sabato 28 febbraio 2015

Klopp 2.0 o Roger Schmidt? Tutti i segreti del Bayer Leverkusen

Integralismo, estremismo, "gegenpressing", dolore, sacrificio, "sette secondi o meno", coerenza, coraggio, arroganza, rivoluzione, dinamismo, velocità, "Just shot!". Tutto l'universo di Roger Schmidt.

di AER






L'impianto di gioco del Bayer Leverkusen ci ha piacevolmente affascinato, forse il migliore  contestualizzando il sistema alle qualità e al valore non di primissima fascia dei singoli interpreti. Come nasce quest'idea di calcio? Dove affonda le proprie radici questo apparato tattico all'apparenza così avanguardista?

Riflettiamo partendo proprio dall'analisi della partita contro l'Atletico Madrid.
Il 4-2-3-1 rossonero è risultato esiziale non appena i trequartisti sono riusciti a muoversi tra le linee, ordendo trame fitte e spesso in verticale. La portata principale però è stata il contropiede, orchestrato a velocità supersonica; il merito maggiore di Schmidt, in stile simil-barcelonista, è stato di ridurre al minimo il tempo della transizione offensiva, in particolare in seguito a calci piazzati, lasciando sempre un uomo in appoggio alla punta, libero da compiti di marcatura. Paradossalmente il più tedesco dei padroni di casa (nell’ accezione post Euro 2008, non quella “alla Ballack” che, ahimè, adoravo) è un coreano, d'intelligenza tattica sopra la media, aldilà dei notevoli mezzi tecnici. L’unico teutonico dei tre fantasisti, Bellarabi, che coi sancta sanctorum dell’austerità Merkel e Schoible condivide solo la lingua, è stato la scheggia impazzita della gara; fa piacere pensare che nel giorno del quarantaquattresimo compleanno di Mustapha Hadji, un altro marocchino sia stato l’unico in grado di sovvertire l’ordine degli eventi. Menzione speciale merita anche l’altro tenore, Hakan Canalhoglu, dal piede a dir poco rovente. Aveva il duplice compito di scalare a centrocampo per facilitare la costruzione ed appoggiare Drmic e Kiessling; ha ottemperato splendidamente alle proprie mansioni.



Il puparo che muove i fili è indiscutibilmente Roger Schmidt. L'allenatore tedesco, dopo un'anonima carriera tra i campi delle serie minori, sembra distaccarsi completamente dal calcio laureandosi in ingegneria meccanica ma, inesorabilmente, non resiste al richiamo del proprio ecosistema; per fortuna aggiungerei, vista la qualità della proposta.
Schmidt rientra perfettamente nel concetto tutto tedesco di Konzeptfußball che esprime la volontà e il bisogno di mettere il "sistema" al centro del calcio e non i giocatori. Potremmo parlare kantianamente di Rivoluzione copernicana, una visione tattico-centrica del pallone.
Molti per questo lo hanno definito un Klopp 2.0 ed in effeti le contiguità col mago di Stoccarda sono molte. E' però un accostamento particolare e sensibile a varie interpretazioni: più che un aggiornamento, il sistema del Bayer, rispetto a quello del Borussia, rappresenta un'evoluzione "di rotazione". Mi spiego meglio. Il sostrato dottrinale resta rigorosamente intatto, si dispiega però in maniera differente: non c'è un perfezionamento o un miglioramento o un cambiamento in generale, c'è solo la scelta di compiere scelte diverse, radicali come quelle di Klopp ma pur sempre dissimili.


Si tratta di organizzazioni dispendiose, che pretendono il 100% da ogni interprete, con un grado di applicazione fisica e mentale intensissimo. Joghi, ad esempio, non smette mai di parlare di duro lavoro, di brutalità e del suo desiderio di complicare la vita agli avversari. La bellezza dello stile del Borussia si conquista attraverso il "dolore", della controparte, ma anche dei propri uomini. I giocatori sopporteranno tale disagio solo se coadiuvato da fiducia verso l'allenatore e buoni risultati, che arriveranno allorquando i giocatori crederanno ciecamente nel progetto, offrendo sino all'ultima goccia di sudore per esso. Ecco che si crea un vortice senza fine da cui è difficile uscire, come dimostrano la serie negativa della prima metà di stagione e la relativa risalita fino ai -7 punti dalla zona Europa League. Aggiungo anche che, secondo la mia modesta e personale opinione, l'evoluzione di un progetto tattico non può avvenire nello stesso ambiente, con la stessa squadra e con gli stessi giocatori. Guardiola, non a caso, per sperimentare le sue nuove idee, improntate comunque sui soliti principi, è approdato al Bayern.
Klopp aveva percepito gli evidenti limiti del 4-2-3-1, in particolare l'inferiorità numerica in mediana. Alla vigilia della nuova stagione aveva annunciato uno stile ancora più aggressivo con i due giocatori offensivi centrali che avrebbero attaccato costantemente la palla per aiutare il centrocampo altrimenti in affanno. Il pressing considerato alla stregua di un vero e proprio giocatore, concetto ricorrente in questo articolo. Gli acquisti di Immobile e Ramos in luogo di Lewandowski sono indicativi di ciò: dinamismo e movimento senza palla sono le prerogative degli attaccanti che avrebbero, nelle intenzioni di Klopp, interpretato alla grande la sua nuova idea.

Per Schmidt, come per Klopp, il proprio credo non è contrattabile. A chi, ad inizio stagione, additava come eccessivamente rischiosa la sua strategia (cioè a chi si assicurava commenti profetici in caso di risultati negativi) rispondeva: <<Giocando con il nostro sistema, è facile vedere che pressare velocemente e tenere la difesa alta possono essere degli espedienti utili per tenere l'avversario fuori dalla zona di pericolo>>. (Notare “è facile vedere").
Schmidt con il suo pressing così radicale ha creato una nuova filosofia di calcio, imperniata su una sempre crescente velocità nello svolgimento del gioco.
Klopp diceva: <<Il pressing è il miglior playmaker possibile>>. Schmidt esalta il concetto alzando la linea o meglio l'area di pressing fino ai difensori avversari. Come un vero e proprio regista, il pressing lavora a tutto campo.

Le posizioni dei palloni recuperati sono un buon indicatore per analizzare il pressing.
La prima differenza con il Borussia la si rintraccia nei meccanismi di movimento della retroguardia. Se le prestazioni individuali dei difensori si elevano ed essi riescono a giocare forti d'anticipo e a tenere molto alta la linea difensiva (fino alla linea di centrocampo) accorciando la distanza tra di loro e la linea di pressing, si ripropone il movimento di un pistone in un cilindro, che schiaccia inesorabilmente la squadra avversaria. Un sistema, quello cilindro-pistone, che Schmidt, da buon ingegnere meccanico, conoscerà sicuramente alla perfezione. Il risultato è una squadra cortissima che pressa in modo organico con le dovute e necessarie marcature preventive.


Mappa di calore della linea difensiva del Bayer nella partita contro l'Atletico. Si può notare come la difesa sia altissima e come abbia occupato omogeneamente il campo in orizzontale.
Questa, invece, è la mappa di calore della difesa dell'Atletico, sicuramente molto più bassa. Si noti la posizione molto alta in fase offensiva tenuta da Juanfran, sulla fascia destra.

