martedì 30 agosto 2016

NFL preview, parte 1

Sei domande sulla nuova stagione NFL.

di Michele Serra







1) Chi può spezzare l'egemonia dei Pats in AFC?


Si scrive “New England” si legge “consistency”. I Pats hanno vinto 12 partite nelle ultime quattro stagioni consecutive, nelle quali sono sempre arrivati almeno alle Finali di Conference, dove si sono trovati davanti due volte Denver, Baltimore e Indianapolis. Posto che Baltimore, infortuni permettendo, può giocarsi al massimo un posto ai playoff e che di Indy parliamo più sotto, le indiziate non sono molte. Denver, in quanto campione, rientra di diritto nella categoria. Certo, l’incognita del QB non è cosa da poco, ma ormai anche il rendimento di Manning lo scorso anno era appena al di sopra della sufficienza, e Osweiler, per quanto abbia fatto vedere discrete cose, è lontano dall’essere una certezza. Trevor Siemian è stato a sorpresa nominato titolare dopo una stagione da rookie passata a apprendere il playbook e finita con un cammeo in week 15 contro gli Steelers, che gli è valso un “-1” alla voce “yard corse”. La scommessa è bella grossa, nonostante un camp più che positivo: dietro di lui il rookie Paxton Lynch, che si suppone essere la scelta a lungo termine della franchigia, e il veterano Mark Sanchez. 

Quel che mantiene i Broncos in vetta però è la difesa, che ha perso un paio di uomini importanti come il DE Malik Jackson e il LB Danny Trevathan. Per quanto riguarda la pressione difensiva, la linea dovrebbe essere ampiamente attrezzata a non far rimpiangere il partente Jackson - coi vari Derek Wolfe, reduce da una breakout season e Shane Ray, prima scelta di Denver al draft 2015, a fare un passo in avanti e il rinnovo di Von Miller - mentre potrebbero mancare alternative al posto di Trevathan, che offriva ottime doti in coverage. Il DC Wade Phillips, comunque, è una garanzia e la difesa di Denver sarà ancora al top. Intrigano molto gli Steelers, soprattuto grazie ad un attacco che, nonostante sia stato privato per gran parte della scorsa stagione dei propri pezzi migliori, ha raggiunto alti livelli di efficienza (settimi nella Lega in DVOA), pur senza i vari Bell, Pouncey e soprattutto Roethlisberger. La notizia della sospensione annuale di Bryant prima e quella (per quattro partite) di Bell, poi, ci fanno pensare se e quando vedremo l’attacco di Pittsburgh al completo. Il reparto guidato da Todd Haley ha trovato in DeAngelo Williams un protagonista inatteso, che ha rivitalizzato la propria carriera nonostante l’età non florida (33 anni), mentre la linea d’attacco, sorprendentemente positiva, riaccoglie il proprio centro Pouncey all’interno di un reparto senza grossi nomi ma molto solido (DeCastro si sta rivelando un’ottima guardia, Marcus Gilbert ha stabilizzato la posizione di RT mentre Alejandro Villanueva, con un passato da soldato nell’esercito, dopo un inizio comprensibilmente non facile, ha fornito un buon contributo nel ruolo più difficile della o-line, il left tackle sostituendo l’infortunato Kelvin Beachum, ora ai Jaguars).

Anche la difesa, da sempre reparto foriero di successi e soddisfazioni per gli Steelers si sta reinventando aggiungendo gioventù, anche se c’è ancora ampio spazio per miglioramenti (30esimi in DVOA). Dietro ai veterani Hayward-Timmons-Harrison si stanno formando giovani di belle speranze, da Ryan Shazier, molto valido soprattutto in coverage e buon tackler, a Bud Dupree, sperando che Jarvis Jones inizi finalmente a mantenere le aspettative che lo hanno reso una scelta da primo giro tre anni fa: dopo 5 sack in tre stagioni, e in contract year, dovrà fare necessariamente un passo in avanti per meritarsi la riconferma. Nonostante i 21 intercetti, la secondaria è ancora un abbondante work in progress (26esimi in DVOA contro i ricevitori numeri uno avversari): anche qui il movimento di rinnovamento è iniziato con le scelte di Senquez Golson - al draft 2015 - e di Artie Burns e Sean Davis quest’anno. Considerando quanto Pittsburgh fatichi ad attaccare i QB avversari (24esimi per percentuale di pressione portata), avere una secondaria affidabile è importante. Storicamente gli Steelers non concedono grande spazio ai giocatori con poca esperienza, ma se vogliono tornare ai fasti che competono loro, devono iniziare a fidarsi dei propri giovani.


