venerdì 27 novembre 2015

Lewis Hamilton: un campione sottovalutato

Veloce quanto discusso: Lewis Hamilton è uno dei simboli della Formula Uno odierna.

di Samuele Prosino






 
C'è qualcosa di magico che aleggia attorno ai pluricampioni della F1. I loro nomi rimangono scolpiti nell'immaginario collettivo come se fossero dei faraoni, adorati dai tifosi come santini del proprio credo motoristico. Il miglior esempio è, ovviamente, Senna. Su di lui milioni di parole sono state pronunciate e scritte, prima del successo, durante le vittorie, dopo la morte. Chi lo ha vissuto celebra i momenti passati in circuito, ad ammirarne le incredibili doti; chi ne ha sentito parlare va su Youtube a gustarsi scodate, giri veloci e sorpassi, capendo con sapore postumo ciò che aveva rappresentato.

Come Senna, il più magico per antonomasia, anche gli altri grandi portano nella loro scia racconti che nessuno sembra negare. Fangio fu l'eroe capace di staccare gli avversari per sfinimento; Brabham fece scacco matto alle vetture a motore anteriore cancellandole per sempre dalla storia della Formula 1; Clark diede una nuova definizione al concetto di velocità pura.

E poi: Lauda introdusse il concetto di perfezionismo; Stewart incarnò lo spirito del coraggio in un'epoca di tragedie e di imprese epiche; Piquet fu il signore dell'opportunismo, in cerca dell'agguato migliore; Prost mise a frutto la sua grande intelligenza tattica talvolta trasferendola sul piano politico – ne furono testimoni Balestre e Senna, ricordate? E ancora: il più titolato di tutti, Michael Schumacher, simbolo della pianificazione, con le sue squadre pronte a dare tutto per il suo dominio, e lui fisicamente e tatticamente pronto per ogni confronto; Sebastian Vettel, l'ex giovane prodigio e primo paladino arrivato dagli Junior Team, maestro del ritmo gara e degno successore del Kaiser di Kerpen in quanto a concentrazione e aggressività.

A parte Vettel, tutti i piloti citati sono già stati santificati nell'Olimpo del Motorsport. L'attuale numero 5 della Ferrari è una proposta recente, che ancora deve scrollarsi di dosso anni di ingiuste accuse verso il destriero che lo accompagnava, quella Red Bull di Adrian Newey capace di ammaestrare e rendere armoniosa ogni curva del Mondiale.

Ora, con il terzo titolo conquistato – in anticipo, ad Austin – anche Lewis Hamilton avrà il diritto di entrare nella cerchia degli insuperabili. Hamilton, oltre ad avere – come Vettel – alcune caratteristiche riscontrabili anche negli altri plurititolati colleghi, possiede una dote personale molto forte: la grinta allo stato puro. Raramente si sono visti piloti di Formula 1 aggredire la corsa come Lewis. Il suo istinto è famelico e la voglia di diventare il più grande lo porta a mostrare gli artigli ai record del suo idolo incontrastato Ayrton Senna. Tutte quelle pole position non sono un vezzo qualunque e, segretamente, Lewis vuole raggiungere il mito.

Una foto pubblicata da Lewis Hamilton (@lewishamilton) in data:


Purtroppo la grandezza del pilota inglese di origini caraibiche non è universalmente riconosciuta. In Italia, ad esempio, pochi si rendono conto di quanto il talento di Hamilton sia assolutamente straordinario. Sostanzialmente per due motivi.

Il primo, più relativo alle vicende sportive, riguarda la sua lontananza verso la Ferrari. Da quando è approdato in F1, nel 2007, Hamilton è sempre stato un avversario della Rossa. A differenza di Vettel, Lewis non ha mai manifestato il desiderio di approdare a Maranello, venendo per altro ricambiato con la stessa indifferente moneta. Inoltre il suo dominio a bordo della Mercedes viene salutato – come spesso accade – come un successo più di vettura che di pilota. Dimenticando però che esiste anche un compagno di squadra da battere, cioè il veloce ma impreciso Nico Rosberg.

Il secondo motivo è – mi duole dirlo in questo modo così terra terra – il razzismo. Hamilton è di origini caraibiche e questo ha sempre generato tra la bassa marea di ferraristi (intendiamoci, non tutti) un sentimento velatamente xenofobo. Un problema, questo, condiviso anche con gli spagnoli – vedasi alcuni Alonsisti rimasti scottati dal 2007 – che gli riservarono bordate di fischi e di striscioni accusatori durante i primi anni di carriera.

Un altro razzismo di stampo globale, stavolta riguardante la sfera comportamentale, viene tirato fuori tutte le volte che Lewis svolge attività ludiche di diverso genere. Viene definito “tamarro” e “festaiolo”, ma la sua vita privata non sembra abbia nulla di particolarmente differente rispetto alle vite dei suoi coetanei. La sua esposizione mediatica dimostra più che altro che la personalità di Lewis è unica nel suo genere, e quindi da apprezzare in un'epoca storica nella quale esperti e commentatori lamentano una mancanza di personaggi.



Lewis Hamilton – come pilota

La grandezza di Hamilton non è nei titoli conquistati con la Mercedes, anche se le cifre sembrano dimostrarlo. Lewis è stato rivalutato da molti critici soprattutto per alcune gare disputate quando non aveva la vettura migliore. Il termine “campione” viene scomodato non solo quando qualcuno vince una coppa, ma anche quando vengono mostrate delle stupefacenti doti in assenza della vittoria finale.



Una foto pubblicata da Lewis Hamilton (@lewishamilton) in data:


Cominciamo con la comparazione rispetto ai suoi compagni di squadra. Hamilton, avendo corso per due scuderie blasonate, ha avuto in casa propria delle ottime pietre di paragone. Il dato che salta all'occhio è che Lewis ha praticamente sempre vinto il confronto interno.

Solo nel 2011 Hamilton ha concluso la stagione da numero 2, per via della maggior presenza sul podio di Jenson Button. Anche se, a guardare bene, i due alfieri della Mclaren dell'epoca si equivalsero per tutta la stagione. Oltre allo stesso Button, Hamilton ha messo alle sue spalle Alonso, Kovalainen e Rosberg – tutti piloti con un discreto pedigree.

Alonso – con due titoli all'attivo – è il pilota più vincente con il quale Hamilton si è misurato. Nel 2007, anno più travagliato della storia della Mclaren per via della Spy Story, i due piloti si beccarono per tutta la stagione arrivando anche a ostacolarsi direttamente ai box e in pista. Persero poi entrambi il mondiale per un soffio, grazie all'impresa finale a Interlagos di Kimi Raikkonen. Aver battuto Alonso, reduce da due mondiali conquistati con la Renault, con la qualifica di rookie rese Hamilton orgoglioso del proprio debutto e ancora più convinto dei propri mezzi. Infatti l'anno dopo vinse il titolo, seppur in un finale da infarto con il celebre sorpasso a Glock e la festa bruscamente interrotta al box Ferrari, svegliati dal sogno del Mondiale con Felipe Massa.


   

Lewis Hamilton, nonostante non abbia talvolta guidato delle auto di primissima fascia, ha ogni anno conquistato almeno una vittoria. Nel 2013, ad esempio, ha trionfato in Ungheria – oltre ad aver siglato cinque pole position. A quell'epoca la Mercedes era ancora una “bella di sabato”, cioè efficientissima nel giro secco ma tremendamente incostante nel passo gara. Rosberg quell'anno vinse una gara in più ma concluse comunque dietro in classifica, mentre Lewis metteva in pratica un difficile processo di distaccamento dalla mamma Mclaren, lasciata a fine 2012 per cercare una nuova competitività e un nuovo ambiente.

   

Che dire, invece, del 2009? Dopo una prima parte di stagione incredibilmente deludente, con la Mclaren completamente azzoppata dai nuovi regolamenti, Hamilton tirò fuori dal cilindro due prestazioni monstre in Ungheria e a Singapore. Gare guidate in testa praticamente dall'inizio alla fine, a dimostrazione della presenza di spirito in un campionato dove sarebbe stato facile perdere la motivazione. La motivazione è infatti una componente fondamentale per Lewis Hamilton. 