L'attacco è strutturato per creare tiri più rapidamente possibile. Il Bayer Leverkusen è la squadra europea che vede di più la porta entro i sette secondi dal recupero del pallone. Un attacco organizzato in azioni sviluppate in sette secondi o meno (seven seconds or lessSSOL) fu introdotto in un altro contesto, il basket NBA, da Mike D'Antoni e i suoi Phoenix Suns che incantarono tutto il mondo della pallacanestro americana. 
Ed è qui che si nota la seconda differenza con l'impianto di Klopp. I giocatori del Bayer sono disposti a prendersi tiri più difficili anche da lontano per rispettare il principio del run and gun. Il Borussia ha invece palesato molti limiti contro una Juve ordinata e compatta, che ne ha ostacolato la ricerca di tiri in zone più pericolose, quasi sempre da dentro l'area.
Schmidt arricchisce il gegenpressing o contropressing di Klopp di una sfumatura tanto raffinata quanto spietata: il “Just Shoot!”. La chiave dell' attacco di Schmidt è il dispiegamento di forze nelle "zone pericolose" del campo, immediatamente successivo alla riconquista della sfera, necessario per ricevere la palla in condizioni favorevoli e tentare subito la conclusione.
Qui la strategia del Leverkusen diverge anche da quella della capolista in Germania, il Bayern Monaco. Guardiola ha sempre sostenuto uno dei principi più semplici ma allo stesso tempo innovativi del calcio moderno: “Il nostro centravanti è lo spazio”. Schmidt approccia in modo diverso allo spazio e quindi alla profondità, che per i suoi uomini è come l'Everest per i primi scalatori: la si affronta semplicemente perché c'è. Non troviamo uno spasmodica e ossessiva ricerca della profondità, come nel Bayern Monaco, che porta a selezionare i tiri da prendere concentrandoli in zone dalle percentuali di pericolosità vertiginose.


L'innesco rapido delle azioni del Leverkusen contribuisce a destabilizzare la difesa avversaria, non una fitta rete di passaggi sfiancanti. La scelta del tiro sempre e comunque entro 7 secondi dalla riconquista del pallone, con la fisiologica conseguenza di tirare molto frequentemente da lontano, non è una strategia fine a se stessa. La vera efficacia di questo sistema è l'alternanza di questo tipo di soluzione ad uno sviluppo della manovra più ragionato. Infatti “il tiro entro sette secondi” costringe la difesa a reggere il confronto con giocatori che attaccano la profondità con aggressività per ricevere palla e tirare immediatamente; automaticamente si creano altri spazi in cui è possibile giocare il pallone in superiorità numerica per arrivare a tiri più pericolosi. Lo spazio che genera altri spazi.

Dei tiri effettuati rapidamente, 2/3 sono tentati da Son, Bellarabi o Çalhanoğlu, minacciosi sia nei tiri dalla lunga distanza che negli scambi veloci palla a terra.







La nostra analisi porterebbe a concludere che il Bayer Leverkusen di Schmidt sia il sistema perfetto senza punti deboli e destinato a condurre la squadra tedesca molto avanti in Champions League e a giocarsela con tutti. D'altronde, perché rovinare una bella storia con la verità? La verità è che dobbiamo aspettare test diversi rispetto ad una partita giocata in casa contro l'Atletico. Per dare un giudizio più completo dobbiamo vedere come si comporterà il Bayer contro avversari capaci di saltare con il palleggio la prima linea di pressing attraverso la superiorità numerica a centrocampo, come ad esempio il Barcellona. Oppure contro squadre schierate difensivamente con due linee molto compatte al limite dell'area, che oppongano al pressing una difesa impostata sulla densità; come fa il Chelsea di Mourinho dichiarando esplicitamente di non voler il pallone perché "se noi non abbiamo la palla come possono loro pressare?".


Intervista dopo la semifinale di ritorno di Champions, Barcellona - Inter.


Il calcio è (fortunatamente o sfortunatamente) troppo vincolato alle giocate individuali per pensare arrogantemente di poter vincere sfruttando solo un impianto tattico perfetto. La visione tattico-centrica non è la verità. Le capacità dei singoli calciatori e la qualità delle loro scelte è troppo determinante per subordinare completamente le individualità ad un sistema di gioco, per quanto perfetto e geniale esso possa essere. Alcuni la chiamano casualità del calcio, per altri questa è la bellezza e l'essenza dello sport più bello del mondo, per altri ancora è la profonda ingiustizia del pallone, per i tifosi del Bayer Leverkusen è un tiro al volo di Zidane in una finale di Champions.
Johan Cruijff, da allenatore del Barcellona (il Dream Team del 1992), sosteneva che i giocatori, una volta compreso il sistema di cui facevano parte, dovevano essere indipendenti dal punto di viste dello loro valutazioni, perchè, parafrasando De Niro « The talent is in the choices. » e quindi "il grande calcio si gioca con la testa" e i campioni giocano così.
Il Bayer Leverkusen non ha i migliori giocatori d'Europa e non vincerà la Champions ma godiamoci questa squadra, Roger Schmidt e le sue idee. Ne vale la pena, fidatevi.


giovedì 26 febbraio 2015

I 6 momenti più intensi della storia del Bari


Un tifoso del Bari ci racconta i suoi 6 momenti più intensi della storia del Bari.

Scrivo da tifoso del Bari, 17 anni di passione biancorossa. Ho incominciato a seguire la squadra biancorossa dalla giovane età di 10 anni con il Bari di Conte, che ora tutti conoscono come Ct della nazionale, ma pochi come allenatore del Bari. Subentrò a Materazzi, padre del noto difensore Marco, dopo un disastroso derby contro il Lecce perso al San Nicola per 4-0. Il mio primo campionato fu quello, il Bari targato Antonio Conte inanellò una serie di vittorie che portarono la compagine barese dalla zona rossa della classifica ad un passo dai play-off. L’impresa fu solo rimandata di un anno, la stagione seguente il Bari disintegrò il campionato e poté accedere alla massima serie. Oggi io mi occuperò dei 6 momenti più belli del Bari che ho vissuto o che mi hanno raccontato.



1) Una meravigliosa stagione fallimentare




Al primo posto piazzo sicuramente il fallimento pilotato e tutto ciò che ne consegue. L’annata scorsa che è diventata un docufilm da poco: "Una meravigliosa stagione fallimentare". Bari si liberò dell’egemonia dei Matarrese e una città intera si prese carico di una squadra, le uniche entrate  erano quelle dei botteghini che registravano numeri da serie A. L’exploit si raggiunse in Bari - Latina quando il San Nicola ospitò 60.000 spettatori desiderosi di rientrare nel calcio che conta. La cavalcata fu interrotta da un duplice pareggio per 2-2 contro i laziali che passarono per le regole del campionato di serie B che favoriscono la squadra piazzatosi in maniera migliore nella regular season.





2) Bari - Lanciano 4-3




Una storica rimonta di una squadra che quell'anno aveva poco da chiedere. L’urlo dei 5.000 che non hanno mai mollato, il ruggito di una squadra che era sommersa dalle penalizzazioni e chiedeva aiuto alle istituzioni ma soprattutto al suo pubblico. Il Bari era sotto per 3-0 contro il Lanciano, in 19’ il Bari riuscì a segnare quattro gol ed entrare nella storia.



3) Il ritorno da Piacenza




La squadra di Mister Conte, che come detto prima disintegrò il campionato, era attesa in città per la festa. La sconfitta del Livorno  in casa con la Triestina consentì al Bari la matematica promozione. A Piacenza fu una passerella di rito ma più emozionante fu il ritorno in Piazza Prefettura che accolse 100.00 baresi che, in concomitanza con la festa del Santo Patrono San Nicola, festeggiarono in piazza.





4) Juventus - Bari 2-1


Antonio, detto Totò, Lopez


Questa per me è solo storia raccontata da gente con qualche capello bianco in più di me. Una squadra di Serie C, il Bari di Bruno Bolchi, passò in Coppa Italia contro la Juventus di Platini, Scirea, Zoff, tanto per citarne qualcuno. Il Bari vinse a Torino con un gol di Totò Lopez  in zona Cesarini.  I biancorossi al ritorno pareggiano per 2-2 in uno Stadio Della Vittoria stracolmo, come non si era mai visto. Il Bari di Bolchi dopo aver battuto la Juventus, superò anche i quarti di finale contro la Fiorentina: si arrese solo alla corazzata Verona, guidata da Bagnoli, che poi vincerà lo scudetto nella stagione successiva.



5) Bari - Juventus 3-1




Questa vittoria è di ben altra epoca. Risale al campionato dei record con Mister Giampiero Ventura, arrivato a Bari a fari spenti scelto dal solito Giorgio Perinetti. Ho preso questa partita come simbolo di un campionato disputato per "libidine", come affermò il mister. Se ne potrebbero citare molte altre, dal pareggio contro l’Inter di Mourinho a San Siro oppure la vittoria contro la Lazio all’Olimpico di Roma o anche lo sfortunato esodo di 13.000 baresi che invasero Roma in occasione di Roma - Bari. Tornando al match, il Bari surclassò la vecchia signore che si dovette arrendere alle geometrie disegnate con perfezione dal centrocampo Almiron - Donati, alla  velocità di Alvarez e alla sintonia della coppia Barreto - Meggiorini. Il Bari di Ventura finì il campionato al decimo posto collezionando il record di punti nella storia del Bari. 


