lunedì 11 gennaio 2016

Il calcio che non c'è più: Àlvaro Recoba

Una presenza (e un'assenza) costante nelle esperienze in nerazzurro di Hector Cuper e Roberto Mancini, un perenne odi et amo in salsa uruguaya...

di Nicolò Vallone







31 agosto 1997. Una data che ci riporta al cuore del primo articolo di questa rubrica, e dalla quale ripartiamo per la seguente storia. Ricordate? A San Siro andava in scena Inter-Brescia, che costituì l'esordio in Serie A di Ronaldo, ma a sbloccare la gara fu un altro giocatore che faceva il suo ingresso nel nostro massimo campionato: Dario Hübner, il cui gol venne però ribaltato dai nerazzurri che vinsero 2-1. Quello che pochi ricorderanno è che le due reti interiste furono realizzate dallo stesso giocatore, e non si trattava dell'attesissimo Fenomeno brasiliano, né di un elemento già affermato dell'organico della Beneamata. In uno strabiliante intreccio di destini calcistici, a firmare quella doppietta fu infatti un altro esordiente assoluto, destinato a rafforzare il velo di romanticismo che ammanta il calcio a cavallo tra anni 90 e 2000: un nuovo acquisto gettato nella mischia da mister Simoni a 20 minuti dalla fine, un 21enne venuto dall'Uruguay, un ragazzotto con un aspetto vagamente orientale che gli era valso in patria il soprannome El Chino ("il cinese"), un fantasista mancino per cui il prodigo presidente Moratti avrebbe fatto follie. In breve, Àlvaro Recoba.

A partire da 1:59, ecco come Recoba si presentò al pubblico italiano: due tiri di sinistro tesi, potenti, precisi, telecomandati!

7 miliardi. Questa la cifra sborsata dall'FC Internazionale quell'estate per portare Recoba in Italia. Una cifra non galattica ma sostanziosa quanto basta per dare un chiaro messaggio: su questo giocatore si può puntare. A parlare per lui, le 28 reti in 67 incontri ufficiali disputati in patria nelle prime 4 stagioni da professionista, spalmate tra Danubio (squadra che lo aveva scoperto in tenera età grazie all'occhio eccezionale di Rafael Perrone, suo futuro suocero nonché talent scout che di lì a poco avrebbe lanciato un certo Chevanton) e Nacional de Montevideo. E non solo: 10 presenze già all'attivo in Nazionale, con tanto di sombrero rifilato allo spagnolo Hierro nell'amichevole in cui, appena 19enne, aveva esordito con la Celeste. Con la maglia del Nacional, invece, all'inizio di quel 1997 El Chino aveva segnato, in un match di campionato contro il Wanderers, il gol più bello della sua carriera, ipse dixit: partenza dalla propria metà campo, percussione in dribbling tra cambi di passo e finte di corpo, 5 uomini saltati compreso il portiere. Un'esecuzione così maradoniana non poteva non indurre la spendacciona Inter dell'epoca ad accaparrarselo a tutti i costi. Fu cosi, dunque, che in quel pomeriggio meneghino seguente alla morte di Lady D la Serie A diede il benvenuto non solo all'acclamato Ronaldo e all'outsider Hübner, ma anche al giovane talento con un accenno di occhi a mandorla e il numero 20 sulla schiena.

I difensori uruguaiani non erano certo impenetrabili, ma certe movenze di quel numero 10 mancino ricordavano quelle di un altro diez sudamericano...