Anche senza essere in lizza per il Mondiale, il pilota inglese vuole sempre dare spettacolo e migliorare le proprie statistiche. Ma l'incantesimo non sempre riesce, e allora ecco uscire allo scoperto un difetto purtroppo comune tra chi punta solo alla vittoria e quasi mai si mette a fare i calcoli: l'insoddisfazione verso “il piazzamento”. Hamilton diventa famelico quando sente l'odore del primo posto, ma se invece si ritrova a combattere per un 4° o per un 7° allora gli manca il colpo da knockout. 

A volte questa famelicità lo ha portato a compiere degli errori clamorosi, come nel caso del ritiro in Cina nel 2007: per guadagnare un decimo o due in corsia box, gli fece perdere il mondiale; mentre invece il crash di Monza 2009 arrivò dopo un velleitario tentativo di rimonta verso il secondo posto.

   

Nel corso della carriera Hamilton ha dovuto combattere contro una credenza popolare fastidiosa che gli attribuiva una certa mancanza di rispetto verso la parte meccanica delle monoposto da lui guidate. A inizio carriera la gestione delle gomme era un punto a rischio nelle sue performance, visto il suo stile di guida tutto all'attacco. Con il passare degli anni Hamilton ha dimostrato ampiamente di saper gestire gli pneumatici, risultando anche meno falloso su altre componenti come freni e cambio. 

Le bloccate sull'anteriore in inserimento curva sono diminuite rispetto agli anni in Mclaren, da un lato per la maggior esperienza, dall'altro per le straordinarie qualità della Mercedes. Sull'aggressività di Hamilton rispetto a compagni di squadra e avversari sono state scritte molte pagine di analisi. Anche nel 2015 ha talvolta mostrato i muscoli verso Nico Rosberg, costringendolo ad alzare il piede anche con un ampio vantaggio in classifica (gli episodi di Suzuka e di Austin sono i più lampanti). 


Quest'arma è di natura psicologica e tanti campioni – di tutti gli sport – l'hanno utilizzata in passato per imporre la propria supremazia. Come le grandi star introdotte a inizio articolo, anche Hamilton è molto bravo a trovare l'occasione per i sorpassi e dannatamente coriaceo nel cercare di evitarli.

   


Non va dimenticato, in conclusione, che i colleghi lo hanno sempre considerato un talento assolutamente cristallino, con il rispetto guadagnato non solo con le vittorie ma anche con una crescita sostanziale dal punto di vista della correttezza in pista. 


 Lewis Hamilton – come personaggio

Cominciamo con questo: se chiedessimo a un matematico di conteggiare il numero di separazioni e di ricongiungimenti con Nicole Scherzinger, probabilmente andrebbe fuori di testa. La vita fuori dalle piste, per Lewis Hamilton, è sempre stata borderline.

Tralasciando gli anni in F3 e GP2 e il primo anno in Mclaren, nei quali fecero più notizia i risultati in pista, con una dimostrazione di professionalità e di aziendalismo impeccabili, Hamilton ha sempre regalato titoli ai giornali. Il suo primo contratto con Mclaren arrivò nel 1998, tre anni dopo il suo approccio un po' sbruffone a Ron Dennis.

Chissà cosa pensò per davvero il burbero Ron quando vide questo ragazzino di appena dieci anni capace di dirgli con sicurezza “che un giorno avrebbe voluto correre per lui”. La storia dice che furono piuttosto le ripetute vittorie nei kart a convincere il patron della Mclaren a tenerlo in considerazione, istituendo per lui un percorso formativo continuo e paziente. Certamente Lewis fu spinto in questa direzione anche dall'ambizioso papà Anthony, suo manager fino ai flirt del figlio con il mondo della musica e dell'intrattenimento (vedasi Simon Fuller).


Verso la fine del 2007 Lewis Hamilton cominciò a uscire con l'allora cantante delle Pussycat Dolls Nicole Scherzinger. Nicole diventò immediatamente una delle presenze extra-sportive più inquadrate della F1. Sembrava la coppia perfetta: Lewis grande protagonista in pista e Nicole in ascesa nel mondo della musica. A ogni sorpasso in pista si vedevano salti, applausi, vere e proprie manifestazioni di gioia. Un amore vero, insomma.


Poi, però, qualcosa si ruppe. Una vita troppo in viaggio per entrambi, la mancanza di una stabilità caratteriale per due persone diventate star davvero presto in relazione all'età, la pressione mediatica crescente: queste le motivazioni ufficiali per la rottura definitiva, a febbraio del 2015. Noi non sapremo mai come è andata veramente. Sembra che sia stata Nicole a rimanerci più male, mentre Lewis inaugurava uno stile di vita nuovo e più simile a quello di certi piloti anni '70. Unico punto fermo della sua vita, forse, è il suo cane Roscoe, fedele compagno di avventure sguinzagliato ai quattro venti sui social network..


Il 2015 di Lewis è stato da questo punto di vista mediaticamente espostissimo. Prima i flirt con Rihanna, poi le foto al Carnevale e infine qualche goliardata come lo scatto insieme alle ragazze del podio di Sochi. Hamilton attualmente incarna la figura del pilota d'altri tempi, ricco e circondato da donne bellissime, costantemente consapevole di far parte di un circolo esclusivo nel quale le due attività principali sono correre e divertirsi.

Non siamo ai livelli di James Hunt, ma se Hunt fosse stato un suo collega in questi anni avrebbero certamente condiviso il palcoscenico come due pavoni in cerca di altra fortuna.


Come ha sostenuto l'organizzatore del GP di Austin, Bobby Epstein, Hamilton è il prototipo del personaggio che fa la fortuna del suo sport. Con le sue imprese in pista da assoluto vincente e con il suo comportamento fuori dalla pista, un po' eccentrico – ricordiamoci le catenone d'oro! - rispetto al resto della ciurma della F1,

Hamilton diventa il maggior esponente dell'immagine del Circus soprattutto in Paesi come gli Stati Uniti, dove è fondamentale creare dei personaggi per mantenere vivo l'interesse. “Un ragazzo straordinariamente spendibile sul piano del marketing” è la frase di Epstein più significativa, e di certo Lewis lo sa.



Articolo a cura di Samuele Prosino

lunedì 23 novembre 2015

Rivoluzionario cercasi

Re Marcel Hirscher è sul trono di campione del mondo da quattro anni consecutivi. Qualcuno riuscirà a spodestarlo?

di Gianluca Pizzutelli






La nuova stagione di Coppa del Mondo è iniziata da appena una gara, eppure non si può scacciare quella sensazione di consapevolezza che andrà a finire come negli ultimi 4 anni. Con un uomo solo al comando, austriaco, agile, forte, tenace: Marcel Hirscher. Il suo dominio compie una parabola che ancora non ha visto il suo punto discendente, quindi neanche il suo apice. Non sappiamo dove possa arrivare Hirscher, sappiamo solo che ha già stabilito il record di Coppe del Mondo generali consecutive vinte, il più solido e duraturo dominio sportivo mai visto nella storia dello sci alpino maschile (nel femminile una signorina di nome Annemarie Moser-Proll ne ha vinte ben cinque consecutive). Si trova ad una sola Coppa del Mondo dal diventare, col lussemburghese Marc Girardelli, il più vincente di sempre. In termini di singole vittorie in Coppa del Mondo la strada da compiere è ancora lunga: l’anno scorso è entrato nel club esclusivo degli sciatori che hanno superato le 30 vittorie in Coppa, 8 membri, di cui lui è l’ottavo ed ultimo entrato. Se scalare posizioni nell’immediato dovrebbe essere alla sua portata, poiché Bode Miller è a quota 33 e Raich 36, mentre Hirscher si attesta a 31, sarà molto difficile raggiungere il podio, dove c’è il nostro Alberto Tomba terzo con 50 vittorie, Hermann Maier a 56, e l’irraggiungibile Ingemar Stenmark a ottantasei.

Marcel potenzialmente ha le carte in regola per fare della propria carriera un lungo e florido impero. Un regime totalitario perfetto dove atleti e pubblico non possono non adorare la sua persona. Ogni inizio stagione ha lo stesso sapore delle elezioni politiche del regime. C’è speranza che qualcosa cambi,ma alla fine al potere resta sempre la stessa persona, più salda, più consapevole. Guy Fawkes cercasi.