Altre squadre con realistiche possibilità di mettere in difficoltà Pats e Broncos sono Cincinnati, che dopo l’ennesima delusione ai playoff deve ripartire dall’eccellente rendimento mostrato da Andy Dalton lo scorso anno, e Kansas City, squadra ben poco spettacolare ma molto efficiente su entrambi i lati del campo, con un attacco molto basilare ma stabilmente nella metà alta della NFL e una difesa completa, sia nel front seven (ma occhio all’età di Derrick Johnson e Tamba Hali e ai problemi fisici di Justin Houston) quanto nella secondaria, con il ritrovato Eric Berry ed una delle future stelle del ruolo, il CB Marcus Peters. 


2) Chi può crollare dallo scorso anno e chi può fare un passo in avanti?

Le due squadre di New York, dopo aver passato una stagione 2015 agli antipodi (benché entrambe fuori dai playoff), potrebbero ripetersi anche quest’anno, a ranghi invertiti, però. 

I Giants, che hanno concluso la stagione con sole 6 vittorie, si sono separati dopo 12 anni da Tom Coughlin, rimpiazzato con un uomo di casa, Ben McAdoo, OC dei blu nelle ultime due stagioni. L’uomo che catalizza tutte le attenzioni della squadra è chiaramente OBJ, ma per tornare al top i Giants hanno puntato su un restyling della difesa, aggiungendo più qualità nel front seven, che lo scorso anno ha prodotto solo 23 sack (terza peggior percentuale di adjusted sack rate nella Lega per Football Outsiders). Dal draft è arrivato Owa Odighizua, specimen atletico anche se ancora acerbo, mentre dalla free agency Damon Harrison, eccellente run stopper prelevato dai Jets, e una delle più grandi acquisizioni del mercato in Olivier Vernon (85 milioni in 5 anni di contratto): l’ex Dolphins è stato autore di 7.5 sack lo scorso anno, ma soprattutto 81 pressioni, secondo tra i DE da 4-3 dietro solo Michael Bennett. In più, si spera che il recupero di Jason Pierre-Paul dopo l’incidente alla mano restituisca, almeno in parte, uno dei protagonisti dell’ultimo titolo vinto dai Giants. La secondaria ha visto l’ingresso di Janoris Jenkins a fianco dell’affidabile Rodgers-Cromartie. Jenkins, arrivato dai Rams con un cospicuo contratto da 62 milioni in 5 anni è un “gambler” uno che va per l’intercetto più che per tenere l’avversario diretto fuori dalla partita, e finora aveva beneficiato dell’eccellente pass rush dei Rams per vedere ridotti i suoi compiti. Ecco perché la creazione di un front seven dominante è necessaria per le fortune dei Giants. Tornando all’attacco, occhio al rookie Sterling Shepard, che potrebbe prendere il posto di Victor Cruz, quasi inattivo nelle ultime due stagioni causa infortuni, dall’altro lato di Beckham, beneficiando delle attenzioni che le difese avversarie concederanno al numero 13.

Altre squadre destinate a salire potrebbero essere Tampa Bay e soprattuto Dallas. I Bucs sono da 2-3 anni una delle scelte più popolari tra le possibili rivelazioni, salvo poi deludere: molto dipenderà dai miglioramenti di Winston, che ha avuto alti e bassi nella sua stagione da rookie. Dallas riparte dalla o-line e da Ezekiel Elliott, scelto - in maniera abbastanza impopolare - come quarto assoluto allo scorso draft per rivitalizzare l’attacco. Se la linea d’attacco ha saputo creare occasioni per Darren McFadden, con Elliott i risultati dovrebbero/potrebbero essere anche migliori. Servirà un attacco molto ben bilanciato, e che Romo rimanga sano, per non mettere a nudo tutte le difficoltà di una difesa che vedrà molti giocatori (Randy Gregory, Demarcus Lawrence e Rolando McClain) sospesi: i primi due per quattro partite, l’ex Raiders addirittura per 10. 



