettarlo, perché c'è e non si può fare nulla.

"Leaving New York never easy" era il refrain di un grande successo dei R.E.M. del 2004. Sarà stato difficile anche per le nostre azzurre allontanarsi dalla Grande Mela a fine torneo, lasciando una marea di ricordi che potranno con ogni probabilità essere gli ultimi (per Flavia lo saranno) delle loro carriere a Flushing Meadows. «Il momento più triste è quando hai la coppa in mano, perché sai che non ricapiterà»: la positività fatta persona di Paolo Rossi, riferendosi ovviamente al Mundial '82. Flavia Pennetta si è invece detta felice di aver deciso di smettere a fine stagione, consapevole che con il successo nello Slam la sua carriera ha vissuto il momento più bello e più elevato, e contemporaneamente decisivo per fugare ogni dubbio di abbandono. «Ogni anno dopo lo US Open mi chiedo se valga la pena continuare», aveva detto, preannunciando quasi quella che sarebbe stata la sua indiscutibile scelta.
                             
A fine torneo Flavia ha indicato la mancanza di motivazione a competere come fattore decisivo per la decisione finale sulla sua carriera. Non sembrava, a giudicare da quello che si è visto in questi giorni di lunghe dirette. Voleva forse utilizzare le ultime energie mentali rimaste, spremendole a fondo per produrre un ultimo grande exploit che l'ha innalzata nei vertici della storia del tennis italiano. Il destino le ha tuttavia riservato un passaggio imprescindibile attraverso il quale transitare verso la storia: il derby contro un'amica.

L'annuncio al minuto 1:28.


Viva l'Italia
Era facile prevedere che la Pennetta mostrasse una lucidità e una saggezza tattica di altro livello rispetto a Serena. L'americana non è molto avvezza né attrezzata per uscire dallo schema del bombardamento, incapace di proporre un piano strategico differente da quello: e comunque estremamente efficace - nonostante i movimenti apparentemente grezzi (che ha tuttavia migliorato negli anni) - per via della sua impareggiabile potenza muscolare.

Flavia ha costruito un copione differente, forte della ultra-ventennale conoscenza dell'amica diventata rivale per poche ore. La Pennetta ha lavorato molto negli ultimi mesi con il suo nuovo coach, Salvador Navarro, compiendo notevoli progressi dalla parte del dritto: soprattutto aumentando lo spin della palla, senza perdere (tutt'altro) fluidità nel movimento. Spin che di Navarro era la prerogativa principale.

Per sfuggire alla velenosità del back di rovescio della tarantina, Flavia ha caricato perfino eccessivamente di top entrambi i fondamentali, fino ad alzare una manciata di veri e propri campanili. La strategia, addirittura anti-estetica in alcuni casi, è perfettamente riuscita nel suo intento: lo spin ha tolto (come biomeccanicamente avviene nella normalità dei casi) sensibilità al back della Vinci, che di conseguenza non poteva essere così basso e incisivo, né poteva permetterle di guadagnare campo. Le consuete pallate piatte che la maggioranza delle giocatrici propongono nel tennis contemporaneo non danno fastidio a Roberta se non superano una certa velocità, consentendo alla tarantina di appoggiarsi e tenere più facilmente basso il proprio rovescio tagliato, che molti grattacapi crea alle picchiatrici poco razionali. La Pennetta non appartiene per sua fortuna a quest'ultima categoria, e ha giustamente impostato la finale nel modo che abbiamo spiegato qualche riga sopra: un back un po' più alto e meno efficace di Roberta, e in qualche caso anche corto, era facile preda per Flavia che poteva successivamente accelerare, generando spesso e volentieri colpi di approccio o addirittura direttamente vincenti.

Al minuto 4:22 l'esempio più lampante del perfetto piano strategico della Pennetta: carica la palla di top attanagliando la Vinci sul lato del rovescio, attendendo con calma la palla giusta per attaccare. Roberta non ha modo di uscire da quella trappola, e Flavia (non appena possibile) conclude piazzando l'accelerazione vincente con il rovescio lungolinea, suo colpo migliore. Altri esempi piuttosto simili ai minuti 7:48 e 9:25.