Già, il 20; il doppio di 10, perché valeva il doppio di 10, Moratti dixit. E in effetti di maradoniano non pareva avere solo lo splendido gol in Nacional-Wanderers, ma anche il tiro di sinistro. Alle bordate ribalta-Brescia, infatti, fece seguito a gennaio una perla sul campo dell'Empoli che permise all'Inter di uscire dal Castellani con 1 punto dopo l'iniziale vantaggio empolese: 50 metri dalla porta, vento a favore, Roccati fatalmente stazionante all'altezza del dischetto del rigore, e via con la precisa e beffarda traiettoria a lunga gittata, scavata praticamente da fermo, col busto calcolatamente all'indietro e il giusto movimento "a pendolo" del piede sinistro, secco ma non rigido, come quando i Pirlo e i Beckham lanciavano in profondità i loro centravanti dalla propria metà campo con la naturalezza di un passaggio corto. Impossibile evitare il parallelo con la parabola disegnata dal Pibe de Oro contro il Verona circa 12 anni prima, rimasta una pietra miliare della storia del Napoli e del nostro campionato. Con Recoba ci si trovava davanti a un giocatore la cui caratteristica peculiare era la capacità di battere a rete col mancino in qualunque modo e da ogni posizione, grazie a un dosaggio pantocratico della potenza e della precisione, della pesantezza e della morbidezza: una dote ricevuta in dono da Madre Natura e forgiata da ragazzino allenandosi a calciare la palla medica.

Al 3:09 la perla da distanza siderale entrata nell'immaginario dei tifosi interisti e non.

La prima annata in nerazzurro si concluse con la vittoria della Coppa UEFA nella memorabile finale contro la Lazio e un totale di 19 presenze e 5 gol tra Europa, Serie A e Coppa Italia. Ma se per il presidente, parafrasando la celebre affermazione di Gianni Agnelli su Sivori, Recoba era un vizio (e come quasi tutti i vizi, assai dispendioso, come vedremo più avanti), per chi guidava dalla panchina non poteva valere lo stesso discorso, tanto più che i soldi incassati per il successo continentale vennero investiti per comprare Roberto Baggio: la prima parte della stagione 1998-99, a metà tra le gestioni Simoni e Lucescu, vide scendere in campo El Chino solo 4 volte. Del resto, l'Inter di Ronaldo, Zamorano, Djorkaeff e ora anche del Divin Codino non poteva concedere troppo spazio a quel tipico mancino sudamericano, ancora un po' acerbo e soprattutto di difficile collocazione tattica. Se infatti da un lato si era potuto toccare con mano il pezzo forte del suo repertorio, il micidiale sinistro "a più marce", dall'altro risultava palese la sua allergia ai congegni tattici. Trequartista, seconda punta, ala? Era un anarchico del fronte offensivo, che in un qualsiasi punto del campo poteva esprimere le sue meraviglie tecniche. Ma per il calcio italiano ciò non poteva bastare. Per offrirgli la titolarità di cui aveva bisogno per abituarsi realmente al futbol nostrano e compiere il definitivo salto di qualità, a gennaio la dirigenza interista lo mandò in prestito al Venezia, in zona retrocessione. La risposta dell'uruguaiano fu la migliore possibile: 11 gol, tra i quali una tripletta contro la Fiorentina, e una caterva di assist per Pippo Maniero, giocando da esterno a piede invertito nello scacchiere di mister Novellino. Che fosse questa la chiave dell'esplosione veneta? Era pronto finalmente a prendere le redini dell'attacco di un team ambizioso?

Un breviario su come El Chino abbia salvato il Venezia nel 1999. Quando posizionava il pallone per battere una punizione, era una sentenza.