Percorso inverso potrebbero intraprenderlo i Jets. Lo scorso anno hanno sorpreso tutti vincendo ben sette partite in più della stagione precedente sull’onda di un Ryan Fitzpatrick mai così efficiente. Chan Gailey, OC ed ex coach di Fitz a Buffalo, ha implementato un sistema basato sulla spread offense, con tre ricevitori larghi e, spesso e volentieri, anche il RB allineato sulla linea dei WR. Tutto questo per avere un’idea più chiara delle marcature e permettere a Fitzpatrick di identificarle meglio pre-snap. Il rinnovo del contratto dell’ex Bills e Texans era vitale per New York, viste le terribili alternative a roster (devono quindi pregare che la salute regga, altrimenti sarà Geno-Time), ma c’è da dire che la dirigenza ha scommesso a piene mani su di lui, sempre stato un onesto mestierante mai mai un giocatore in grado di far fare il salto di qualità ad un attacco (in carriera, il record di 10-6 è stato il più alto mai raggiunto, e per giunta il suo unico sopra il 50%). Lo aiuterà l’acquisizione di Matt Forte, che può rivelarsi molto utile nello schema dei Jets viste le sue grandi doti come ricevitore (cosa che non si può dire di Chris Ivory, ora ai Jaguars) e un’ottima difesa. 

A proposito di difesa, lo scorso anno il reparto ha concesso solo 5 primi down ad attacchi con due RB in campo contemporaneamente, situazione in cui i Jets hanno ottenuto un totale -64% in DVOA dal 2007, i migliori nella NFL durante questo lasso di tempo, con abbondante margine. Visto anche il quinto calendario più difficile della Lega, servirà una difesa altrettanto pronta e un Fitzpatrick continuo nel rendimento per costruire dall’ottimo risultato dello scorso anno.

Occhio anche ad Atlanta, che con il calendario più semplice della NFL non è andata oltre un 8-8 di record (con 8 sconfitte nelle ultime 9 gare), mentre quest’anno sarà titolare della schedule più complicata. Da aspettarsi anche un calo fisiologico, seppur non certo netto, da parte dei Panthers.


3) Chi possono essere i Panthers di quest'anno?

I Cardinals paiono essere la scelta più ovvia, specie alla luce della scorsa stagione - seppur finita male proprio per colpa di Carolina - ma se c’è una squadra che potrebbe fare il salto di qualità più evidente, perlomeno in NFC, quella è Minnesota. 

Nel 2014 Newton era reduce dal peggior anno della sua pur breve carriera, per yard lanciate, passaggi da TD e QBR, salvo fare passi da gigante nella gestione dell’attacco e dell’accuratezza: certamente è stato aiutato da un'eccellente difesa, ma allo stesso tempo penalizzato da una linea offensiva che, per quanto rivelatasi più efficiente del previsto, rimane sospetta e senza il suo primo ricevitore, quel Kelvin Benjamin infortunatosi nel training camp. Seppur con meno esperienza nel proprio bagaglio, Bridgewater viene da una stagione in cui era lecito aspettarsi un miglioramento rispetto alla positiva annata da rookie; il 2015 ha invece rappresentato un passo indietro, o comunque non certo uno step in avanti (in tutto questo, non si può non citare il ritorno di Adrian Peterson dalla squalifica che lo ha colpito due anni fa, e che lo ha reso di nuovo il centro dell’attacco di Minnesota: solo i Rams hanno lanciato per meno yard, TD e primi down della squadra di Mike Zimmer). 

Anche in questo caso abbiamo una o-line davvero mediocre, che ha messo spesso in difficoltà Bridgewater: l’attacco dei Vikings è sesto nella lega per numero di snap giocati sotto la pressione della difesa (238). Il front office ha cercato di dotare Teddy B di un’arma in più draftando Laquon Treadwell da Ole Miss, il quale può essere il riferimento che l’ex QB di Louisville non ha avuto in questi due anni. Stefon Diggs è la deep threat della squadra, se non fosse che solo il 20% dei passaggi lanciati da Bridgewater hanno viaggiato per 16 o più yard, contro il 16% di due anni fa, quindi un margine di miglioramento per il ragazzo c’è. Cordarrelle Patterson, invece, è l’uomo del mistero: dopo due anni mediocri, la scorsa stagione è stato usato principalmente come ritornatore di punt, situazione in cui ha guadagnato più di 1000 yard, ma la sensazione è che l’OC Norv Turner non lo utilizzi in maniera appropriata per sfruttare la sua creatività palla in mano, un po’ come è successo nei primi anni a St.Louis di Tavon Austin.