6) Giovanni Loseto

Giovanni Loseto


Credo che questo non vada considerato un momento o una partita ma il capitano del Bari va considerata storia.  Una colonna portante del calcio biancorosso. Barese verace che ama i colori biancorossi e tutt’ora segue la squadra biancorossa all’interno.  Episodio tratto dal libro La mia voce in biancorosso di Michele Salomone:
In sala stampa nel post partita, Michele Salomone:” Giovanni, un bel gol, ma come hai fatto?”
Loseto risponde ironicamente: "Mchè, stut u mcrfon, so trat a cazz e so fatt u gol a cul". (Michele, spegni il microfono, ho tirato male ed ho fatto un gol fortunoso)
Si riaccende il microfono e lui spiega: "Mi sono inserito, ho visto il portiere un po’ fuori e ho mirato lo specchio della porta".
Il simbolo della baresità. 





mercoledì 25 febbraio 2015

Gabbiadini e la selezione naturale

Quando la versatilità tecnica e l'intelligenza tattica "condannano" a giocare fuori ruolo. Analisi di uno dei migliori attaccanti italiani.

di AER






Se Charles Darwin, padre della teoria dell'evoluzione, fosse stato un giornalista sportivo contemporaneo avrebbe detto, parafrasando uno dei presupposti fondamentali della sua teoria, una cosa del genere:
"Gabbiadini è un po' il simbolo della selezione naturale del calcio italiano: punta vera, che sia prima o seconda, costretto a giocare largo sulla fascia. Nel calcio italiano esiste una lotta continua tra i giocatori giovani per emergere dallo spietato gruppo delle giovani promesse e per conquistarsi un posto da titolare in serie A. Nella lotta sopravvivono i calciatori che più riescono ad adattarsi, cioè quelli che meglio sfruttano le risorse e i bisogni dell'ambiente e che riescono a tirar fuori le proprie qualità in contesti tecnico-tattici non appropriati alle proprie caratteristiche."


Manolo Gabbiadini ha trascorso la sua intera carriera da attaccante della serie A giocando non da attaccante. Dopo i trascorsi all'Atalanta , a Bologna veniva schierato abitualmente da esterno destro del 4-2-3-1, nella Samp si è alternato tra attaccante esterno del 4-3-3 e di nuovo esterno nel 4-2-3-1.
Senza alcun dubbio le scelte degli allenatori di Gabbiadini sono oggettivamente sbagliate, ma non per un discorso puramente legato al giocatore ma anche al contesto della squadra in sé che avrebbe come obiettivo quello di riuscire a beneficiare al massimo delle qualità individuali dei singoli, ma non lo fa.
D'altronde, come si fa a schierare lontano dalla porta un attaccante che riesce a spostarsi la palla sul sinistro e a calciare in diagonale con forza e precisione in una frazione di secondo? Quanti attaccanti della serie A hanno un tiro comparabile? Quanti calciatori italiani hanno un'essenzialità e una pulizia tecnica del genere?
Nelle Nazionali giovanili è stato stabilmente l'attaccante titolare e i suoi numeri sono veramente impressionanti: 2 gol in 3 partite con l'Under-20 e 12 in 24 partite con l'Under-21, terzo marcatore di sempre dell'Under-21 dopo Gilardino (19) e Pirlo (16).

Il repertorio offensivo di Gabbiadini è vastissimo ed è impressionante vedere come riesca ad essere pericoloso da ogni posizione all'interno e nei pressi dell'area di rigore.


Durante il periodo trascorso alla Sampdoria, l'arsenale offensivo di Gabbiadini si arricchisce di un'altra pericolosissima arma: il tiro direttamente da calcio di punizione. La sua tipologia di tiro, secca e precisa, è particolarmente adatta ai calci da fermo ed è molto affascinante pensare che sotto la guida di Siniša Mihajlović sia emersa questa sua predisposizione. Più realisticamente ci siamo resi conto della sua attitudine a trasformare calci di punizione perché ha iniziato tirarli. La sua posizione di esterno nel 4-2-3-1 alla Samp, nonostante lo relegasse ad una fase difensiva molto profonda e all'aiuto in raddoppio di marcatura al terzino, gli consentiva di avere molto spazio per i tiri dal limite dell'area durante lo schema di gioco offensivo principale della squadra allenata dal tecnico serbo, cioè le transizioni. Non è un caso che un'ideale classifica dei suoi gol più belli in maglia blucerchiata sia composta da tiri da fuori e punizioni.


Nei due gol da fuori area è evidente la sua intelligenza nel sistemarsi "spazialmente" e nel prepararsi con il corpo per ricevere palla, controllare e calciare nel minor tempo possibile e con il miglior risultato possibile.

In un'intervista rilasciata a maggio del 2012, alla fine del suo primo vero anno di A all'Atalanta, Gabbiadini fa trasparire due grandi qualità che sono coerenti con il suo modo di giocare. Prima di tutto riconosce che le poche possibilità che ha avuto di giocare sono abbastanza, anzi si rimprovera per non aver segnato di più, e successivamente indica il suo modello di giocatore: si ispira a Diego Milito. La conoscenza delle proprie caratteristiche è difficile da ritrovare in un ragazzo di quell'età ed è sorprendente che Gabbiadini (in campo, naturalmente) assomigli realmente in molte cose al Principe del Bernal. Ed è ancora più strano che la cosa che assomiglia di più a Milito vista in questi ultimi tempi sia costretta a latitare su una fascia laterale...

L'attenzione mediatica nei confronti di Manolo Gabbiadini cresce con il suo arrivo a Napoli nello scorso mercato di gennaio. 

Benitez lo presenta così: <<Gabbiadini è difficile da controllare. Può giocare a destra, a sinistra, al centro, in tutti e quattro ruoli in attacco. Non dà punti di riferimento ai difensori>>. Rafa ne sta esaltando la versalità e le qualità da attaccante oppure solo la versalità? Questa presentazione ci lascia un po' con il dubbio se sia riuscito a cogliere in modo ottimale la natura del calciatore anche perché, per un calciatore,  peggio di essere schierato fuori ruolo c'è solo essere schierato fuori ruolo in un sistema così integralista come quello di Benitez (Hamsik docet).



Partiamo dai primi gol di Gabbiadini con la maglia del Napoli per provare a capirne di più.



Chievo - Napoli

Gabbiadini parte dell'inizio come esterno destro offensivo nel 4-2-3-1. La partita centralmente è molto bloccata e Gabbiadini deve essere costantemente un appoggio per la manovra ricevendo spesso la palla spalle alla porta.



Entrambe le squadre si affidano molto all'asse terzino - esterno di centrocampo per portare avanti il pallone e far salire il baricentro, per il Napoli: Strinic - Mertens 16 passaggi e Maggio - Gabbiadini 10 passaggi.



Giocando largo secondo il modulo e basso perché forzato dal tipo di partita, non riesce quasi mai a dialogare con la punta centrale ma spesso scambia il pallone con il mediano di riferimento e con il trequartista.
Essendo attaccante di natura, però, riesce ad avere una visione degli spazi che si aprono dietro i difensori avversari differente da quella di un esterno. Qui ritorna il Darwin giornalista sportivo e la capacità di saper usare le proprie qualità in contesti estranei da quello ideale.
Gabbiadini segue una ripartenza centralmente e riceve il pallone nel cuore dell'area di rigore, quasi spalle alla porta controlla con il sinistro e sempre con lo stesso piede, girandosi improvvisamente, tira sul palo del portiere fulminandolo. Goal.


La velocità e l'esecuzione perfetta danno l'idea di quella linearità di cui abbiamo parlato prima. 