"La pazienza del ragno" era il titolo di un romanzo di Andrea Camilleri sul commissario Montalbano, magistralmente interpretato in RAI dall'infallibile Luca Zingaretti. Quella stessa pazienza che la Pennetta ha palesato fin dalle prime battute, forse ancora leggermente intaccata dalla tensione nei primissimi game, ma che le ha permesso di costruirsi - senza strappi al suo tennis, modificandolo ma senza snaturarlo - la vittoria dello Slam, sacrificando accelerazioni frettolose in luogo di una costruzione più lenta, ma estremamente precisa, del punto. L'ansia aveva invece mandato completamente in tilt la Williams: l'americana non è forse del tutto convinta e sicura dei propri mezzi, a giudicare dalle frequenti situazioni in cui si caccia da sola nei guai. O forse è talmente superba da pretendere di chiudere gli scambi e gli incontri in un batter d'occhio, senza necessità di sviluppare il benché minimo accorgimento tattico: un grosso difetto che le è costato il torneo newyorkese e di conseguenza il Grande Slam.

Una delle leggi più giuste e sacrosante del tennis recita che quando un giocatore esce dai suoi schemi abituali è il chiaro sintomo che l'avversario stia perfettamente interpretando la partita. Roberta Vinci aveva colpito, prima del match contro la Williams, il 97% di palle in back con il rovescio. Statistica confermata dalla semifinale contro la numero uno del mondo, sporcata invece dal derby con la Pennetta: la brindisina ha costretto Roberta a cambiare spesso e volentieri impugnatura e giocare il rovescio in top, anche quando non chiamata a giocare il passante (come avviene con altre giocatrici). Soprattutto dopo qualche game, la Vinci ha capito che non poteva colpire sempre con il back le palle estremamente arrotate e profonde della Pennetta, decidendo per un cambio di strategia giusto nelle intenzioni, ma che l'ha fatta inevitabilmente cadere nella trappola di un tennis non suo. Costretta anche a spostarsi sul dritto in situazioni scomode, tentando soluzioni forzate per coprire il colpo più vulnerabile, Roberta è inesorabilmente finita fuori giri mancando il dritto anomalo in diverse occasioni. Ma a quel punto alternative non ce ne erano.

Al termine dello scambio che inizia al minuto 1:23, la Vinci tenta esageratamente di spostarsi sul dritto ma la palla le era arrivata troppo a sinistra. Ovviamente non ha tempo per piazzarsi in maniera ottimale e il colpo fallisce.

È finita quindi per prevalere Flavia, come da noi in parte previsto, capace di esaltare alla distanza la propria superiorità generale in fatto di velocità e pesantezza di palla, oltre che di condizione atletica. E come da noi previsto è stata Roberta ad avvertire una minor sensazione di fame: la vittoria contro Serena ha provocato alla Vinci una certa sazietà. Appare complicato pensare allo scenario inverso: facile invece credere che la Pennetta avrebbe reagito in maniera differente alla propria eventuale sconfitta, avendo dalla sua i favori del pronostico. E la vittoria di Roberta sulla Williams ha fatto il resto: dopo un primo set tirato la tarantina è parsa decisamente appagata, e quando ha ceduto il settimo combattuto game del secondo parziale, che ha portato Flavia avanti per 5-2 tamponando un abbozzo di rimonta di Roberta, ha alzato bandiera bianca. L'ultimo game è stato una pura formalità, e la smorzata giocata sullo 0-30 altro non era che un chiarissimo segnale di resa consegnato all'ambasciata di Brindisi. Il magnifico abbraccio finale ha fatto il resto.



Repressione violenta
Non era ovviamente soltanto il weekend delle italiane. Nel maschile si riscriveva la storia per altri motivi: Pennetta e Vinci lo hanno fatto in materia di successi singoli, Djokovic e Federer puntavano invece a stabilire nuovi primati nelle gerarchie della storia del tennis mondiale.

Che Federer sia e sia stato probabilmente il più grande e completo giocatore di tutti i tempi è dibattuto, e in ogni caso credibile affermarlo. Ma se si estende il concetto di talento e completezza fino ad abbracciare la sua intelligenza tattica, ci stiamo allargando troppo. Un così marcato concentrato di perfezione dovrà pur avere qualche piccolo buco sufficiente per giustificare i (pochi) passaggi a vuoto nella carriera.

La vittoria piuttosto netta di Federer a Cincinnati e lo stato di forma senza precedenti mostrato dallo svizzero nel corso dello US Open potevano trarre in inganno sulle reali percentuali di possibilità di vittoria anche dello Slam americano. Avevamo infatti anticipato che i precedenti, in particolar modo quelli recenti sui campi in cemento, fossero statistiche semplicemente fini a se stesse.

Nel pre-partita avevamo postato il precedente più recente, quello di Cincinnati. Stavolta tocca al penultimo precedente sul duro, quest'anno a Dubai.