Dove però i Vikings possono seguire l’esempio dei Panthers è la difesa. In attesa di capire che ne sarà di Sharrif Floyd, che ha lampi di talento evidenti ma è ancora molto discontinuo per rendimento e salute, i Vikes hanno un ottimo run stopper come Linval Joseph e un edge rusher di primo livello come Everson Griffen, che negli ultimi due anni ha decisamente alzato l’asticella del rendimento. Giocatori come Xavier Rhodes (CB) ed Harrison Smith (S) sono ormai due realtà, e accanto a quest’ultimo Andrew Sendejo si è rivelato un buon titolare e una safety che colpisce duro (secondo in squadra con 100 tackle). Ma le vere speranze per Minnesota di costruire una difesa dominante sono nella posizione di LB, dove Eric Kendrick e Anthony Barr studiano per diventare stelle di prima grandezza. Il primo non ha ancora l’abilità in coverage dei LB di Carolina, per rimanere nel paragone, ma è un linebacker sideline-to-sideline in grado di farsi trovare sempre vicino al pallone e ha grande reattività.


Il secondo ha tutto per diventare un giocatore completo, grazie alla sua abilità in entrambe le fasi del gioco.



La giocata qui sopra non è casuale: impiegato in marcatura a zona, Barr legge bene gli occhi di Manning, facendo quello che dall’altra parte dell’oceano chiamano “jumping the route” - letteralmente “saltare sopra la traccia”: la traduzione migliore che mi viene è “interromperla”, ma non rende bene come nella lingua di Albione - e intercettare il lancio.

Lo scorso anno, Minnesota ha continuato la sua tradizione di squadra abituata a deludere i fans buttando al vento la vittoria alle wild card contro i Seahawks. Se la squadra saprà fare un ulteriore passo in avanti - Bridgewater in primis - non ci sarà sfortuna che tenga, e la NFC potrebbe aver trovato un’ulteriore, credibile candidata al trono di Carolina.


4) Raiders e Jaguars sono da playoff?

Si è parlato molto di queste due squadre nella off-season, alla luce dei miglioramenti effettuati sul campo, ma soprattutto grazie al front-office. Oakland e Jacksonville avevano una barca di soldi da spendere sul mercato e chiaramente non si sono fatti attendere, nonostante il vecchio adagio per cui le squadre vincenti si costruiscano via draft. Vero, ma anche i prospetti non mancano nell’una e nell’altra squadra.

Se parliamo di talenti costruiti in casa su cui si pianificherà il futuro, ai Raiders non si esce dal trittico Carr-Cooper-Mack. Il primo, dotato di un braccio eccellente, ha avuto una grande prima parte di stagione, da 19 TD e soli 4 intercetti con il 63% di passaggi completati. Nelle seconda metà, la percentuale è calata a 58, i TD a 13 e gli intercetti sono aumentati (9). Comprensibile per un ragazzo alla sua seconda stagione in NFL che deve imparare ad essere più continuo, il fattore che separa i buoni giocatori dai top. Amari Cooper ha già fatto capire di poter essere uno dei migliori nel ruolo, e Michael Crabtree si è ritrovato. La o-line ha avuto un ruolo sorprendentemente positivo nella stagione di Oakland (Carr è 32esimo su 37 QB per percentuale di pressioni subite, per Football Outsiders), nonostante in essa non ci siano giocatori di primo livello. Donald Penn, preso letteralmente dalla strada dopo il taglio da Tampa Bay ha ancorato la posizione di LT; Gabe Jackson è uno dei pochi prodotti dei draft di Reggie Mckenzie ad essere ancora in squadra; Rodney Hudson è arrivato via free agency da Kansas City lo scorso anno, mentre il premio di questa free agency, ci scuserà Bruce Irvin, è Kelechi Osemele, che fornisce qualità sia in pass pro sia nell’aprire varchi per le corse, nonché versatilità, per la sua possibilità di giocare sia guardia- posizione naturale - che tackle.

Dall’altra parte del campo, Khalil Mack è esploso nella sua seconda stagione tra i pro, mettendo a segno 15 sack - quasi quadruplicando la produzione della stagione precedente. Quest’anno potrà anche godere di un altro eccellente edge rusher come Bruce Irvin, arrivato da Seattle, al posto dello squalificato Aldon Smith (che comunque dovrebbe rientrare durante l’anno). Anche la secondaria è stata ampiamente rimaneggiata, con gli innesti di Sean Smith, solido titolare arrivato dai rivali divisionali dei Chiefs, Reggie Nelson - da Cincinnati - e Karl Joseph dal draft, safety dalla stazza non imponente ma che gioca molto duro e ha grande senso della posizione quando si tratta di fare giocate sul pallone (anche se probabilmente la scelta a metà primo giro per lui può considerarsi un reach). Rinnovo del contratto anche per David Amerson, tagliato ad inizio stagione scorsa dai Redskins ma subito impiegato titolare dai Raiders con buoni risultati (tra cui il record di franchigia per passaggi deviati in singola partita, sei). Per la prima volta dopo anni, Oakland parte con tutti gli occhi addosso, pronta a giocarsi, questa volta per davvero, un posto nei playoff all’interno della competitiva AFC West.