Gli eroi di Telemark
1942, Rjukan, cittadina del distretto di Telemark. Questa è la regione dove i pionieri dello sci si sfidavano nelle primissime gare: il vincitore era colui il quale faceva cadere meno birra dal boccale che i concorrenti dovevano tenere in mano lungo una ripida discesa. Nel ’42, come il resto della Norvegia, era occupata dai nazisti, che avevano trovato a Rjukan una risorsa insperata. Una fabbrica situata in un luogo impervio che produceva acqua pesante, ingrediente indispensabile per produrre una bomba atomica. Le forze alleate, in allarme, stavano addestrando clandestinamente in Inghilterra, dove si trovava anche il governo norvegese in esilio, i giovani volenterosi che si univano alla resistenza, mentre l’altra parte dei norvegesi si mostrò collaborazionista con i tedeschi. Gli inglesi intrapresero un attacco dall’alto alla fabbrica nel tentativo di distruggerla ed impedire ad Hitler di disporre di armi atomiche. L’attacco fu totalmente fallimentare, non arrivarono nemmeno a Rjukan, abbattuti dalla contraerea nazista. Allora Knut Haukelid, norvegese nato in America ma militante del movimento di resistenza Norvegese, ed un manipolo di sabotatori entrarono nella fabbrica, distrussero le scorte e danneggiarono i macchinari. Due anni dopo i tedeschi continuano a resistere e produrre nonostante i bombardamenti (sempre vani) degli alleati. Knut e i suoi furono di nuovo costretti ad intervenire per bloccare il carico di acqua pesante diretto in Germania, insieme al resto della fabbrica che stava per essere smontata e trasferita. Un traghetto avrebbe trasportato il tutto attraversando il lago Tinnsjon, e lasciato il carico su un treno diretto in un luogo segreto in Germania, dove l’impianto sarebbe stato riassemblato. Knut ed un suo fido compagno riuscirono a far saltare in aria il traghetto ed il carico sprofondò nel lago: Hitler non potè ribaltare le sorti della guerra dopo le pesanti sconfitte sul fronte Orientale e la storia si sviluppò come la conosciamo oggi.

Nella lontana terra dei fiordi, in quanto ad azioni sovversive, ci sanno fare. Il manipolo di ragazzi poi conosciuti come “gli eroi di Telemark”, insegna che se c’è qualcuno in grado di intaccare un dominio come quello di Hirscher, probabilmente è un gruppetto di ragazzi norvegesi. Innanzitutto il redivivo Aksel Lund Svindal, 2 volte campione del mondo generale, l’anno scorso fuori dai giochi per riprendersi da un infortunio. Svindal rimane l’uomo di punta di questa nazionale, il più vincente e l’unico ad avere la forma e l’esperienza per dare fastidio al leader. Rispetto ad Hirscher può competere costantemente in 3 discipline (senza contare la combinata, che potrebbe essere terreno fertile per entrambi), una in più dell’austriaco, anche se quest’ultimo ha dimostrato di potersi andare a prendere punti preziosi anche in super-G. Tuttavia contare su Svindal in slalom gigante è una scelta poco oculata, visto che la sua mole imponente e la sua scarsa attitudine alla fluidità lo portano nelle zone basse della classifica. Eppure nel 2007 fu anche in grado di vincere la Coppa di specialità, anche se l’ultima vittoria in gigante risale al 2011. Solo se tornerà ad essere dominante nelle discipline veloci avrà qualche possibilità di arrivare a fine stagione con i giochi ancora aperti.

Svindal campione del mondo a Schladming 2013: quasi goffo e impacciato, ma estremamente efficace.Strano come sia testimonial degli orologi Longines in una campagna pubblicitaria incentrata sull’eleganza.

Durante l’infortunio del bicampione del mondo, Kjetil Jansrud ha continuato a tenere alta la bandiera della croce norvegese. Partito da comprimario, si è rivelato protagonista assoluto, ma non ha mostrato la maturità e costanza necessaria per ambire seriamente al titolo, spegnendosi sul finire della stagione anche a causa del Mondiale di Vail, da cui è uscito con le ossa (metaforicamente) rotte. Kjetil è stato sempre al vertice in discesa e super-G, ma proprio come Svindal, non riesce ad ingranare la marcia giusta anche in slalom gigante dove incontra gli stessi problemi del collega. Va anche detto che da qualche tempo è quasi impossibile arrivare nelle prime posizioni contando prettamente su esperienza, concentrazione e coraggio. Il livello dello slalom gigante si è innalzato ad altezze vertiginose grazie alla battaglia costante tra Ligety ed Hirscher, che ha imposto ad altri atleti di superare i propri limiti unicamente per mantenere i distacchi entro il limite della decenza. E comunque è particolare come la nazionale norvegese si trovi due sciatori dalle caratteristiche così simili, entrambi pretendenti al titolo ed entrambi prigionieri dei propri limiti nelle discipline tecniche, come ampiamente mostrato sul gigante del Rettenbach.

Una mano in questo senso potrebbe darla il classe ’94 Henrik Kristoffersen, forse l’Hirscher del futuro. Specializzato, a differenza dei suoi compagni, nelle discipline tecniche, ha dato non poco filo da torcere in slalom mentre in gigante rincorre il duo di testa come tutti gli altri, anche se piuttosto da vicino (sesto a Soelden, l’anno scorso una vittoria a Meribèl). Kristoffersen costituisce il prototipo dello sciatore moderno, dinamico, potente, in grado di sfruttare le proprie lunghe leve. Quello che gli allenatori mostrano in video agli atleti come esempio. Oltre a poter seguire le orme del grande leader per poi spodestarlo, verosimilmente non quest’anno, può comunque rendergli la vita difficile togliendogli punti e, indirettamente, favorendo i compagni di nazionale.  La Norvegia per ambire al titolo dovrà giocare di squadra e sperare in circostanze contingenti. Knut insegna.


Kristoffersen, tra i pali stretti.


Mr. Gigante
Esclusa qualche miracolosa gara di onesti mestieranti come Weibrecht e Nyman e considerando la scarsa, seppur significativa, frequenza di gare di Bode Miller, lo sci maschile stars and stripes ha un solo nome: Ted Ligety, the man who invented a new way of skiing. Un modo di sciare così efficace e particolare che gli ha fruttato ben cinque titoli di campione del mondo di specialità ed il significativo soprannome di Mr. Gigante. L’americano parte da una base di appoggio piuttosto larga, che gli conferisce grande centralità. Il busto è alto e leggermente chiuso in avanti, di modo da poter adattarsi velocemente alle accelerazioni durante la curva. Questo assetto così stabile gli permette di ricercare un’angolazione in curva al limite della fisica: “il terzo appoggio”, cioè la mano che, oltre agli sci, poggia a terra, è la regola, e a volte sfiora il suolo addirittura col bacino. Tuttavia l’esasperazione di questa caratteristica non è (solo) per fare spettacolo, ma è funzionale alla rivoluzionaria interpretazione che Ted dà della curva. Rispetto a molti atleti che in situazioni difficili tendono a proiettare i piedi in curva ricercando linee molto strette per non perdere quota nelle traiettorie, Ligety non rinuncia mai a prendersi un grande spazio nella prima parte di curva ed a sfruttare tutta la sciancratura dell’attrezzo carvando dall’inizio alla fine. In questo modo passa visibilmente più lontano dai pali dei suoi colleghi, ma ad una velocità maggiore e con più precisione nelle linee.