Napoli - Udinese

Gabbiadini ribalta il pensiero di Antoine de Saint-Exupéry ne Il piccolo Principe: l'essenziale non solo è visibile agli occhi ma diventa la soluzione più ovvia ma soprattutto più efficace. Ce ne da dimostrazione nell'azione del gol. 
Il Napoli attacca sul lato sinistro, Gabbiadini è attirato verso la parte centrale del campo e riesce ad intuire perfettamente come andrà a finire l'azione. Il movimento incontro al pallone di Higuian inganna due difensori dell'Udinese e Gabbiadini attacca meravigliosamente lo spazio alle loro spalle. Riesce a prendere il tempo all'esterno dell'Udinese (Pasquale) non per la velocità ma perché intuisce una frazione di secondo prima lo sviluppo dell'azione e durante la corsa riesce anche ad indicare ad Hamsik, con il braccio, i tempi e i giri del pallone che vuole ricevere. Hamsik esegue alla perfezione, Gabbiadini è davanti al portiere. Troppo facile per lui, Manolo è freddo, di ghiaccio: se c'è un'altra dote che balza agli occhi è la sua freddezza. Goal.


La lettura dello spazio è perfetta, sembra che riesca a tenere lo sguardo contemporaneamente sul pallone e sullo spazio da attaccare


Trabzonspor - Napoli


Lettura  degli spazi, capitolo 2. Qui però ci aggiunge un controllo a seguire di un eleganza soprannaturale. Con un solo tocco: stoppa il pallone, evita i difensori, si gira, evita di nuovo i difensori, si prepara a tirare anzi si prepara a tirare sotto le gambe del portiere. E ritorniamo alla semplicità, all'essenzialità, alla linearità, all'efficacia, alla freddezza. Goal.

Higuain si abbassa e lui capisce subito che deve attaccare lo spazio lasciato libero, capisce dove posizionarsi, capisce dove arriverà il pallone e capisce come dovrà controllarlo.


Palermo - Napoli

Il Napoli subisce tremendamente il Palermo, Gabbiadini entra quando i rosanero conducono già per 2 a 0, gioca una quarantina di minuti e fa in tempo a segnare uno dei gol più strani della sua carriera.
La traiettoria della punizione è stranissima e sorprende sia la difesa che l'attacco, sembra sorpreso anche Gabbiadini (stava andando da un'altra parte) ma con la sua consueta "linearità" non si scompone e colpisce la palla delicatamente con il tacco. La palla non cambia direzione e il portiere viene beffato.



Sarebbe bello pensare che per ogni Gabbiadini attaccante messo sulla fascia ci sia un Gabbiadini esterno schierato attaccante. Sarebbe ancora più bello immaginare una selezione naturale al contrario in cui i giovani calciatori non devono adattarsi alle esigenze e alle necessità della squadra ma possono esprimere le proprie qualità al massimo perché messi nelle condizioni ideali per farlo.
Allora potremmo rivolgerci al Darwin giornalista invitandolo a non parlare più di calcio perché ne capisce poco: 
"Sir Charles, la prego, la smetta con questa teoria dell'evoluzione applicata ai giovani nel calcio italiano. Un giorno Gabbiadini diventerà un grandissimo attaccante, deve solo trovare l'allenatore giusto...".


sabato 21 febbraio 2015

Arrigo Sacchi e i novelli Martin Luther King



Come in un contrappasso dantesco, lo storico fautore del pressing nel nostro Paese ha trascorso la settimana ora agli sgoccioli cercando di disimpegnarsi da una pressione costante e ben organizzata. Del resto, quando vengono tirati in ballo i temi e i soggetti più caldi della morale e del moralismo contemporanei, è difficile sperare che la vera o presunta intellighenzia italiana, dalla gente comune alle istituzioni, si preoccupi di analizzare davvero a fondo la questione cercando di contestualizzare e capire le affermazioni dei protagonisti del nostro tempo. È molto più facile infatti scatenare il buonismo militante da tastiera (gente comune) e partecipare attivamente alla corsa al comunicato ufficiale d'indignazione (istituzioni). A partire dal 16 febbraio fino a data da destinarsi, vittima di questi annosi fenomeni è stato Arrigo Sacchi, un uomo che nella sua quasi leggendaria carriera di allenatore, oltre ad essere entrato a buon diritto nei libri di storia del calcio grazie alla rivoluzione tattica introdotta con tenacia nella nostra antiquata Italia a fine anni '80, ha costruito successi planetari lavorando fruttuosamente con diversi giocatori dalla pigmentazione cutanea diversa dalla nostra. La colpa del “vate di Fusignano” ormai la conoscono anche i muri dei palazzi: aver dichiarato che nel Torneo di Viareggio ha notato un numero eccessivo di giocatori di colore nelle squadre Primavera nostrane.




Apriti cielo! Il tribunale dell'inquisizione popolare tenuto vigorosamente in attività dai social-commentatori seriali ha emesso l'irosa sentenza di razzismo contro l'ex tecnico del Grande Milan e della Nazionale Azzurra. A ufficializzare la condanna, ecco candidarsi al ruolo di Gran Giurì del suddetto tribunale nientepopodimeno che il più mediatico dei procuratori Mino Raiola, il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega allo sport Graziano Delrio, e come special guests dall'estero il re dei commentatori sportivi inglesi Gary Lineker e il re del calcio mondiale Sepp Blatter: in vari modi, costoro sono stati solerti e concordi nel prendere le distanze dal cattivo di turno. Ma visto che noi non siamo personaggi istituzionali né degli opinion leader, ma solo persone che cercano di valutare gli eventi – per l'appunto – fuori dagli schemi, ci assumiamo la responsabilità di offrire un punto di vista differente circa le parole dell'Arrigo nazionale, più attento al merito della questione tecnica da lui sollevata e forse anche più etico. Perché pensare di essere moralmente irreprensibili bollando qualcuno come “razzista” alla prima occasione buona, in questo caso l'uso dell'aggettivo qualificativo “neri” combinato dall'aggettivo indefinito “troppi”, senza sforzarsi di comprendere la reale sostanza del messaggio, è tutto fuorché etico.




Quel che ha fatto il “profeta della zona”, a grandi linee, è stato riprendere uno dei concetti universalmente espressi e addotti come problema principale quando assistiamo ai numerosi fallimenti calcistici italiani degli ultimi anni: i nostri giovani hanno sempre meno opportunità di giocare ed emergere perché vengono chiusi dal crescente numero di stranieri che i club acquistano sia per ottenere risultati più facili, almeno nelle intenzioni, sia per i costi contenuti dei giovani provenienti da certi Paesi, soprattutto quelli africani, spesso al centro di una vera e propria “tratta” gestita da dirigenti e procuratori (sulle cui modalità sarebbe interessante condurre un'inchiesta approfondita). Il tutto con conseguenze esiziali per il nostro movimento, sotto il profilo sia tecnico che economico. Ecco, abbiamo parlato di stranieri. Ma Sacchi a ben vedere si è focalizzato sui “neri”. Perché prendersela proprio con loro? Per rispondere adeguatamente, dobbiamo lasciar da parte gli interruttori del nostro cervello che scomodano a macchinetta i grandi ideali del XXI secolo, e provare piuttosto ad auscultare voci e opinioni di chi lavora nei settori giovanili a tutti i livelli, di chi vede allenatori avversari infischiarsene d'insegnare fondamentali e sapienza tattica ai propri giovani e giovanissimi calciatori preferendo puntare tutto sul ragazzo o ragazzino coloured di turno, che 8 volte su 10 ha una struttura fisica nettamente più forte degli altri e permette alla squadra di portare a casa i 3 punti semplicemente facendosi dare il pallone e sbrigandosela con la pura potenza. È un dato acclarato che il fisico di una persona di colore tende ad assumere una prestanza e un'esplosività mediamente superiori a quelle di un “bianco”, e che tali differenze vanno a formare un gap decisivo nell'età dello sviluppo. Ed è sempre più diffusa questa pratica, che di fatto si basa sull'affidarsi al mezzo più comodo per segnare un gol in più dell'avversario anziché impegnarsi ad istruire e coltivare a dovere i nostri talenti.