Roger Federer non ci ha dato molto retta. Non che le nostre previsioni rappresentino per forza la Bibbia da cui attingere per sviluppare un proprio percorso tattico, ma lo svizzero è venuto meno in due punti cardine fondamentali che avevamo indicato nel nostro pre-partita e attraverso i quali sarebbe forse dovuto passare: le scelte al servizio e la volontà di manovrare sulla diagonale destra. Soprattutto quest'ultima è stata la vera carenza del gioco di Federer, visto che con il servizio poteva anche impostare la partita con successo nel modo in cui ha poi fatto, con implicazioni diverse. Ma andiamo per ordine.

Roger ha servito con velocità medie assolutamente costanti per tutto l'arco del torneo, che sono poi le stesse da sempre. Lo svizzero ha tenuto il cruise control attivo anche contro un ribattitore come Djokovic: senza cercare velocità di punta più elevate, mantenendo una discreta percentuale di prime in campo. Con una velocità media della prima di servizio issatasi a 185 km/h è riuscito a piazzare il 64% di prime palle nel quadrato avversario.

Al di là del fatto che nel primo set le prime di servizio di Roger in campo erano state decisamente poche, spicca ovviamente la differenza di resa dei rispettivi servizi. Nonostante la velocità media della prima palla sia la stessa per entrambi i giocatori, e nonostante Djokovic sia universalmente riconosciuto il miglior ribattitore del circuito, Federer ottiene in media più punti dalla propria prima palla di servizio: 71% contro il 66% di Nole. La differenza non sarebbe così notevole se non conoscessimo i differenti livelli di abilità in risposta dei due giocatori. Tutto questo spiega come Federer da sempre abbia nella varietà di tagli, nella precisione e nell'illeggibilità la vera arma vincente del proprio servizio. Il dato si inverte nella resa della seconda: prevedibile, perché quando si scambia di più è normale che sia Djokovic a prevalere.

I numeri al servizio.

Era interessante capire in che posizione psicologica si sarebbe messo il vecchio campione. Accettando il fatto che Nole sia un fenomenale ribattitore, rimanevano due scelte: attaccarlo immediatamente a rete per togliergli l'iniziativa e forzare qualche errore in ribattuta, oppure aspettare la risposta e provare ad accelerare successivamente, con i fondamentali di rimbalzo. Federer ha optato prevalentemente per la seconda via, forse sbagliando.

Sbagliando perché nel lungo periodo (e qui tornano le considerazioni pokeristiche che avevamo fatto qualche tempo fa) ha dato troppi punti di riferimento alla risposta di Djokovic, che senza la sagoma a rete ha avuto un po' più di spazio per respirare. Ovvio che in questo modo abbia anche evitato qualche facile passante del serbo, ma allo stesso modo in cui ha correttamente utilizzato la "SABR" (eccetto un caso in cui ha esagerato proponendola in due punti consecutivi, il secondo dei quali aggiudicato facilmente dal serbo) avrebbe dovuto aumentare la percentuale di serve and volley. Ne ha falliti un paio, nelle prime battute, finendo per commettere lo stesso errore che gli abbiamo visto spesso fare contro Nadal: scoraggiarsi per qualche errore in fase di attacco, rintanandosi nelle sabbie mobili della linea di fondocampo e diminuendo la pressione e le verticalizzazioni. Federer ha elevato il livello di gioco in questo periodo della carriera proprio grazie ad una migliorata propensione alla ricerca del punto verso la rete: contro Djokovic si è invece rannicchiato leggermente verso la posizione degli anni d'oro, che a 34 primavere non può però più produrre gli stessi risultati.

L'altro errore in cui Federer è caduto è stato senza dubbio una latitanza di lucidità nella costruzione dello scambio da dietro. Prendendo appunti (a proposito, a quell'ora della notte non è un'operazione semplicissima) ho forse esagerato iperbolicamente, scrivendo ad inizio secondo set "non si è ancora visto un back lungolinea di Federer". Lo stesso Panatta su Eurosport si era espresso in modo condivisibile quando aveva contestato le scelte strategiche dello svizzero, reo di «troppi rovesci in diagonale». Quello che temevamo per lo svizzero era proprio l'eventualità che lo scambio si svolgesse sulla direttrice del rovescio. Federer ha decisamente esagerato nella ricerca, con il proprio dritto, del rovescio di Nole, che non aspettava altro: iniziare a martellare su quella diagonale era per il serbo garanzia di successo. Federer ha fornito un contributo essenziale per cadere (soprattutto nelle prime fasi del match) in questa trappola infernale. Avrebbe dovuto leggere meglio gli scambi, accelerando verso il rovescio di Djokovic solo nei momenti buoni e nei quali si sentiva realmente sicuro di mettere in difficoltà il numero uno del mondo, e cambiare molto più spesso verso il dritto del serbo anche con il back. L'abilità di Nole di spingere con il proprio dritto una palla in back non è la stessa di Nadal, e lo svizzero avrebbe comunque per lo meno tentato di portarsi in una situazione di gioco più favorevole. Non ci spingiamo a dire che avrebbe rovesciato la partita, ma avrebbe in ogni caso avuto maggiori chance di successo.