Mr.Gigante in azione ai Mondiali di Vail 2015

Qualche anno fa, quando furono cambiate le regole sulla struttura degli sci, a detta della FIS, per questioni di sicurezza legate all’eccessiva velocità che gli atleti raggiungevano in gigante, e non invece per tentare di salvaguardare gli interessi delle case produttrici di sci che risentivano della crisi, Ligety fu uno dei primi ad opporsi. Contemporaneamente, però, mostrò agli altri atleti che era possibile continuare a sciare senza cambiare troppo tecnica. Come Prometeo che regalò il fuoco agli uomini secondo la tragedia perduta di Eschilo, Ted indicò la via da seguire. Il discendente dei titani, simbolo occidentale di ribellione, si oppose a Zeus, restituendo il fuoco alle sue creature predilette. Infatti, fu lui a donare agli uomini l’intelligenza e la memoria, buone qualità consegnategli da Atena. Così si attirò le ire di Zeus, che vedeva gli uomini come una minaccia. A quel tempo i mortali erano ammessi al cospetto degli dei e con loro banchettavano e trascorrevano momenti conviviali. Un giorno fu portato un enorme bue e a Prometeo fu affidata la divisione in due parti, una per Zeus ed una per gli uomini: prese tutti i pezzi di carne più buona e li infilò nel pezzo di pelle più brutto dell’animale, mentre le ossa e gli scarti furono avvolti in un lucente strato di grasso, cosicché il dio, ingannato, scegliesse la seconda metà e lasciasse l’altra agli uomini. Così accadde e Zeus, adirato,li punì sottraendo loro il fuoco. Prometeo si intrufolò nell’Olimpo con l’aiuto di Atena e lo recuperò e lo riportò agli uomini. Il dio decise di punire il titano una volta per tutte: lo fece incatenare, nudo, sulla sommità di una montagna, esposto alle intemperie e con una colonna conficcata nel corpo ad impedirgli i movimenti; di giorno un’aquila gli dilaniava il ventre e gli divorava il fegato, di notte questo gli ricresceva affinché il giorno dopo ricominciasse tutto.

Anche Ligety è decaduto dalla sua condizione di titano a causa di una stagione altalenante, il cui unico acuto degno di nota è stata la vittoria ai Mondiali di Vail. La Coppa del Mondo di gigante, però, è andata ad Hirscher e questo avvicendamento è sembrato un po’ un atto di lesa maestà. Come ampiamente dimostrato a Soelden, l’americano è competitivo. Sicuramente è il candidato numero 1 alla Coppa di specialità, ma non basterà per la Coppa generale, trofeo di cui ancora non si è mai potuto fregiare. Ligety gareggia solitamente anche in slalom speciale, in super-G ed in combinata. Nella gara secca può giocarsela con chiunque: nel 2006 vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Torino in combinata, nel 2013 a Schladming vinse sia supercombinata che super-G (oltre al gigante) e a Vail nel 2015 giunge terzo in combinata. Dovrà gareggiare per tutta la stagione su quei livelli anche in queste specialità per spodestare l’austriaco. Non ci è mai riuscito perché limitato da quel suo modo di sciare così particolare, visto che i pali stretti dello slalom speciale imbrigliano le sue abilità e nelle porte distanti del supergigante non riesce sempre a far emergere le sue doti da velocista. Sarà necessario issarsi allo step successivo per sovvertire le gerarchie.


Ted Ligety impegnato in super-G sul suolo italiano, in Val Gardena sulla Saslong.


Tradizione rivoluzionaria
Alexis Pinturault nasce nel 1991 in Savoia, terra francese. I francesi, storicamente, sono un popolo poco avvezzo alla continuità politico-istituzionale. Tanto che la rivoluzione francese del 1789, è chiamata anche prima rivoluzione, per distinguerla dalle altre due del XIX secolo: la rivoluzione di luglio del 1830, che rovesciò Carlo X e la dinastia borbonica per sostituirlo con Luigi Filippo; la terza rivoluzione è quella del 1848 che causerà l’abdicazione di Luigi Filippo attraverso l’insurrezione dei parigini che prendono il controllo della città. Tre grandi rivoluzioni in meno di 60 anni è una buon ritmo. Alexis, invece, vive la sua carriera senza strappi e discontinuità ma come un incessante e regolare progredire. A 18 anni, nel 2009 vince l’oro in slalom gigante ai Mondiali juniores di Garmisch. Nel 2010 centra il primo podio in Coppa Europa e vince il titolo nazionale sempre in gigante. Nel 2011 si aggiudica la prima vittoria nel circuito continentale, un altro oro in gigante ai Mondiali di juniores di Crans-Montana, il primo podio in Coppa del Mondo (un secondo posto, indovinate in quale specialità?) e la Coppa Europa generale, in virtù di cinque vittorie totali e 10 podi. A dispetto della massiccia presenza dello slalom gigante nelle istantanee della sua prima parte di carriera, Pinturault è uno sciatore polivalente come pochi se ne vedono in giro, considerando che l’unica disciplina in cui non ha ancora vinto in Coppa del Mondo è la discesa libera. La federazione francese lo tratta come se fosse un gioiellino e ne ha ben donde, del resto alle Olimpiadi di Sochi 2014 e agli ultimi Mondiali di Vail si è preso anche due bronzi.

La seconda manche della vittoria a Kranjska Gora.

Alexis è uno sciatore moderno, che sfrutta bene l’attrezzo e che cerca di arrotondare le linee quando può. Ha una sciata aggressiva ma più fluida di alcuni altri colleghi. L’agilità è il suo punto di forza, unita all’indipendenza degli arti inferiori che gli permette di adattarsi a qualunque situazione. Ma dal video emerge la sua debolezza: la mancanza di solidità. Sembra sempre che da un momento all’altro possa succedere qualcosa. Un’impressione che può derivare dal fatto che si sta spingendo al limite, ma manca quella sensazione di onnipotenza che trasmettono alcuni grandi campioni. Nonostante questo non esiste un sciatore al momento che possa vantare la sua ecletticità. Sia nel 2015 che nel 2014 ha chiuso la stagione al terzo posto in classifica generale, dietro a Hirscher e ad un norvegese (prima Svindal poi Jansrud). Ha le carte in regola per farcela e se si guarda alla Coppa del Mondo generale, non si può non fare i conti con lui.


Pinturault impegnato sulla Gran Risa, l'Università dello slalom gigante.

Marcel Hirscher ha senza dubbio tanti competitors nelle singole discipline, ma se ce n’è uno reale per la Coppa del Mondo generale tra questi, bisognerà ripassare a febbraio per trovarlo, quando tutti avremo le idee un po’ più chiare ed i ribelli avranno scelto il rivoluzionario che proverà a rovesciare Re Marcel il grande.



Articolo a cura di Gianluca Pizzutelli

venerdì 20 novembre 2015

11 barre

È più veloce Gervinho in campo aperto o Dargen in Tana2000? Ha il flow più cattivo Kaos o Conte in conferenza stampa? Chi è il vero sergente di ferro tra Mihajlovic e Metal Carter? La scena rap italiana applicata alla serie A. O viceversa.

di Emanuele Mongiardo





«Conferenza stampa, signori io mi ritiro, me ne torno nei campetti almeno lì mi divertivo». Potrebbero essere queste le parole scelte da un qualsiasi calciatore sulla soglia del ritiro nauseato dallo sfrenato liberismo, dalle logiche di mercato e dalle brutture del calcio odierno. E invece no, non siamo davanti ad un virgolettato di Javi Poves. Parole e musica, letteralmente, sono opera di Fede, MCee torinese a cavallo del nuovo millennio. Il concetto era il medesimo, traslato però nel sottobosco dell’hip hop italiano. Non è facile definire le vicende della doppia acca di casa nostra, né è possibile affermare se ci sia stata una reale crescita con l’affacciarsi sul mercato mainstream. Da appassionato di quattro quarti e pallone ci pensavo l’altra sera, su quanto la dicotomia Commerciale-Underground con relativi esponenti fosse assimilabile anche alla nostra Serie A e al calcio in generale e in fin dei conti non si tratta proprio di una sinestesia campata per aria. Qualche analogia c’è e forse è più esplicativa di mille altri articoli che potrei scrivere su calciatori, allenatori, schemi e squadre.

«Devi capirlo il valore di un giocatore, tecnica e spessore fanculo il procuratore».

Mi viene in mente Icardi, capocannoniere della scorsa Serie A ed incapace di esprimere il proprio potenziale nell’Inter di quest’anno, in cui ognuno è chiamato a svolgere la propria mansione con una certa applicazione difensiva; il peso dell’attacco della prima Inter di Mancini gravava sulle spalle dell’argentino, oggi, causa manifesta superiorità tecnica, la prima opzione offensiva si chiama Stevan Jovetic. Mi ha ricordato incredibilmente la prestazione al mic di Bassi Maestro in “King’s Supreme”. Bassi fa parte della storia del rap italiano, “Giorni matti” e “Foto di gruppo” danno un paio di piste a qualsiasi piagnisteo di Mecna; tuttavia, in quella sua strofa, sembra quasi a disagio, lui, abituato a sonorità east cost (Rakim gli ha addirittura rubato un beat anni fa) calato su quella base così aggressiva con sfumature dubstep. Il talento c’è, ma attiguo ad un certo contesto. Forse Maurito sarebbe stato un gran puntero in un calcio più lento e “novecentrico” come quello di dieci anni fa, così come Bassi dà il meglio citando Michael Douglas su un tappeto musicale intriso di New York City.