I Jacksonville Jaguars, invece, sono ancora un passo indietro, probabilmente, non fosse anche per aver terminato la stagione con un record decisamente perdente, 5-11, nonostante siano vari i buoni segnali arrivati dal campo. 

Bortles, pur mostrando ancora lacune dal punto di vista della precisione e del decision making, ha fatto grandi passi avanti da un anno all’altro, soprattutto nel limitare i propri errori. L’emergere di target come Allen Hurns e soprattutto Allen Robinson gli ha sicuramente facilitato il compito, per non parlare di Julius Thomas, che però ha avuto meno spazio a causa di problemi fisici: sicuramente, un ulteriore off-season per stabilire un miglior rapporto con il suo QB aiuterà lui e la squadra.

Interessante l’arrivo di Kelvin Beachum dagli Steelers, un buon titolare che potrebbe/dovrebbe scalzare dal ruolo di LT Luke Joeckel, ex seconda scelta assoluta che finora il suo rendimento non ha mai lontanamente giustificato. A coadiuvare TJ Yeldon nel running game, invece, è arrivato Chris Ivory, giocatore decisamente diverso dal suo nuovo compagno, molto più fisico e titolare di uno stile di corsa molto dritto-per-dritto e fisicamente dispendioso: gli anni sono ancora 28, comunque, e il chilometraggio non eccessivo. 

In difesa si registrano due aggiunte importantissime per una squadra che fa tremenda fatica a portare pressione ai QB avversari (30esimi per percentage pressure, 21%), cioè Malik Jackson e Dante Fowler. Il primo è arrivato via free agency da Denver, dove aveva un ruolo fondamentale sia contro le corse che in pass rush, anche grazie alla sua versatilità (può essere schierato sia come 5-tech - come DE in una 3-4 - che come 3-tech - DT nello stesso schieramento, ruolo in cui nasce: il 21% delle pressioni da lui portate, però, sono arrivate proprio quando ha giocato esterno nella d-line, per PFF). Dante Fowler è l’edge rusher che ai Jags disperatamente manca, e che potrebbe vedere snap come Leo LB (un DE che gioca alto, e non mani a terra come un d-lineman tradizionale, e che può essere impiegato anche in coverage: si tratta, questo, di un concetto che Gus Bradley impiegava a Seattle quando ne era defensive coordinator). Telvin Smith, probabilmente uno dei migliori giocatori NFL di cui non avete mai sentito parlare, e Paul Poszluszny forniscono tackling in mezzo al campo, mentre dal draft sono arrivati due dei cinque migliori giocatori del lotto, Jalen Ramsey e Myles Jack, caduto ad inizio secondo giro per ragioni fisiche (si teme che debba finire sotto i ferri per un intervento artroscopico al ginocchio, pericolo che, per ora, pare essere scongiurato). Altro pezzo pregiato arrivato dal mercato è Tashaun Gipson, reduce però da un’annata decisamente mediocre, dopo quella 2014 in cui aveva concluso in cima alla Lega per numero di intercetti messi a segno.

La stagione di Jacksonville passa per vari “se”: se Bortles farà un ulteriore passo in avanti, se la pass rush si paleserà grazie ai nuovi arrivi, se Gipson tornerà ai livelli di due anni fa. Certo è che, dopo anni di mediocrità e irrilevanza, Jacksonville ha l’occasione di iniziare un nuovo ciclo: sarà anche probabilmente l’ultima occasione di farlo con Gus Bradley in panchina, a cui è stato dato un ultimatum. L’obiettivo è migliorare il record della stagione scorsa, ma per i playoff meglio passare l’anno prossimo.


5) Goff e Wentz: chi è nella situazione migliore?

Le trade che hanno permesso a Rams ed Eagles di salire alle prime due posizioni dello scorso draft hanno fornito un quadro più che chiaro circa le intenzioni delle due franchigie, intente a cercare un nuovo QB attorno a cui edificare la squadra. Jared Goff e Carson Wentz sono finiti in due contesti differenti, anche se l’hype che li circonda, vuoi perché i Rams sono tornati a LA, vuoi perché il pubblico di Philadelphia è noto per essere uno dei più esigenti in NFL, non è indifferente.