Certo, le argomentazioni contrarie a quanto sostenuto finora non mancherebbero. Innanzitutto, è in crescita il numero dei figli d'immigrati di colore (per intenderci, gli omologhi di Balotelli, Ogbonna, Okaka ecc ecc) quindi parecchi “neri” sono italiani, non stranieri. Ma è altresì vero che il fenomeno sopra descritto va a danneggiare anche loro stessi, il cui potenziale non è sviluppato con la dovuta completezza. Tanto, basta la superiorità fisica...
Inoltre, dobbiamo far notare che solo il 5% degli atleti delle squadre italiane che hanno disputato il Torneo di Viareggio ha la pelle scura. Ma sarà un caso che la maggior parte di essi sia concentrato nell'Inter vincitrice della coppa? È lecito sospettare che si tratti proprio del coronamento di quella “corsa all'africano” volta al prevalere sugli avversari finché le differenze fisiche fanno ancora la differenza. E chi se l'aggiudica, ovviamente, è il pesce grosso del mercato. Tuttavia il compito primario dei settori giovanili – teniamolo bene in mente – non è vincere, bensì formare i talenti. Per il bene in primis del nostro calcio.





Il nostro non è razzismo, autentico cancro delle società civili destinato fortunatamente a scemare nei prossimi decenni. Il nostro è approfondimento tecnico, così come quello stimolato da Sacchi quando ha emesso le sue considerazioni. E quando l'analisi tecnica deve temere di potersi esprimere per paura delle accuse di razzismo, anche lì si rasenta la malattia. Sia chiaro, non abbiamo preso per oro colato l'uscita sacchiana, ma ci siamo almeno presi la briga di approcciarci ad essa con spirito critico (nel senso di giudizio obiettivo e profondo) per cercare di scoprirne le reali motivazioni e implicazioni. A nostro avviso, il vero “cattivo” non è Arrigo Sacchi da Fusignano, né tanto meno lo sono i giocatori di colore, che inseguono giustamente il proprio sogno come i loro coetanei di tutto il mondo! Sull'ipotetico banco degli imputati (con doverosa presunzione d'innocenza) dovrebbero semmai finire quegli addetti ai lavori dei settori giovanili rei di limitare la crescita dei nostri talenti in nome del risultato facile a tutti i costi. Con rinvio a giudizio, ahimè, per la categoria dei giornalisti, sempre pronti ad estrapolare scientemente le frasi pronunciate dai personaggi più noti, a metà tra obblighi di incisiva brevitas e sensazionalismo arraffa-audience.

giovedì 19 febbraio 2015

Tutt'altro che banali


Tottenham-Fiorentina per associazione di idee mi rimanda ad una di quelle sfide molto anni 90’ di Coppa UEFA. Le squadre si sono affrontate soltanto in un paio di amichevoli, ma come si fa a non ritornare con la mente alle gloriose trasferte delle nostre in Gran Bretagna? La Lazio a Stamford Bridge, il Genoa ad Anfield Road e così via.

Proprio con i grifoni gli Spurs condividono l’origine. In quel di Tottenham nasce un club di cricket, gli Hotspur, gli impulsivi, dal soprannome di Henry Percy, nobile inglese, nemico giurato di francesi e scozzesi contro i quali aveva combattuto, nonché governatore di Bordeaux. Sostenitore di Enrico IV nella sua scalata al trono, in seguito lo osteggerà, morendo per questo in battaglia: un dardo lo colpisce in bocca mentre tenta di liberarsi dell’ingombrante elmo. Il sovrano, nutrendo nonostante tutto un certo affetto per lui, gli concede la sepoltura; secondo voci popolari però, Henry è ancora vivo. Dopo la riesumazione, il re ordina di infilzarlo su una picca nella pubblica piazza e, in seguito, di squartarne il corpo, da sciorinare in tutta l’Inghilterra come deterrente contro eventuali ribellioni. Shakespeare lo inserisce anche nel suo celeberrimo Enrico IV.
Dal 1882, per iniziativa di alcuni studenti della Grammar School del quartiere, si inizia anche a giocare a calcio. E’ una storia paternalista e socialista assieme quella dell'accademia. Sorta secondo la tradizione nel 1456, è legata dal 1631 a Sarah Seymour duchessa di Somerset, che con le sue donazioni apre le porte dell’istruzione anche ai giovani meno abbienti. Non solo: finanzia la costruzione di un ospizio per vedove. La sua bontà d’animo le varrà l’onore più bramato da qualsiasi britannico: la sepoltura a Westminster Abbey, precisamente nella cappella di San Michele, in cui le è dedicato anche un monumento. Si sposerà tre volte e il suo secondo marito, John Seymour, è antenato di quell’Algernon Seymour che ristrutturerà la scuola nel 1910. Nel 1938 la struttura cresce, con l’edificazione di una succursale da 450 posti nei pressi di White Hart Lane, oggetto di un bombardamento nel 1945.




 Il nome Tottenham appare comunque solo nel 1884, per distinguersi dai London Hotspur. Gli anni passano e nel 1901 arriva la prima vittoria in FA Cup, pur non partecipando al campionato nazionale. Le stagioni seguenti sono abbastanza infami e la questione ripescaggio post-bellico scava un solco definitivo tra Arsenal e Tottenham: nella ricomposizione della Division One del 1920, i vertici della federazione preferiscono i Gunners, sesti in seconda divisione, agli Spurs, ultimi nella massima serie. Nonostante ciò, nel 1921 arriva la seconda FA Cup. Un’altra guerra incombe però minacciosa sull’Europa. Tutto da rifare, rose, campionati, strutture. La squadra fallisce la qualificazione alla prima divisione, perciò è affidata ad Arthur Rowe, ex stella indigena del club, nato proprio nel quartiere.
Non è un personaggio da bypassare: se Rinus Michels nel 1974 propone QUEL tipo di calcio, deve più di qualcosa a quest’uomo. E’ l’inventore del push and run, lo scarico e la corsa nello spazio, pared tuya mia, uno-due, chiamatelo come volete. E’ un concetto scontato oggi, ma non all’epoca. D’altronde il buon Arthur ha passato svariati anni in Ungheria, l’avanguardia calcistica per eccellenza. Parte a malincuore dalla terra magiara col fragore dei carrarmati di Hitler nelle orecchie, con la promessa solenne di debellare quell’orrore, ragion per cui si arruola nell’esercito. Sul campo, quello verde, non quello brullo e sanguinoso della battaglia, ottiene la promozione in Division One, che vince da neopromosso nel 1950. In rosa c’è anche un ragazzo destinato a fare le fortune del calcio d’oltremanica, si chiama Alf Ramsey e ne risentiremo parlare sedici anni dopo circa.
Gli anni successivi sono di magra, anche se le attese e le delusioni dei tifosi verranno ripagate con interessi da titolo di stato greco dall’epopea dorata di mister Bill Nicholson: double Coppa di Lega/FA Cup (1961), Coppa delle Coppe (1963), ancora FA Cup (1967), Coppa di Lega (1971 e 1973) e Coppa UEFA (1972). Tottenham gli dedicherà uno dei più popolari pub di Londra, oltre che naturalmente un’intera via.





Altre vittorie giungono sotto l’egida di Keith Burkinshaw: trionfo in FA Cup nel 1981 ed affermazione tre anni dopo in Coppa UEFA. Una compagine arcigna quella, guidata spiritualmente dai due argentini Ardiles e Villa.




Particolarmente florido è poi il 1991, quello dell’FA Cup contro il Nottingham Forest, ma soprattutto anno della madre di tutte le partite per ogni cuore Spurs che si rispetti: la semifinale contro l’Arsenal vinta 3 a 1, con la punizione di Gascoigne da trenta metri e la papera di Seaman su Lineker. Il Daily Telegraph, grazie all’opinionista ex Gunner Alan Smith, ha organizzato in occasione dell’ultimo derby un incontro tra quattro protagonisti di quel match, due per parte: lo stesso Smith e Paul Davis per l’Arsenal, David Howells e Steve Sedgley per il Tottenham. Uno di quegli splendidi salotti con tanto di colazione all’inglese che solo il giornalismo d’oltremanica può ricreare, per sviscerare ricordi e aneddoti. La gara si gioca all’ora di pranzo, Sedgley non rinuncia comunque ad uova e bacon per colazione. E’ la prima semifinale della storia disputata a Wembley perchè il seguito è troppo numeroso, ben 90 mila persone. E’ affiorato come, all’insaputa di tutti sino a quel momento, il grande George Graham avesse studiato una marcatura a uomo per Gazza; lui, croce e delizia, protagonista controverso della storia. L’Arsenal entra in campo con una divisa apposita, segnale che lui interpreta male, quasi come una sorta di sprezzante superiorità nei loro confronti. Oltretutto è stato poco tempo prima operato d’ernia, ma ciò non gli impedisce di scrivere una pagina storica del torneo.