Per la verità quello che spacca di più in questa canzone è Ape. La citazione di “Un giorno di ordinaria follia” resta comunque una perla.

 Mentre Maurito avrebbe più di qualche problema a lasciare l’auto sulla strada ed andarsene come Michael Douglas.

Probabilmente perfetto per ritmi di gioco europei e per un calcio sempre più filtrato da highlights e vines è Paul Pogba, per associazione stilistica il Marracash della Serie A. Marra dal canto suo ha dimostrato di possedere diverse sfaccettature, da quella più narrativa e romantica nella toccante “Bastavano le briciole” e nell’arcinota strofa di “Brivido”, a quella più zarra, spaccona e autocelebrativa (“King del rap”, “Fino a qui tutto bene”), passando per quella da scrutatore della fauna urbana (“Estate in città”, “Non confondermi”, ”Badabum Cha Cha”). Tuttavia ha anche elargito prove abbastanza scialbe o eccessivamente modaiole (“In radio”, “Rivincita”), ma resta in grado di sbaragliare la concorrenza con mine di respiro internazionale come “Peso”. Anche Pogba ha dimostrato di essere un valido incursore e rifinitore, nonché esterno difensivo aggiunto a centrocampo che ha permesso ad Allegri di ben figurare in Champions. Nonostante un inizio di campionato stentato, ci ha regalato perle come l’assist per Lichsteiner contro il Moenchengladbach o ancora il lancio per Mandzukic al “City of Manchester”, oltre ai soliti giochi di prestigio nell’uno contro uno (per la verità non sempre riuscitissimi).

Immaginate una compilation di youtube con le skills di Paul su questa base. Quanto spaccherebbe?!


«Sto così tanto nell’Audi che è come se l’Audi oramai sia il mio ufficio».

Per gusto sperimentativo e influenza sull’ambiente circostante, il Maurizio del calcio, Sarri, non può che essere il Maurizio del Rap, Salmo. La scena hip hop italiana ha riconosciuto lustro solo grazie all’impatto di un album come “The Island Chainsaw Massacre”, da lì in poi è stata un’escalation di riconoscimenti e produzioni di qualità per il rapper sardo, l’unico appetibile sia alle fashion victim del mainstream sia ai talebani dell’underground, abile ad abbattere le tradizionali pareti delle quattro discipline per aprire anche al videomaking, oltre che ad un merchandise straordinario. Nel gigantesco fast food dell’industria musicale italiana, in cui firmi sul contratto con il simbolo del pentacolo e se sei giovane vieni fagocitato nel vortice dei talent show, Salmo è l’eccezione di qualità, capace di esordire a ventisette anni suonati, passando da Olbia a Milano e di prendere per mano l’hip hop italiano ed elevarlo a un livello superiore. Anche Maurizio Sarri si è addentrato tardi nel calcio che conta, una vera boccata d’aria fresca in un ambiente stantio: lui e Conte rappresentano le avanguardie della scuola di Coverciano. In Serie A una sincronia di movimenti, specie difensivi, e una mentalità così metodica e geometrica non si erano ancora viste. Dopo l’esperienza in provincia si sta riconfermando in una piazza affamata come Napoli, inebriandoci gli occhi di partite spettacolari e dall’andamento mai triviale, in un sistema figlio del pensiero platonico e aristotelico per cui il bene dell’individuo nasce dal benessere collettivo e dalla partecipazione.

Contemporaneamente la gente andava fuori per “Tranne te”, un po’ come Massimo Mauro secondo cui Mancini è il miglior allenatore della Serie A pur essendoci Maurizio Sarri.

 Magari anche Sarri fuma lo stesso pacchetto di Pall Mall blu.

Se invece Manolas fosse stato romano e si fosse dedicato alle rime piuttosto che al calcio, avrebbe fatto parte di “Gente de Borgata”. Ce lo vedo Kostas, appoggiato ad un murale tra i palazzi della capitale con la t-shirt raffigurante il Ciao ed una bomba tra le dita, col suo sguardo torvo ad ispezionare, o meglio imbruttire, il pariolino di turno. E’ il giusto mix tra Noyz Narcos ed il Turco, estremamente aggressivi, senza particolari picchi lirici come il vero re di Roma, Danno (o forse Totti?). Anche Manolas interpreta il ruolo di centrale in maniera arcigna, talvolta insuperabile e puntuale nei tackle, nonostante i piedi non siano quelli di Piqué. Chissà, magari tra gli ospiti di “Ministero dell’inferno 2” ci sarà anche il greco.

«Piacere sono Kostas questo è sano rap romano».


«Che c’hai zzì? Cerchi scazzi?».

Franco Vazquez rappresenta una categoria a sé nel campionato, è unico nel suo genere, forse universalmente l’ultimo figlio della stirpe di Riquelme, in grado di fare i preliminari col pallone, veicolando il ritmo di giocate e pensieri a proprio piacimento. Ambrosini l’anno scorso lo ha definito «il più forte “finto lento” della Serie A»: il Mudo è proprio così, con la palla tra i piedi non sembra affrettarsi a raggiungere la porta, piuttosto rievoca uno sposo che accompagna all’altare la propria amata. Anche nel microcosmo dell’Hip Hop made in Italy c’è un uomo iconoclasta e totalmente immune da qualsiasi incasellamento di genere: è un amante di Lucio Dalla, per alcuni è Corvo d’Argento, ma ai più è noto come Dargen d’Amico. In vita mia credo di aver pianto dinanzi ad una sola canzone: “Arrivi, stai scomodo e te ne vai”. Raramente è stato scritto uno storytelling tanto minuzioso e struggente, che si tratti di una bambina bisognosa d’affetto materno, di un trentenne succube di un amore non ricambiato o di un vecchio gelataio ancora follemente innamorato della propria defunta moglie: sfido ognuno di voi con un cuore ad ascoltarla e non piangere, o comunque a non prendere il telefono per dire a vostra madre o alla vostra donna quanto le vogliate bene. Dargen è quell’artista in grado di discutere di filosofia, teologia, politica ed economia in una canzone di venti minuti, o di superare la velocità della luce in “Tana2000” (Gemitaiz chi?!). Ma il suo capolavoro, per quel che mi riguarda, rimane “Salvation Army pt1”, scritta nel periodo delle Sacre Scuole (vabbè, qualcuno ascolta i Club Dogo, mica sa chi sono). Gli incastri e la metrica di quel minuto e mezzo rasentano la perfezione, un risultato inarrivabile se si considera il carattere poco malleabile della lingua di Dante. Il problema reale, se così si può definire, sia di Dargen che di Vazquez, è il loro modus operandi aristocratico, per cui non sono fruibili dai più.

«Se solo rado il suolo non di rado, rado al suolo come domino, domino nazioni con nozioni, cognizioni, ricognizioni aeree basse su aree vaste del Pacifico», questa serie di tunnel per me segue questo ritmo.

Questa invece è poesia.


N. B: Giovanni Pellino aka Neffa deve il suo nome d’arte alla somiglianza con Gustavo Neffa, centrocampista paraguayano passato per la Juventus.


Articolo a cura di Emanuele Mongiardo





Vista su Juventus-Milan

Il big match di sabato sera si preannuncia una gara decisiva per il campionato delle due squadre. Spunti d'interesse e riflessioni sulle scelte degli allenatori.

di AER






Nel menù offerto dalla tredicesima giornata della Serie A il piatto forte è la sfida dello Juventus Stadium. Nonostante le differenze nell'attuale fase di sviluppo dei due progetti tecnici, le analogie sono evidenti: entrambi i percorsi sono stati fortemente influenzati dal rinnovamento – parziale o generale – intrapreso durante la scorsa estate e le prestazioni sono state altalenanti ed eterogenee. C'è molta curiosità intorno alle scelte dei due allenatori, che in questo preciso momento sembrano essere i fattori principali ai quali sono legati indissolubilmente obiettivi futuri e reali possibilità.