Soprattutto lo scambio al minuto 4:20 è emblematico per quello che riguarda gli errori nelle scelte di Federer: il quarto dritto (quinto colpo se consideriamo anche il servizio) perché è stato giocato lungolinea? Djokovic ne approfitta come un falco prendendosi immediatamente il dominio del punto, prima martellando sulla diagonale sinistra e poi accelerando con il rovescio lungolinea. Analogo discorso per il secondo dritto (terzo colpo) nello scambio al minuto 0:27 e per il primo dritto (secondo colpo) nello scambio al minuto 1:59.

Ho sentito in giro imputare a Federer una bassa percentuale di conversione delle palle break, fino a spingere perfino qualcuno a definirlo un "fifone". Andiamoci con i piedi di piombo: le statistiche innanzitutto ci riferiscono che lo svizzero ha piazzato il break in 4 occasioni a fronte delle 23 totali. Djokovic è ovviamente risultato più efficace, convertendo 6 palle break sulle 13 totali a disposizione. La prima considerazione da fare è che il dato emerso dalla prestazione di Federer sembrerebbe all'apparenza scandaloso, ma non è esattamente così. Le palle break vanno infatti rapportate alle rispettive percentuali di punti ottenuti in risposta: solo così è possibile stabilire se un giocatore è risultato più o meno freddo o efficace al momento della zampata sul servizio avversario. Che si convertano 4 palle break su 23 potrebbe infatti essere un'ottima statistica se si sta fronteggiando Isner o Karlovic, decisamente pessima invece contro un Fognini.

Nella finale di Flushing Meadows, Federer ha ottenuto il 39% di punti in risposta e solo il 17% quando ha avuto la chance per il break. Statistica inversa per Nole, che ha alzato la percentuale di capitalizzazione della chance per il break al 46% a fronte di una realizzazione totale di punti in risposta del 38%. Perfino inferiore a quella fatta registrare da Federer: i detrattori dello svizzero hanno quindi in questo caso ragione, ma va detto che per natura il giocatore più forte in campo generalmente fa spesso valere il margine di superiorità proprio nei punti più importanti, generando ansia nell'avversario che si sente in dovere di spingere oltre il limite, sovra-ritmo. Potremmo parlare del banale dritto da metà campo fallito sul 5-4 del secondo set, ma forse la realtà, difficile da digerire per gli ultras del campionissimo, è che la coperta di Federer fosse troppo corta. E al momento di alzare ulteriormente il livello di gioco il suo motore non ne aveva più.

Non è infatti chiaro cosa sarebbe successo se lo svizzero si fosse aggiudicato anche il terzo parziale, ma la sensazione è che Djokovic sarebbe comunque rimasto sul pezzo. Cosa che non è in realtà avvenuta a parti invertite, con Federer che all'alba del quarto set ha registrato un brusco calo mentale ed anche atletico (forse di conseguenza). Alla fine ha prevalso, come era prevedibile anche dai più superficiali appassionati, la maggior "consistenza" di Djokovic: soprattutto dal punto di vista fisico è in questo momento superiore al vecchio svizzero, così come al resto della concorrenza. Un'altra volta è confermata la teoria che il tennis al meglio dei 5 set non è esattamente coincidente con l'altro, più breve: i tempi si dilatano e chi necessita di massima brillantezza sarà prima o poi colpito da passaggi a vuoto che potrebbe pagare caro. Sempre nei miei faticosi appunti avevo segnato un calo della velocità dei piedi di Federer in un momento coincidente al 4-3 o 4 pari del terzo set: non è un caso che da lì in poi il serbo abbia preso di prepotenza in mano le sorti dell'incontro, uccidendolo. Potremmo fare tutti i discorsi possibili, ipotetici, ma la verità è fondamentalmente una sola: Djokovic ne aveva di più.


Articolo a cura di Federico Principi

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