La rivalità con i cugini resta inconciliabile, come dimostra il trasferimento di Sol Campbell, giunto a parametro zero ad Highbury dopo otto anni da leader a White hart lane. In un’intervista di fine 2001 garantisce la propria permanenza a nord di Londra, per poi smentirsi un paio di mesi più tardi; lo soprannomineranno Giuda e verrà subissato dai fischi al suo primo ingresso da rivale nel tempio del Tottenham.     




Si arriva quindi ai giorni nostri, passando per l’inglesissimo undici di Harry Redknapp, carnefice di Milan e Inter, con Bale e Lennon sulle fasce e Crouch centravanti boa.


Oggi Pochettino ha salde le redini dello spogliatoio, lui, proveniente dalla più affascinante e stravagante scuola calcistica e filosofica del mondo: quella di Marcelo Bielsa. 





Certo, il buon Mauricio non chiederà mai ad un ragazzino di arrampicarsi su un albero per spiare gli allenamenti degli avversari, resta comunque un manager estremamente meticoloso. Non ha paura di sconfessare le scelte societarie, dato che Stambouli, Capoue, Paulinho, Fazio, Chiriches e Soldado riscaldano ormai stabilmente la panchina. Ha saputo valorizzare diversi giovani del vivaio ed oggi schiera un 4-2-3-1 che riprende alcuni principi del maestro. In fase offensiva i centrali di difesa tendono ad allargarsi, per occupare in ampiezza il campo, con uno dei mediani che talvolta si abbassa a ricevere palla. Il pressing degli attaccanti è sempre altissimo, con una punta, Harry Kane, il cui movimento favorisce gli inserimenti.




Particolari sono i movimenti di mediani e trequartisti. Questi ultimi costituiscono un corpo unico, mai slegato, atto a favorire fraseggio e inventiva dei fantasisti; se poi lo spettro delle mezzepunte annovera Lamela, Eriksen Dembele, Chadli e Townsend, il compito è indubbiamente meno arduo. Lo spostamento in blocco della trequarti propizia l'avanzata di uno dei due mediani sulla fascia scoperta, trasformando il modulo in un 4-1-4-1; in alternativa al centrocampista, ha libertà di corsa il terzino. Ma aldilà delle varianti offensive, di alto livello già nelle scorse stagioni, Pochettino sta cercando di incidere anche sulla difesa con un sistema dal sostrato ancora più bielsista. I cinque di centrocampo, una volta caduta la prima linea di pressione, indietreggiano insieme, disegnando un pentagono perfettamente geometrico, con i mediani schermo dei difensori centrali e le mezzepunte qualche metro più avanti degli incontristi: una volta recuperata palla, in questo modo si può subito verticalizzare. L’elevato numero di uomini nella propria trequarti mi induce a pensare che forse Pochettino avrà letto L’arte della guerra di Sun Tzu, che suggerisce di attaccare e difendere le zone dove può realmente essere arrecato un danno: una scarsa protezione delle vie centrali sarebbe letale, meglio concedere le fasce, dove oltretutto a marcare l’avversario ci pensa anche la linea di bordo campo. Il vero dramma per l’allenatore argentino però, sono gli errori individuali, come cattive letture, marcature fallaci ed appoggi approssimativi (Dier e Vertonghen, per quanto quest’ultimo sia imperioso di testa, non sono di certo Thiago Silva e Pique).

                              
Il frugoletto con la testolina cerchiata è proprio Harry Kane. Un Giuda anche lui.

L’impresa per la Viola è difficile, ma non impossibile. Sarà importante riuscire ad esaltare le caratteristiche di Borja Valero e Pizarro, forse svantaggiati dal pressing dei londinesi. Vincere a White Hart Lane è arduo, negli ultimi tre scontri nessuna italiana vi ha segnato. Però, cari amici e tifosi viola, ricordate quando Batistuta zittì il Camp Nou? Chi l’avrebbe pronosticato.

martedì 17 febbraio 2015

I leoni a strisce bianche e verdi




L'Inter al Celtic e ai suoi tifosi rievoca momenti magici. La vittoria della Coppa dei Campioni (prima squadra britannica e nord-europea a riuscirci) è stata una tappa ed un evento troppo importante nella storia del Celtic, una storia ricca di orgoglio e di senso di appartenenza, per non considerare la sera del 25 maggio 1967 indimenticabile. 
Dall'Estadio Nacional di Lisbona fino alla chiesa cattolica di Santa Maria ad East Rose Street (oggi Forbes Street), dove Fratello Walfrid fondò il Celtic nel 1888, i “Bhoys” avevano conquistato l'Europa.




I protagonisti di quella vittoria furono i giocatori, chiamati da allora “Lisbon Lions”, tutti scozzesi, tutti nati entro 30 miglia (48 km) da Glasgow e tutti provenienti dal vivaio biancoverde, ma soprattutto Jock Stein, inserito nella top ten dei più grandi allenatori di tutti i tempi, che a fine partita disse:”Abbiamo vinto meritatamente, ce l'abbiamo fatta giocando a calcio. Puro, bello, calcio fantasioso.” Eh si, un calcio rivoluzionario: immaginate il calcio totale olandese ma interpretato con maggiore velocità e con la grande aggressività del calcio britanico. In quella stagione, tra l'altro, i Bhoys biancoverdi vinsero anche campionato, coppa nazionale e coppa di lega nazionale, realizzando il cosiddetto quadruple, per il quale l'annata fu poi soprannominata “Year of Triumph”.
Non a caso ai Lisbon Lions e a Jock Stein sono intitolate rispettivamente le gradinate est ed ovest del glorioso Celtic Park, “The Paradise” per i tifosi.




Avrete capito o semplicemente immaginato quanto sia imponente la storia di questo club e quanto sia difficile parlarne senza rischiare di essere banali o di tralasciare aspetti importanti perchè questa è una storia che va al di là del semplice susseguirsi degli eventi.
La storia del Celtic è una storia di coraggio, di sofferenza, di orgoglio, di malinconia.
È la storia di una squadra che fino al 1994 non aveva i numeri stampati sulle maglie ma solo sui pantaloncini.


È la storia di Jock Stein, come abbiamo detto prima.

È la storia di James McGrory, per tutti semplicemente Jimmy. Era soprannominato Mermaid (Sirena) per la sua abilità di testa, nonostante i soli 168 cm d'altezza ed è ricordato come il più prolifico marcatore europeo della storia. 
Numeri alla mano, siamo di fronte a un fenomeno: 550 reti segnate in carriera, 472 delle quali con la maglia del Celtic tra League e Coppa di Scozia (per un totale di 445 incontri); in campionato, 396 reti in 375 partite, con una media stratosferica di 1,056 a partita.
“Il gol che preferisco? Il prossimo” era il suo motto.

È la storia di John Thomson, portiere di soli 175 cm ma dal talento immenso. Il 5 settembre del 1931 durante un Old Firm ad  Ibrox, su una palla bassa, si scontrò fortuitamente in uscita con  Sam English, attaccante dei Rangers, fratturandosi il cranio e  rimanendo inerme a terra. Thomson, entrato in coma, non si  riprese e morì quella sera stessa a soli 21 anni. Il presidente del  Celtic di allora disse di lui: ”Aveva l'abilità di librarsi nell'aria con  l'abilità e l'agilità di un ballerino”. 
 Lo ricordava così il giornalista sportivo John Arlott: “Un grande  giocatore, che arrivò da ragazzo e se ne andò quando ancora era  una ragazzo. Non ebbe predecessori, né eredi. Era unico.”