Stabilità e difesa

Il Milan arriva a questa partita forte di una serie importante di risultati positivi, in apparente forte contraddizione con le enormi difficoltà riscontrate nella prima parte della stagione. Il primo obiettivo per cercare di cambiare rotta è stato quello di stabilizzare il più possibile la formazione titolare, sia dal punto di vista tattico – introducendo un 4-3-3 interpretato molto linearmente – sia dal punto di vista della scelta degli uomini. Il nodo cruciale da sciogliere, per definire il progetto di Mihajlovic, era quello del tipo di giocatore da schierare davanti alla difesa, al centro del centrocampo a 3. L'idea originaria del tecnico serbo era quella di avere in quella posizione un calciatore abile ad organizzare velocemente e con precisione le transizioni offensive: Montolivo è sempre stato il più adatto a ricoprire quel ruolo, nel ventaglio delle possibilità, in base alle esigenze di gioco e i suoi miglioramenti nell'assimilare i movimenti difensivi richiesti dal tecnico lo hanno indiscutibilmente portato ad essere il vero punto fermo del centrocampo.

Particolarmente vantaggiose per gli equilibri di squadra sono state la crescita del rendimento di Romagnoli e l'inserimento di Kucka, due giocatori molto adatti ad interpretare il sistema difensivo introdotto da Mihajlovic. Il giovane difensore italiano ha innalzato sensibilmente il livello delle proprie prestazioni nelle ultime partite mentre lo slovacco – all'interno del processo di consolidamento della formazione titolare – si è dimostrato il più “svelto” a capire il tipo di lavoro richiesto per il ruolo di interno, avvantaggiandosi anche della carenza di reali alternative valide, e smentendo la valutazione che il calcio italiano aveva fatto di lui cioè quella di un giocatore principalmente offensivo.


Lavorare tanto su poco

In questo periodo Mihajlovic ha lavorato molto sulla capacità della squadra di focalizzare il proprio gioco su pochi ma precisi e ben definiti principi, portandoli quasi all'estremo. Ci stiamo avvicinando sempre di più a vedere una perfetta replica della Sampdoria dello scorso anno, come già ampiamente previsto da noi dopo il derby.


Il Milan lascia spesso il controllo del pallone agli avversari, anche quando si trova ad affrontare squadre che non fanno del possesso palla una caratteristica principale: densità al limite dell'area, controllo degli spazi e difesa bassa sono i cardini della fase di non possesso. Per bilanciare questo atteggiamento è stato rispolverato Cerci, che garantisce sempre un appoggio e una linea di passaggio profonda e verticale nelle transizioni. In questa ricerca continua - ma non spietata - della verticalità, Bacca per caratteristiche fisiche e tecniche sembra muoversi nella sua comfort zone e la qualità dei rifornimenti diventa il termometro della pericolosità offensiva del Milan. 


Apologia e critiche sbagliate

Prima di intraprendere una breve analisi sulla situazione attuale della Juventus trovo necessario cercare di razionalizzare ed inquadrare le critiche, più o meno dirette, che stanno investendo Allegri, il suo lavoro e le sue scelte. Per una valutazione complessiva eseguita in modo lucido ed intelligente è fondamentale individuare la giusta direzione dell'analisi critica. Improvvisamente il punto di forza della Juventus della scorsa stagione cioè la capacità di andare oltre la semplicistica struttura di gioco si è trasformata formalmente in una mancanza di struttura di gioco vera e propria agli occhi miopi di chi non riesce ad approfondire la situazione. Allegri, nella scorsa stagione, era riuscito a costruire un'organizzazione difensiva d'élite nel panorama calcistico europeo e sta cercando di rielaborare - a causa di un profondo rinnovamento del materiale tecnico – un'organizzazione difensiva altrettanto credibile ed efficace. Considerare Allegri uno dei migliori allenatori nella cura della fase difensiva non è una tesi così difficile da dimostrare e se il suo principale strumento è la ricerca di quella versatilità e quella elasticità strutturale, a livello di moduli e formazioni, allora mettere in dubbio questo significa criticare i principi di gioco stessi che hanno portato la Juventus ai traguardi della passata stagione.

Il vero problema della Juventus è nella qualità delle scelte individuali in fase di possesso palla. Quell'invito più volte ripetuto da Allegri di “cercare le cose semplici” è una soluzione del problema giusta ma troppo parziale perché a questo atteggiamento va accompagnato un adeguato sistema che permetta di rendere efficaci e vantaggiose “le cose semplici”. Questo sistema comprende principalmente un'attenzione altrettanto accurata dell'organizzazione della fase offensiva e della manovra in generale.


Possibilità

Abbiamo già discusso della volontà da parte del Milan di continuare a rafforzare i principi identificativi del proprio gioco e alla luce di questo l'unica variabile da cui dipende il tipo di partita che ci aspetta è data da come la Juventus deciderà di opporsi ai rossoneri. Non è difficile immaginare una Juventus disposta con una linea difensiva relativamente bassa per togliere lo spazio attaccabile in profondità dagli attaccanti del Milan, non è però nemmeno da escludere un pressing selettivo eseguito in una zona di campo più alta che presuppone una linea difensiva meno statica. La chiave di una buona prestazione per la Juventus sarà soprattutto la capacità di minimizzare le distanze tra i reparti e sarà fondamentale la posizione dei centrocampisti per attuare delle efficaci marcature preventive.

Il Milan soffre più del normale le palle perse in uscita ed è un fattore da non sottovalutare visto che un gioco così verticale e immediato fa impennare il coefficiente di difficoltà dell'uscita del pallone. Inoltre questa situazione offre una duplice lettura perché migliorare l'uscita del pallone comporta anche un miglioramento delle transizioni offensive e quindi della pericolosità offensiva, non a caso ha aiutato nelle ultime partite avere due appoggi esterni (Bonaventura e Cerci): è relativamente più semplice verticalizzare sull'esterno piuttosto che centralmente.

Forse non sarà un test attendibile per valutare il miglioramento delle scelte individuali della Juventus in fase di possesso palla ma inesorabilmente la risalita dei bianconeri passa per questo passaggio di crescita. Farà prima Allegri ad organizzare una manovra offensiva fatta di cose semplici ma efficaci oppure faranno prima i calciatori ad elevare la qualità delle scelte oppure la Juventus continuerà ad essere ostaggio delle sue stesse grandi potenzialità? Avremo tempo e modo di capirlo. Intanto buon Juventus-Milan.


Articolo a cura di AER


martedì 17 novembre 2015

Scacchiera verde-oro

Nico Rosberg sta recuperando l'autostima del 2014. Dal Brasile emerge, però, la gara più noiosa dell'anno. Che non impedisce in ogni caso di ricavare complicate ma preziose informazioni sulle strategie Ferrari-Mercedes. E qualche altra chicca...

di Federico Principi






Da quando nel 2004 il Gran Premio del Brasile (fedelissimo al tracciato di Interlagos, intitolato a Carlos Pace) fu spostato nelle fasi finali del calendario del Campionato del Mondo di Formula 1, le attese, quasi sempre rispettate, sono cresciute di pari passo con estenuanti lotte per il titolo mondiale, non sempre ristrette a soli due contendenti. E proprio la patria dei pentacampeao mundial, ma di pallone, ha spesso sancito il turning point decisivo per un posto negli albi d'oro. Lo spettacolo in pista, avulso da quello strategico-tecnologico che non sconfinfera più di tanto al pubblico di massa, è quasi sempre salito in primo piano, di prepotenza.

Così Raikkonen riuscì a ribaltare la situazione ed aggiudicarsi un titolo che appena tre settimane prima dell'ultimo giorno di scuola, sotto il cielo carioca, pareva irrimediabilmente compromesso. Quello di Hamilton nel 2008 lo era invece fino a due curve dalla fine: ma Glock, che con la sua mancata sosta - evitando di montare le gomme da bagnato - poteva passare alla storia come ago della bilancia decisivo per regalare a Massa la gioia più grande sotto il suo pubblico, era in realtà troppo lento con le slick e fu facilmente passato da tutti. All'ultima curva. Senza dimenticarci un Vettel in testacoda, tamponato come gli sfigati presi di mira agli autoscontri e clamorosamente ripartito, senza danni rilevanti, alla rincorsa verso la rimonta più dolce della sua carriera. Verso il titolo del 2012: il più sofferto, forse.