L'assenza di pressioni. Ecco la chiave. Nella sua carriera Recoba sarebbe stato provato in tutti i ruoli là davanti. Ma la verità è sempre stata una: il suo carattere gli impediva di allenarsi adeguatamente sotto il profilo tecnico-tattico e psicologico. Pigro e romantico, sua moglie dixit. Un giocatore del genere non si prende la briga di forzare i propri schemi mentali per migliorarsi. Un giocatore del genere non mantiene livelli d'attenzione costanti durante tutto l'anno e non sopporta la pressione di giocare titolare in una grande. Un giocatore del genere non può mai occupare stabilmente le file di un'armata che lotta per vincere in uno dei campionati più competitivi al mondo. Un giocatore del genere tira fuori una magia delle sue quando nemmeno lui stesso se lo aspetta, o magari se ne esce con un'insospettabile progressione palla al piede quando nessuno se lo aspetta, e ha bisogno di tanto tempo e tante possibilità per mostrare il suo repertorio. L'importante è che le sue prestazioni non siano mai vincolate a obiettivi e dettami, ma possano dipendere soltanto dalle circonvoluzioni della sua vena artistico-calcistica. Le sue performance non si chiedono prima, si accolgono con meraviglia quando arrivano. Ecco perché fece benissimo nel Venezia e non avrebbe mai convinto appieno all'Inter. Ed ecco anche perché non avrebbe mai stretto forti legami con l'ambiente della Celeste, pur togliendosi la soddisfazione nel 2002 di disputare e segnare una rete in un Mondiale (il suo Uruguay fu eliminato alla fase a gironi, arrivando davanti alla decaduta Francia ma dietro al sorprendente Senegal e alla solida Danimarca): "pigro e romantico" com'era, finiva per stridere con la Nazionale della famigerata garra charrua.

In Nazionale, Recoba impressionò soprattutto nella prima parte della sua carriera: ecco alcune delle giocate più apprezzabili.

Ma se "un giocatore del genere" è poco adatto a occupare un posto di rilievo in un top club, soprattutto in un calcio che ha continuato ad evolversi nella direzione dell'aumento degli standard atletici e tattici, è pur vero che in una squadra prestigiosa è riuscito a starci fino al 2007: dal ritorno dall'esperienza veneta nell'estate '99, El Chino ha militato nell'Inter per altri 8 anni. Come questo sia possibile, lo si è già accennato: Massimo Moratti era calcisticamente innamorato di lui, tanto da renderlo per un momento il calciatore più pagato al mondo. Proprio così. La stagione 1999-2000 aveva visto l'ormai 24enne uruguaiano andare per la prima in doppia cifra in campionato con la maglia dell'Inter, e l'inizio della 2000-2001, nonostante un decisivo rigore sbagliato contro l'Helsingborg nei Preliminari di Champions League, pareva confermare il trend positivo. Tanto bastò al suo procuratore Paco Casal (per intenderci, lo stesso che pochi anni prima era riuscito a piazzare al Real Madrid un bidone di nome Magallanes) per convincere il presidente nerazzurro ad accettare di rinnovare il contratto al proprio pupillo per una cifra complessiva di 100 miliardi di vecchie lire: era il periodo di Natale dell'anno del Giubileo quando l'FC Internazionale e Àlvaro Recoba stipularono quest'accordo da 15 miliardi annui di stipendio per 6 anni, più l'acquisto immediato a 10 miliardi di Antonio Pacheco, altro assistito di Casal, un "talento" del Peñarol coetaneo e amico di Recoba che con l'Inter avrebbe totalizzato appena 2 presenze prima di intraprendere un breve pellegrinaggio in Spagna con successivo ritorno in patria...

Ecco l'uomo più potente del calcio uruguaiano, nonché uno degli individui più ricchi del suo Paese, colui che portò nel nostro campionato Recoba e Pacheco, ma anche Francescoli, Ruben Sosa, Fonseca, O'Neill, Chevanton, Carini, Diego Lopez (quello del Cagliari) e tanti altri.