È la storia di Billy McNeill, capitano dei Lisbon Lions e soprannominato “Cesar” per la sua imperiosità. Una vita dedicata ai biancoverdi, prima da difensore centrale e capitano, successivamente da allenatore e adesso da ambasciatore.


È la storia di John Doyle, detto Johnny. Negli anni '80 al Celtic Park sull’ala giocava questo giocatore che sprizzava coraggio da tutte le parti. Una scarica elettrica se l’è portato via un 19 di ottobre del 1981 a casa sua, mentre stava armeggiando con un apparecchiatura elettrica.

È la storia di Jimmy Johnstone. Se chiedete a un tifoso del Celtic chi è stato il più grande giocatore della storia del calcio, la sua risposta vi lascerà sbigottiti: “Jimmy Johnstone”. Fece impazzire la difesa dell'Inter nella finale del '67.
Jinky, così era soprannominato, odiava volare. Prima di un doppio confronto con la Stella Rossa, Stein promise a Johnstone che lo avrebbe esentato dal viaggio a Belgrado, se avesse provveduto a sistemare le cose già nella gara di andata a Glasgow: finì 5-0, con due gol e tre assist del folletto della fascia. Nel ritorno, però, dovette scendere regolarmente in campo: “Non vorrai mica privare i tifosi slavi della visione del tuo talento?”, gli disse Stein.





Ala straordinaria: tutto genialità, agilità e dribbling ubriacanti. Un giocatore fisicamente contemporaneo, un rivoluzionario del ruolo. Era alto 155 cm ma aveva uno stacco poderoso, impensabile per un fisico del genere.
Cercò di dribblare la sorte non arrendendosi alla SLA che se lo portò via nel 2006. Il suo funerale, celebrato nel giorno di San Patrizio, festa nazionale irlandese, ha visto migliaia di tifosi di Celtic e Rangers sfilare fianco a fianco, pacificamente. E’ stata l’ultima magia del folletto che, con i suoi numeri, sapeva incendiare la notte.

È la storia di Henrik Larsson, attaccante svedese. Nel 1999, in coppa Uefa contro il Lione, si frattura la gamba in due punti, riportando la rottura di tibia e perone. Questo infortunio, normalmente preclude una carriera agonista ad alto livello invece Henrik nella stagione successiva conquista la Scarpa d'oro segnando 35 gol in 37 partite.
La figura di Henrik Larsson è legata a quella che rimarrà nella storia del Celtic come una delle serate che portano con sè più rimpianti.
Nella stagione 2002-2003 il Celtic ancora una volta retrocede dalla Champions League alla Coppa Uefa ma la musica stavolta cambia. Gli scozzesi eliminano con dieci reti i lituani del Suduva, con una doppia vittoria in casa e in trasferta il Blackburn, il Celta Vigo, lo Stoccarda in una pirotecnica sfida, il Liverpool grazie allo storico successo per 2-0 ad Anfield Road, il Boavista e in finale si ritrovano contro il Porto allenato da un giovane Josè Mourinho.




La finale dello stadio Olimpico di Siviglia è bellissima. L'atmosfera è caldissima, l'aria è torbida e le due squadre sognano un trionfo europeo che manca da tanto tempo. Il Porto guidato da Mourinho è trascinato dal genio sconfinato di Deco, vero protagonista di quel Porto e di quella cavalcata trionfale che si concluderà l'anno successivo contro il Monaco. Nella sfida tra le due squadre emerge anche quella tra Larsson e Derlei, attaccanti delle due squadre e protagonisti della finale. Lo stesso Derlei nell’ultimo minuto del primo tempo porta in vantaggio il Porto ma Larsson ancora una volta trascina per mano la sua squadra e con una doppietta recupera l’iniziale rete di Derlei e quella del provvisorio 2-1 siglata da Alenichev che mette il pallone in rete dopo una giocata straordinaria di Deco. Le due squadre vanno ai supplementari e una rete ancora una volta di Derlei al decimo minuto del secondo tempo supplementare condanna definitivamente il Celtic e consegna il titolo al Porto che l'anno successivo vincerà anche la Champions.
Larsson a fine match viene eletto uomo partita ma questo non basta a consolare le sue lacrime, in campo, e quelle dei suoi tifosi, sugli spalti.




Ci sarebbero altri due argomenti da trattare: calore dei tifosi e “old firm”. Ritengo che sia più giusto, però, leggere cosa ha scritto Paolo Di Canio nella sua autobiografia su questi due argomenti. Non conosco la considerazione attuale che i tifosi del Celtic hanno di Paolo Di Canio però ripongo molte speranze nel fatto che possiate entrare ancora di più nell'universo biancoverde leggendo le sue impressioni, le sue sensazioni e le sue riflessioni.




Riguardo ai tifosi, Paolo Di Canio ha scritto:
“La città a prima vista non mi fece una bella impressione. Era fredda e piovosa, le strade erano vuote, sembrava un panorama post nucleare. Ma poi arrivammo al Celtic Park e tutto cambiò. Sembrava il tipo di campo che avevi sempre sognato da bambino. Era bello, si poteva annusare la storia e la tradizione. Mi diedero una sciarpa e qualche video […] . Tornammo indietro il pomeriggio stesso e quella sera rimasi alzato fino a tardi a guardare le videocassette del Celtic. Ero incantato. Non potevo credere a quanto fosse intensa la passione, a come si infiammasse la folla.”
“Una settimana dopo ritornai a Glasgow e incontrai Tommy Burns. Passammo tutta la giornata insieme; Tommy mi mostrò ogni angolino del Celtic Park e mi sentivo sempre più coinvolto. Vidi la foto di Brother Wilfrid, il prete che fondò il club nel 1888, i ritratti dei capitani della squadra, gli spogliatoi e le tribune. […] Lui puntava il dito verso le tribune e poi si batteva la mano sul petto, ripetendo <<Cuore! Cuore!>>. Penso fosse il suo modo per dirmi che i tifosi del Celtic hanno molto cuore. Io gli rispondevo indicando me stesso e battendomi allo stesso modo la mano sul petto, per portare a fargli capire che anch’io avevo parecchio cuore. “
“Mi portarono fuori per la presentazione ufficiale ai tifosi. Era incredibile, qualcosa che non avevo mai vissuto in precedenza. Il sole splendeva, sembrava Napoli. Ero sui gradini del Celtic Park e tutt’attorno a me, almeno fino dove la vista poteva arrivare, c’erano i tifosi del Celtic con le striscie bianche e verdi. Ci dovevano essere dozzine di fotografi e di telecamere, mentre il servizio di sicurezza teneva la gente a distanza. Per un secondo pensai tra me e me: <<Non può essere tutto per me. Devono avere firmato qualcun altro, una stella da grande nome>>. Poi iniziai a comprendere cosa fosse il leggero boato che proveniva dalla folla: <<Paolo! Paolo, Paolo!>>. Stavano cantanto il mio nome al ritmo delle campane di Pompei! Ero sbalordito, era come a Napoli quando venne firmato Diego Maradona. Amai ogni singolo attimo di quel momento. L’addetto stampa del Celtic mi disse di dire alla folla: <<Il Celtic è una grande squadra per la quale giocare>>. Non capivo davvero quello che stavo dicendo, ma quando le parole uscirono dalla mia bocca, la folla impazzi. Voglio dire che erano entusiasti. A quel punto mi innamorai cosi come avevo fatto con Tommy Burns. “

Se le parole di Di Canio non vi sono bastate potete provare a guardare questo:




Oppure questo:





Per Old Firm, come immagino sapete, si intendono le partite tra i Celtics e i Rangers.

Calcio, lotta di classe, politica, tifo, violenza e religione: questo è l’Old Firm, il leggendario derby di Glasgow tra Rangers e Celtic, e molto altro.