Rocambolesco finale di Mondiale 2008.


Aspettative
La conquista dei due titoli mondiali, ufficializzata da ormai un mesettoha ridimensionato il significato storico ed emotivo della nuova edizione del Gran Premio del Brasile, che dal 2005 al 2012 ha aritmeticamente assegnato i successi nel Campionato del Mondo in ben sei stagioni. Senza intaccarne il valore tecnico che da sempre, e senza eccezioni, riveste grande importanza nell'economia dell'immagazzinamento dati, utili per ingegneri e appassionati anche se dedotti da una gara di fine campionato, e senza più verdetti da emettere.

Tralasciando le ormai consuete previsioni di pioggia puntualmente sconfessate (chissà chi è l'artefice di tutto questo), era emerso un chiaro dato dalle prove libere che solo Paul Hembery, in palese malafede, aveva provato a nascondere sotto la sabbia. Per una volta, una vera rarità in un Mondiale caratterizzato da mescole piuttosto dure, il degrado degli pneumatici annunciato per la gara era discretamente alto. Marc Gené aveva magistralmente spiegato, in telecronaca, quanto calore tendesse ad assorbire l'asfalto di Interlagos, molto nero e quindi estremamente soggetto a trattenere la canicola. E nonostante le temperature ambientali in gara non siano state stratosfericamente alte (confrontare Gran Premio della Malesia), le previsioni sul degrado - non quelle di Hembery - sono state azzeccate.

In uno scenario simile, nonostante la differenza di velocità Mercedes-Ferrari abbastanza netta, come ormai consuetudine, in qualifica (ed amplificata dall'ormai celebre extra-power dei tedeschi nella Q3), il telaio piuttosto conservativo della SF15-T poteva alimentare grandi speranze su un passo gara che avrebbe contenuto molto efficacemente il consumo dei battistrada Pirelli. Le abituali grafiche proposte nel pre-gara dalla FOM non lasciavano molti dubbi sul fatto che la strategia adottata dalla Ferrari sarebbe stata quella delle due soste. Con il doppio utilizzo della mescola media, che nelle simulazioni dei long run del venerdì aveva mostrato di essere la gomma giusta da gara, anche per una vettura che generalmente predilige i compound più morbidi.

Le previsioni pre-gara della regia internazionale.


Realtà
Una volta preso atto che la partenza non aveva portato ad un progresso nelle posizioni in pista (e per Raikkonen era in realtà un dato positivo, vista la perentorietà dello scatto di Bottas), le Ferrari, e Vettel in particolar modo, sapevano che potevano giocarsi una posta più alta solo attraverso le strategie.

Il terreno della velocità secca sul giro, sia in qualifica che in gara, è un campo nel quale la Rossa ha avuto la meglio esclusivamente a SingaporeInterlagos ha mantenuto la tradizione e Vettel ha accumulato più di quattro secondi di ritardo dalla testa della corsa dopo sette giri completati.

Sette giri completati e Vettel è già stato seminato a sufficienza, per il momento, dalle Mercedes.

Non dispongo del grafico dei tempi sul giro, ma sarebbe uno strumento perfetto per evidenziare ciò che in più occasioni abbiamo rimarcato nel corso della stagione, e che possiamo comunque mostrare con chiarezza anche attraverso le screenshot degli stessi tempi sul giro: la Ferrari manda in temperatura con qualche ritardo gli pneumatici, ma li degrada con lo stesso ritardo. A partire dall'ottavo passaggio, infatti, Vettel riesce a percorrere tre-quattro giri sugli stessi tempi dei piloti Mercedes, evidentemente già soggetti ad una prima fase di leggero degrado.

Nel nono passaggio Vettel è addirittura più veloce dei Mercedes. Nella fase centrale del primo stint, in generale, le prestazioni dei tre di testa sostanzialmente si equivalgono.

La stessa fase di degrado arriva, inevitabilmente, anche sulle soft montate da VettelDopo quei quattro giri sui tempi Mercedes, il tedesco ricomincia a subire il ritmo di Rosberg ed Hamilton, e prima della prima sosta, contemporanea a quella di Nico al termine del tredicesimo passaggio, il suo gap ricomincia a crescere:

I tempi di Vettel si alzano e i due piloti tedeschi vanno in tandem ai box.

Stesso scenario, all'incirca, nel secondo stint. Le Mercedes, a parità di mescola (media), hanno immediatamente scacciato Vettel ancora più lontano nei primissimi giri dopo la sosta, nonostante il cambio gomme del ferrarista sia stato di quasi un secondo più veloce di quello di Hamilton e all'incirca due secondi più rapido di quello di Rosberg. Successivamente, intorno al ventiduesimo giro, il ritmo dei tre davanti si è nuovamente stabilizzato in una zona di equilibrio, ma con Seb ormai a distanza di sicurezza.

Come nel primo, anche nelle fasi centrali del secondo stint la Mercedes subisce una leggera anticipazione della fase di degrado rispetto a Vettel, che a distanza tiene perfettamente il ritmo di Rosberg ed Hamilton in questa fase.

Distanza di sicurezza che, come nel primo stint, aumenta in una manciata di giri prima della sosta ai box:

A fine secondo stint le Mercedes sono tornate ad essere più veloci. Vettel va ai box con un gap che è tornato a crescere in questa fase.

Con la seconda sosta effettuata al termine del giro trentadue, rimanevano da coprire ancora trentanove passaggi sul traguardo. Ovviamente Vettel sarebbe rientrato un'altra volta in pit lane, ma la strategia delle tre soste non era più una sorpresa già dopo l'anticipazione del primo pit rispetto alle previsioni. Abbastanza in linea con le caratteristiche della SF15-T, invece, la scelta di tornare sulle soft per il terzo stint: con pista gommata e vettura più scarica di benzina, Vettel avrebbe potuto percorrere una quindicina di giri con la morbida per poi concludere gli ultimi venticinque con la media. Seb ha infatti spiegato a fine gara quanto si sia trovato a proprio agio con la soft nella parte centrale di gara. Diversa scelta effettuata dai piloti Mercedes, che hanno invece dimostrato di volersi smarcare subito dalla soft dopo il primo stint per percorrere il resto della gara con le medie.

Grafica chiarissima sulla strategia delle Mercedes.

In questo senso, la nota estremamente positiva emersa da una corsa monopolizzata dalla casa di Stoccarda è il timore reverenziale che la Ferrari suscita sugli strateghi delle frecce d'argento, nonostante la differenza di passo sia ancora evidente. Se ci fosse anche il grafico di Vettel ad incastrarsi sull'immagine qui sopra, noteremmo come sia per la seconda che per la terza sosta gli uomini Mercedes abbiano marcato a uomo il tedesco della Ferrari, scongiurando qualsiasi rischio di undercut e conseguentemente di trovarselo tra i piedi. Anche percorrendo un cortissimo stint con le medie, il terzo, fin troppo breve rispetto al secondo e clamorosamente in controtendenza, ma perfettamente in linea con la strategia di Vettel. Che con un passo inferiore ha solamente potuto passeggiare verso il tredicesimo podio stagionale.


Ipotesi
Tornando al discorso affrontato nel paragrafo "aspettative", potremmo analizzare - con il quanto mai comodo senno del poi - che cosa sarebbe potuto succedere se Vettel avesse invece scelto di fermarsi per due volte ai box. Il tutto facilitato dal fatto che Raikkonen, che ha corso in maniera piuttosto anonima ma principalmente non per sua colpa, abbia poi realmente attuato questa strategia.

La prima considerazione da fare è piuttosto rilevante: la strategia a due soste avrebbe funzionato solo se il primo pit stop fosse stato effettuato con qualche giro di ritardo dai due ferraristi rispetto a quanto è poi realmente accaduto in pista. Raikkonen e il suo ingegnere avevano però fondate preoccupazioni che Bottas, già ai box dopo undici giri, potesse riuscire in un undercut che sarebbe stato devastante per Kimi, data l'impossibilità di passare una Williams soprattutto in un tracciato complesso come Interlagos.