Nelle intenzioni e nelle previsioni degli interessati, questo faraonico rinnovo sarebbe stato il suggello di un sodalizio e la premessa per una consacrazione definitiva la cui beneficiaria sarebbe stata la squadra milanese. In realtà, fu l'inizio di una seconda parte di carriera sempre meno felice per Recoba, segnata da una spada di Damocle chiamata discontinuità. Discontinuità una e trina. Tre infatti ne furono i tratti peculiari: alla già ampiamente discussa "romantica pigrizia" vanno aggiunti gli infortuni e il coinvolgimento nello scandalo passaporti del 2001. Quest'ultimo, un neo tanto antiestetico quanto innegabile nella vita calcistica del fantasista uruguaiano, pose un freno fatale alla sua parabola: la bufera mediatica prima, la (blanda, a dire il vero) squalifica di 6 mesi poi, gli preclusero irrimediabilmente la continuità di cui necessitava uno come lui per guadagnarsi il posto da titolare che il suo piede sinistro e il suo ingaggio reclamavano. Da lì in poi, El Chino fluttuò in quella condizione trascendente di giocatore borderline che ne è diventata la caratteristica da tutti oggi ricordata, quella di un bombardiere-giocoliere capace di incantare una tantum le folle e di scomparire tantum dai radar: il tocco di magia che si apprezza in quanto perla rara, il concentrato di sorniona maestria sudamericana che il calcio europeo mette agli argini, ma di cui al contempo necessita una volta ogni tanto per ricordarsi la propria mistica essenza. Rassegnati e assuefatti a tale status quo, i tifosi nerazzurri impararono ben presto a tollerare a denti stretti quel talento mai del tutto esploso, sapendo apprezzare come tanto di guadagnato i bei momenti che sapeva regalare. Come in un Empoli-Inter 3-4, stagione 2002-03: stesso stadio e stesso avversario di 4 anni e 10 mesi prima, un portiere diverso (non più Roccati ma Berti), distanza più tradizionale (non più 50 metri ma 30), posizione centrale, difesa tardiva nella chiusura, colta di sorpresa da uno dei consueti posizionamenti anticonvenzionali del numero 20 interista, e sinistro a dir poco perfetto, un dosaggio magistrale di coordinazione, precisione e potenza, che termina la sua traiettoria nell'angolino. Simile mix di potenza e precisione, simile lancio e rilascio della gamba mancina, ma pathos decisamente maggiore troviamo invece nel gol del 3-2 in Inter-Sampdoria 2004-05, definitivo compimento di una rimonta da 0-2 negli ultimi 6 minuti di partita che alimentò il mito della Pazza Inter: assalto in pura trance agonistica, palla a spiovere fuori area, Stankovic appoggia all'indietro con un intelligente ed impercettibile tocco appena fuori area, Recoba in una frazione di secondo si coordina da par suo ed estrae dal cilindro non una parabola d'interno-collo come suo solito bensì una rasoiata d'esterno, come la posizione sua, dei difensori e del portiere richiede. Ma ci sono altri brividi nella storia recobiana all'ombra della Madonnina, in particolare quei calci di punizione che sfidavano le leggi della fisica classica; o quelle rare volte in cui si ricordava che, oltre a calciare da distanza siderale, nel gioco del calcio è lecito anche accompagnare quella palla in dribbling e saltare qualche uomo per arrivare a concludere a rete a tu per tu col portiere. Specie se hai qualità. E lui, in un modo o nell'altro, ce l'aveva.

Uno scatto che simboleggia l'affetto tra il presidente e il suo pupillo.