La competizione tra le due squadre affonda le sue radici in più di una semplice rivalità sportiva. È infarcita di una serie di complesse dispute incentrate sulla religione (cattolica e protestante) e sulla politica (indipendentisti e unionisti).
Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, scrisse Pasolini e l’Old Firm ne è la sua sublimazione, fin dalle origini nel lontano diciannovesimo secolo.  
I Gers sono la squadra della borghesia scozzese: ricca, protestante e unionista (favorevole a rimanere nel Regno Unito). I Bhoys figli degli immigrati irlandesi sfruttati nell’industria marittima: socialisti, cattolici e repubblicani. Per un secolo religione e politica in Scozia si sono identificate nelle bandiere biancoblu dei Rangers o in quelle biancoverdi dei Celtic, negli stadi come nelle strade di Glasgow. 
Per darvi un'idea di quanto sia alta la rivalità tra le due squadre basta un dato: nel dopoguerra solo cinque giocatori hanno vestito le maglie dell'una e dell'altra squadra. Alfie Conn (Rangers 1968–1974, Celtic 1977–1979), Mo Johnston (Celtic 1984–1987, Rangers 1989–1991), Kenny Miller (Rangers 2000–2001, Celtic 2006–2007, Rangers 2008–2011, Rangers 2014–oggi), Steven Pressley (Rangers 1990–1994, Celtic 2006–2008) e Mark Brown (Rangers 1999–2001, Celtic 2007–2010). Non chiedete loro dove si sono trovati meglio: non vi risponderanno.




Ecco le parole di Di Canio:
Da quel momento, la rivalità con i Rangers divenne ovvia, ma non avevo idea di cosa ci fosse in programma per me al mio primo Old Firm derby. Era il 28 Settembre 1996, stavamo per affrontare i Rangers a Ibrox e io stavo per entrare in un nuovo mondo. Non c’è niente di cosi. Io sono laziale e sono cresciuto respirando, mangiando e bevendo la nostra rivalità con la Roma. Ho sempre sinceramente pensato che il derby di Roma fosse la più grande partita della storia. Fu cosi finchè non andai al Celtic e non vissi in prima persona l’Old Firm derby. Potete prendere tutti i derby del mondo, metterli tutti insieme e ancora non raggiungereste un milionesimo dell’Old Firm. Lo stato d’animo era differente nel tunnel dei giocatori. Normalmente ci si stringe le mani, si fanno quattro chiacchiere, almeno si conosce il proprio avversario. Quel giorno, invece, nessuno disse una parola. Stavamo solo in piedi uno in fronte all’altro. Nessuno ringhiava, ma questo era l’andazzo. Eravamo come cani rabbiosi, che scrutano i propri antagonisti, pronti per essere liberati. Sul campo il rumore era quasi intollerabile. Conosco molti giocatori, soprattutto stranieri, che si potrebbero perdere nell’intensità e nell’ostilità che c’è in una partita del genere. Può intimidire, e non mi riferisco solo ai tifosi avversari. Guardi i tuoi tifosi e vedi la loro passione, la loro rabbia, le loro facce sconvolte dall’emozione e può fare paura. Ma non a me. La pressione era la mia linfa vitale. Mi cibavo di essa. Mi sentivo seriamente più forte, fisicamente e mentalmente, mentre sentivo i tifosi cantare. Mi sentivo come se li avessi potuti sentire individualmente, uno per uno, voci separate che si uniscono per incitarmi.”

“Non fu prima del 6 marzo, nei quarti di finale di coppa di Scozia, che provai la gioia di battere per la prima volta i Rangers. Il fatto che ciò avvenne a Celtic Park, lo rese ancora più dolce. Andammo avanti all’11 minuto con Malky Mackay e io raddopiai dal dischetto al 19′. Quando la palla toccò il fondo della rete, sentii 50.000 voci che cantavano il mio nome. Era irreale. Giocammo bene, creammo più occasioni e portammo a casa la vittoria. Alla fine, ogni volta che toccavamo il pallone, anche se si trattava solo di una rimessa in gioco, c’era un rumore fortissimo, sembrava che lo stadio tremasse. Era assordante, il rumore più forte che abbia mai sentito e ogni volta sembrava aumentare sempre di più. Quello è di gran lunga il ricordo più bello che ho dell’Old Firm.”

La squadra del Celtic attuale non è quella del '67, ma non è nemmeno quella del 2003. È una squadra che paga il gap fisiologico del calcio scozzese rispetto a quello dei grandi campionati europei e l'assenza di una competitività più profonda nel campionato nazionale.
L'allenatore è il norvegese Ronny Deila che dopo le vittorie in patria con lo Strømsgodset cerca di ripetersi in Scozia e, perchè no, di provare a mettere in mostra le proprie qualità. 
Dalla Norvegia e dal suo club precedente Delia ha portato con sè Stefan Johansen, uno dei volti più noti e più promettenti del Celtic. Nato come attaccante e schierato su una delle due fasce, fu l'allenatore Ronny Deila a trasformarlo in un centrocampista centrale, cambiandone la carriera da quella di un'anonima ala a quella di un centrocampista molto interessante.





Johansen è uno degli elementi di spicco di una squadra molto giovane e con ampi margini di crescita.
Insieme a lui, il giocatore simbolo è senza dubbio John Guidetti, arrivato a settembre del 2014 in prestito dal Manchester City. Guidetti, svedese come Larsson ma di evidenti origini italiane, ha avuto un ottimo impatto nonostante venisse da un periodo molto travagliato. John Guidetti è uno che dalla battaglia non si è mai tirato indietro ed oggi, con la maglia del Celtic, si sta togliendo diverse soddisfazioni. Le stesse soddisfazioni che la sfortuna ha provato a negargli a più riprese, soprattutto durante le due stagioni scorse, passate a lottare contro un maledetto virus intestinale che sembrava poterlo mandare per sempre lontano dai campi da calcio. Come tipologia di calciatore, sia fisicamente che tatticamente, ha numerosi tratti di somiglianza con il nostro Pellè e mi permetto di dire che anche essere sbocciati entrambi nell'Eredivisie rappresenta un dato che interpretato nel modo giusto può essere indicativo per analizzare il tipo di giocatore che è Guidetti. Tecnicamente Guidetti si discosta da Pellè ma rappresenta comunque la rivisitazione in chiave moderna e la rivalutazione del vecchio numero 9 classico. 






"Rivisitazione in chiave moderna e rivalutazione", un classico dalle parti di Parkhead. Ho sempre amato le atmosfere del calcio britannico e soprattutto l'atmosfera del Celtic Park proprio per quella sua delicatezza e quell'eleganza che conserva nonostante il rumore, nonostante il tifo sfrenato e viscerale. Anche una rissa tra giocatori o un brutto passaggio sbagliato o una papera di un portiere sarebbero "giustificati", avrebbero un significato diverso e sarebbero accompagnati da un'aura di raffinatezza quasi irreale. 
Ricordate la sceneggiata di Dida al Celtic Park? Riguardando quelle immagini a distanza di anni e nella cornice drammatica e commovente di quello stadio e di quei tifosi viene quasi da pensare che sia una scena di un film o di uno spettacolo teatrale e che la figura di quel portiere, che prima era diventato il portiere più forte al mondo e poi era tornato a commettere errori su errori con la stessa velocità (altissima) e con la stessa consapevolezza (nulla), diventa meno pesante. Nonostante il senso tragico del dramma che sta vivendo il personaggio Dida, il Celtic Park riesce a fargli mantenere una dignità residua che lo accompagna nonostante la comicità della sua azione.




Come se il Celtic e tutto quello che gira intorno a questa leggendaria squadra non avessero confini precisi e lineari ma invece quelle righe bianche e verdi riuscissero a inondare emozionalmente ed emotivamente tutto quello che trovano sulla propria strada circondandolo di un alone magico. Il Celtic riesce ad essere sempre il Celtic, riesce a rimanere fedele a quello che è e a quello che rappresenta. Anche il suo calcio. in un certo senso, rimane ancorato alle tradizioni e in alcuni aspetti è ancora molto simile a quel "calcio totale olandese ma a velocità doppia" proposto da Jock Stein e che stregò l'Europa e annichilì la Grande Inter, quel calcio che sfugge dai margini di quelle foto "seppiate" datate 1967 e arriva fino ad oggi attraverso gli occhi di chi c'era o attraverso le orecchie di chi ha sentito i racconti sui Leoni di Lisbona e che guardando il Celtic sfidare l'Inter sarà percorso un brivido lungo la schiena. Un brivido piccolo come Jimmy Johnstone, leggero come i suoi movimenti ma meraviglioso come i suoi dribbling.