Bottas entra ai box al termine dell'undicesimo giro ed è distante circa 4 secondi da Raikkonen. Il ferrarista ha problemi con il grip degli pneumatici (gira molto più lento rispetto a Vettel) e decide di marcare il connazionale della Williams fermandosi nel giro successivo e proteggendo la quarta posizione.

La clamorosa anticipazione della prima sosta ha evidentemente compromesso qualsiasi tipo di ambizione (già di per sé ridimensionata dalla poca competitività generale) della gara di Raikkonen. Il finlandese aveva già montato una power unit vecchia e con un chilometraggio sicuramente superiore e ha affermato di aver sofferto per buona parte della gara scarso grip con le gomme anteriori.

Come in occasione della prima sosta, Kimi è rientrato ai box con un giro di anticipo rispetto a Vettel anche al momento del suo secondo pit stop. La grande differenza sta nel fatto che per Seb non si trattava della seconda, ma della terza fermata. Un interminabile stint di 33 passaggi con le medie per il finlandese, costantemente più lento nei tempi sul giro rispetto a Vettel ma con i 25 secondi risparmiati per la sosta in meno effettuata. Eppure il gap è, nel frattempo, cresciuto:

Come confermato dalla precedente grafica, prima del primo cambio gomme Kimi era distante di 4 secondi da Vettel. Nel momento in cui entra per la seconda sosta, contemporanea alla terza di Seb, il gap tra i ferraristi è cresciuto oltre gli 11 secondi. Il tutto nonostante Vettel nel frattempo si sia fermato una volta in più.

Un rapido e superficiale comparison ci suggerirebbe che la strategia migliore, in realtà, fosse quella di Sebastian e di ben 7 secondi. Questa analisi parallela non tiene conto però di due fattori fondamentali:

- Come già spiegato precedentemente, Vettel e Raikkonen non correvano in parità di condizione tecnica. Il motore di Kimi era più logoro e sicuramente meno efficace nella spinta in salita verso il traguardo. Nonostante tutto Raikkonen perdeva scientificamente due o tre decimi dal compagno anche nel settore centrale, estremamente lento e guidato, principalmente per mancanza di ritmo dovuta ai problemi di grip sulle gomme anteriori;

- La prima sosta di Raikkonen era stata effettuata perfino in anticipo rispetto a Vettel e alle Mercedes, che sarebbero a quel punto sicuramente andati verso il triplo pit stop. Lo stint centrale di Kimi si è quindi esageratamente allungato oltre i trenta giri, compromettendo il passo gara per non stressare eccessivamente gli pneumatici. L'ultima grafica mostra infatti come, con gomme ormai logore, Raikkonen fosse più lento di Vettel di oltre un secondo al giro. Ma anche nella grafica precedente, nella quale si illustrava il momento nel secondo stint in cui Vettel teneva il passo Mercedes, Kimi era già 6 o 7 decimi più lento del tedesco. Nonostante fosse soltanto a un terzo del suo interminabile secondo stint.

La conclusione del ragionamento ci porta a pensare che non fosse per nulla così errata l'eventuale scelta di Vettel di tagliare la terza sosta: guardando la comparazione con Raikkonen dei tempi di primo ed ultimo stint, corsi a parità di strategie, emerge una differenza media che si aggira intorno al mezzo secondo al giro. Trapiantando la stessa tattica di gara al pilota tedesco, ridimensionandola nei momenti delle chiamate (senza quindi accodarsi a Rosberg nel primo pit stop, ma aspettando un paio di passaggi), Vettel avrebbe potuto perfino accorciare leggermente il gap dalle Mercedes. Raikkonen ha concluso a 47 secondi da Rosberg: togliendo mezzo secondo al giro i secondi di ritardo diventano 12, contro i 14 effettivi registrati da Vettel sotto la bandiera a scacchi. La Ferrari non aveva chance di vittoria, ma anche una tattica a due soste sarebbe comunque risultata una strategia efficace per Seb.

Nello stint finale, a parità di gomma e di chilometraggio del battistrada, Raikkonen continua a perdere terreno su Vettel come nel primo stint.


Varie ed eventuali
Dopo aver montato un pippone clamoroso sulle strategie, è il momento di qualche pillola che ha allietato un weekend in realtà parecchio noioso. Probabilmente mai così dall'inizio della stagione.

Cominciando con Rosberg, che per la seconda volta consecutiva ha mostrato i muscoli ad Hamilton, dopo aver già realizzato cinque pole consecutive. Un atto di forza che in realtà è più fruttuoso in vista della nuova stagione - da affrontare con un'autostima rinfrancata - piuttosto che per un secondo posto in Classifica Piloti che ha il sapore del contentino. Da censura il comportamento di Lewis, assente alla foto di rito post-qualificaprontissimo a sfoderare la cultura degli alibi tanto "cara" a Velasco. Dopo le presunte - diciamo pure inesistenti - strategie pro-Rosberg in Messico (ma in realtà neanche Nico voleva la seconda sosta, è stato un ordine impartito ad entrambi), ecco che Hamilton si lamenta del fatto che a Interlagos sia impossibile sorpassarePazienza, il prossimo anno fai la pole e tieni la leadership alla prima curva.

Interessante comparazione on board delle pole di Rosberg in Brasile negli ultimi due anni. In questa stagione si è girato circa un secondo più piano: i cordoli sono stati alzati e non è stato possibile tagliarli con decisione come nel 2014.

Verstappen non si ferma più e ha deciso di rendere spettacolare anche una corsa più monotona delle interminabili pubblicità sui canali a tre cifre del digitale terrestre. Non tanto il sorpasso su Nasr (già precedentemente fulminato in maniera altrettanto grandiosa in Belgio e a Monza), quanto quello su Perez ha fatto sobbalzare le coronarie del papà Jos e di tutto il box Toro Rosso. Lasciando senza fiato gli appassionati: il ragazzo si farà. E non ha paura di tirare un calcio di rigore.

Perez è stato corretto, ma la manovra di Verstappen è comunque da pelle d'oca. Bel duello tra due piloti estremamente aggressivi nel corpo a corpo.

La torcida attendeva un solo uomo: Felipe Massa. Dopo il podio dello scorso anno, e le ormai lontane vittorie del 2006 e del 2008, il vice-campione con la Ferrari ha tirato un po' il fiato negli ultimi Gran Premi. Per tutto il weekend di Interlagos ha costantemente lottato con un posteriore estremamente instabile: chissà quanto influenti si siano rivelate le doti da rallysta di Bottas per marcare una differenza così netta di prestazione all'interno del team. A fine gara poi la doccia fredda: squalificato, perché la posteriore destra - misurata dalla FIA prima dello start - risultava di ben 30 gradi centigradi oltre il limite massimo. Sbigottito Rob Smedley, con la Williams che presenterà appello.

Notte fonda in Red Bull, col nuovo motore Renault evoluto portato in pista da Ricciardo che non ha mostrato alcun passo avanti. I gettoni utilizzati, alla fine, sono stati ridotti da undici a sette, ma non hanno impedito all'australiano di perdere clamorosamente di un decimo il confronto con Kvyat in qualifica. Che poi in gara si è tradotto in quattro posizioni di ritardo - cinque in pista, senza la squalifica di Massa - per colpa, oltretutto, di una scellerata strategia che ha previsto il primo pit al terzo giro, oltre che della inevitabile penalizzazione per l'utilizzo della nuova power unit. Dove sono finiti quelli che dicevano che fosse più forte di Vettel?

Ricciardo sostiene che il nuovo motore Renault non abbia portato un rilevante miglioramento di potenza. Intanto sembra aver perso il sorriso...

Non si può non concludere con l'impressionante constatazione che a Interlagos siano stati doppiati tutti, ma proprio tutti, ad eccezione di Ferrari e Mercedes. Il tutto facilitato dall'assenza della Safety Car, vero, ma l'oligopolio della Formula 1 sta probabilmente allontanandosi dal resto della concorrenza. Riportando la categoria ai fasti, probabilmente, dell'antico scontro Ferrari-McLaren: le possibilità di successo sembrano chiuse per chiunque altro.


Articolo a cura di Federico Principi