Ma la pazienza dei tifosi ha un limite. Specialmente se è una pazienza "a denti stretti". Nella mente degli interisti, una certezza aleggiava durante gli anni di Recoba: se il danno ad inizio millennio era stato fatto, con quell'opulento accordo contrattuale, restava da godersi gli sprazzi magici offerti dal giocatore, in attesa della fine del contratto per poterlo salutare una volta per tutte. Tale pensiero era scontato per tutti, meno che per una persona. Si tratta ovviamente di Massimo Moratti, che nell'estate del 2006 intavolò le trattative per un nuovo rinnovo. Meno dispendioso, certo, ma pur sempre un rinnovo, per un eterno pupillo ormai 30enne che in un settore offensivo occupato dai Vieri, dai Ronaldo, dai Crespo, dai Martins, dai Figo e dagli Adriano aveva quasi sempre agito in seconda battuta, mai preso seriamente in considerazione come leader dell'attacco. La rivolta dei supporter nerazzurri infiammò sul web, ma arrivò subito Calciopoli a placare gli animi, portando con sé un parco giocatori rinnovato a dovere e la sensazione che per l'Inter si sarebbe aperto un ciclo dominante in Serie A. Al contempo, però, questa nuova consapevolezza di essere vincenti fece capire anche ai vertici societari che ormai il fantasista sudamericano dagli occhi a mandorla non poteva più trovare spazio, nemmeno marginalmente. Di quel nuovo ciclo fece dunque parte solo il primo anno, quello senza la Juventus di mezzo, quello del record di punti. Andò a segno in una sola occasione, a campionato ormai ampiamente acquisito, in una delle passerelle casalinghe delle ultime giornate. Per una curiosa coincidenza, l'avversario era l'amatissimo Empoli, la cui porta era stavolta difesa da Bassi. E stavolta la perla fu la più preziosa di sempre: un gol direttamente da calcio d'angolo! Una delle espressioni tecniche e balistiche più appropriate e più incantevoli per un giocatore della sua tipologia. Altrettanto curiosamente, fu una fine e insieme un inizio, poiché inaugurò una serie di gol dalla bandierina (in Sud America ribattezzati olimpici da quando nel 1924 l'argentino Onzari direttamente da corner permise all'Argentina di sconfiggere l'Uruguay campione in carica) che proseguì nella parte finale della sua carriera: tra questo all'Empoli e gli altri che avrebbe realizzato poi in patria, come vedremo, sono in tutto 6 i gol olimpici che il curriculum dell'uruguaiano oggi può vantare. Senza dubbio, quello fu un congedo in grande stile dall'FC Internazionale, con la quale El Chino è arrivato a totalizzare 262 presenze e 72 reti, togliendosi la soddisfazione di portare a casa, oltre alla Coppa UEFA appartenente al secolo precedente e ai due scudetti propiziati da Calciopoli nel suo ultimo anno a Milano, due edizioni della Coppa Italia e altrettante della Supercoppa Italiana. Nella stessa estate del 2007 si congedò pure dalla Nazionale, dopo 68 presenze condite da 10 gol.

Tutti i gol realizzati in Serie A da Recoba dopo il rientro dalla squalifica, durante le gestioni di Cuper e Mancini. Un campionario di tutto quanto scritto su di lui negli ultimi due paragrafi.

Il canto del cigno (anzi, del Chino) in Europa passò attraverso una stagione al Torino, con parecchie presenze ma solo 3 reti all'attivo, e una e mezza in Grecia, al Panionios, dove gli infortuni lo perseguitarono e lo convinsero che, a quasi 34 anni di età, era ora di tornare alle origini, in un contesto che poteva tributargli onori regali senza pretendere la luna, alias la continuità. E le sue origini erano al Danubio. Lì trascorse un anno e mezzo, periodo fondamentale per ritrovarsi protagonista e padrone assoluto dell'amore dei tifosi: le distanze più ampie tra i reparti, un pizzico di anarchia tattica tutto sudamericano, la maggiore lentezza, il minor pressing... tutto questo permetteva a lui di giocare praticamente da fermo e al suo sinistro magico di esprimere tutto il proprio straordinario potenziale più facilmente che dall'altra parte dell'Atlantico, e di certo le pressioni erano minori. Riscopertosi top player, o quantomeno vissuto come tale, decise di rescindere col Danubio per fare l'ultimo salto di qualità, completando la sua "seconda giovinezza" nell'altra squadra in cui aveva militato in Uruguay ad inizio carriera prima di venire in Italia: il prestigioso Nacional. Annata 2011-12, buona la prima: Primera División e Copa Libertadores, le presenze arrivarono addirittura a 30, le reti si fermarono a quota 8 ma due di esse furono decisive per le vittorie dell'Apertura e del Clausura, quindi del campionato. Il primo campionato uruguaiano vinto nella sua lunga e discontinua carriera. Le 3 stagioni successive videro un fisiologico calo graduale delle statistiche, ma l'amore dei tifosi nei confronti del loro numero 20 (numero di cui Recoba si era riappropriato dopo il 4 al Torino, il 9 al Panionios e l'11 al Danubio) venne costantemente infiammato dalle sue perle, ormai quasi esclusivamente da calcio piazzato. E non solo calci di punizione, come già accennato: 22 settembre 2012 contro il Fenix in campionato, 20 ottobre 2012 contro il Liverpool Montevideo in campionato, 3 febbraio 2013 contro l'Argentinos Juniors in amichevole, 27 settembre 2014 contro il Wanderers in campionato, 20 gennaio 2015 contro il Deportivo Luqueño in amichevole; questi i 5 gol olìmpici che hanno insindacabilmente consacrato questo giocatore come divinità del fùtbol uruguayo.

I 5 gol olìmpici made in Nacional, che si aggiungono al primo della serie, ovvero l'ultimo gol segnato con la maglia dell'Inter (vedi secondi finali del video precedente). Facciamo un gioco: riusciamo a individuare ed elencare tutti gli epiteti celebrativi riservati dai vari telecronisti?

Ma la degna fine di una leggenda non può limitarsi a una serie di firme d'autore disseminate negli ultimi anni di carriera. Ci vuole qualcosa di veramente importante, qualcosa come... un altro campionato. Stagione 2014-15, la quarta al Nacional. A distanza di 3 anni dal precedente titolo, la squadra torna a girare come si deve e battaglia contro gli acerrimi rivali del Peñarol. Il primato nel torneo Apertura è propiziato dalla vittoria nel Superclásico: punteggio bloccato sull'1-1, punizione per il Nacional al 94' da una trentina di metri, El Chino si incarica della battuta e disegna una straordinaria linea arcuata che gonfia dolcemente la rete. Per quella sponda di Montevideo è una gioia immensa, per lui è un autentico trionfo: il presidente del club propone di erigergli una statua accanto a quella del grande tanguero Gardel, il giovane Gaston Pereiro (oggi al PSV Eindhoven) si tatua il suo volto sul braccio destro. Come se Giaccherini si fosse tatuato Del Piero dopo la punizione con la Lazio che propiziò il primo scudetto di Conte... E il Clausura come si conclude? Con una finale "superclásica": è ancora il Nacional a prevalere, questa volta per 3-2 ai supplementari. A giustiziare il Peñarol è un'incornata di Santiago Romero su calcio d'angolo battuto proprio da Recoba. E poco importa se pochi minuti dopo proprio lui si fa parare il rigore del possibile 4-2, quasi a ricordare a tutti quale sia stata la cifra sintetica della sua carriera mai sbocciata come avrebbe potuto. Per Àlvaro Recoba questa partita costituisce il ritiro del vincitore. È il Campione che, a 39 anni suonati, sceglie di appendere gli scarpini al chiodo e chiudere la sua esperienza di calciatore da romantico dominatore dei sentimenti popolari. Da Montevideo con pigrizia.

Àlvaro Recoba è stato a suo modo una leggenda: per ricordarlo come merita, ecco il suo ultimo trionfo: la mitica punizione in zona Cesarini nel Superclásico dello scorso torneo Apertura.

In concomitanza con l'annuncio ufficiale del suo addio al calcio, a giugno di quest'anno, il Nacional ha proposto all'Inter di organizzare un'amichevole in suo onore nel mitico stadio Centenario, sede delle partite della Nazionale uruguaiana e dei match più importanti di Nacional e Peñarol. Stiamo ancora aspettando.


Articolo a cura di Nicolò Vallone



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