Chi ha certamente più chance di partire da subito titolare è Goff che verrà inserito in uno schema molto “run heavy”, tutelandone quindi lo sviluppo evitando di gettarlo subito in pasto alle difese avversarie: il punto focale dell’attacco continuerà ad essere Todd Gurley. Il resto dell’attacco ha un solo nome, quello di Tavon Austin, che finalmente ha trovato un ruolo adatto per sfruttare la sua versatilità e che costituisce l’unica fonte di imprevedibilità in un attacco in cui la deep threat è Kenny Britt e nessuno degli altri ricevitori (Brian Quick, i rookie Pharaoh Cooper e Nelson Spruce…) ha lontanamente l’aspetto di un playmaker. Come se non bastasse, la linea è una delle peggiori nella Lega, e continuerà ad esserlo almeno finché il LT Greg Robinson non giustificherà almeno in parte la seconda scelta assoluta spesa per lui nel 2014, mentre nella posizione di LG agisce Cody Wichmann, scelto al quinto giro del draft 2015. Se il lato debole di Goff è un grosso problema, perlomeno la parte destra della linea fornisce più garanzie, grazie al veterano Roger Saffold e a Rob Havenstein, RT che ha dato un buon contributo al gioco su corsa dei Rams. La squadra di Jeff Fisher è molto conservativa e punterà tutto su running game e difesa, lasciando al suo nuovo QB tempo per crescere e sbagliare. Dopo tre annate mediocri, pare comunque difficile che i Rams possano spiccare il volo e lasciare il limbo nel quale hanno messo le tende, a prescindere dal rendimento del QB ex California.

Non certo più idilliaca la situazione in quel di Philly, dove Carson Wentz, alle prese con un infortunio alla costola, ha le spalle più coperte nel proprio ruolo. Lo condivide con Sam Bradford, a cui è stato rinnovato il contratto - per due stagioni - giusto in questa off-season, e che ha finito la stagione in crescita dopo una prima parte decisamente negativa, e Chase Daniel, pretoriano di coach Pederson in quel di Kansas City dove ha coperto (bene) le spalle di Alex Smith con buone prestazioni quando chiamato in causa. L’attacco degli Eagles è finito al 26esimo posto per DVOA, scottato dall’inserimento mal-riuscito di DeMarco Murray e dall’assenza di un playmaker nel corpo ricevitori (con Zach Ertz che sembra essere la cosa più vicina a questa definizione). Gli Eagles sono la squadra che ha corso di più all’esterno della linea, sia a destra che a sinistra, ma l’ex Dallas non è quel tipo di giocatore - alla LeSean McCoy, per intenderci - bensì un corridore north-south, che punta più sulla forza fisica che sull’elusività, e ciò ha finito per limitarlo terribilmente. 

Ora il RB di riferimento sarà Ryan Mathews, reduce da una stagione più che convincente, con Darren Sproles a fargli da backup, ma né l’età né la struttura fisica lo rendono un giocatore ampiamente utilizzabile in maniera “tradizionale”, nel senso di runner puro e semplice. Dietro a Jordan Matthews, che sarà il ricevitore numero uno pur non avendone i crismi in una situazione ideale, ci sono tante incognite: da Josh Huff a Rueben Randle, che tra l’altro nel training camp ha avuto parecchie difficoltà, passando per Nelson Agholor, autore di una stagione da rookie da dimenticare. Chi potrebbe rappresentare una piacevole sorpresa è Dorial Green-Beckham, appena arrivato via trade da Tennessee (in cambio del T/G Dennis Kelly). L’ex Mizzou, uno dei recruiter più ambiti ai tempi del college, ha evidenti problemi caratteriali e di etica lavorativa, che lo hanno condizionato all’università - motivo per cui ha cambiato ateneo - ma anche in NFL, dove i Titans si sono sentiti liberi di lasciarlo andare perché non convinti della sua attitudine e al contempo intrigati dal rookie Tajae Sharpe (ma DGB ha dichiarato di non sapere perché sia stato scambiato!). Il prezzo pagato è decisamente esiguo per un giocatore dal fisico imponente (1,96 x 102 kg) e capace di essere un matchup nightmare per tanti cornerback, specie in endzone, anche se con mani non ancora molto affidabili: per lui il 48% di catch rate lo scorso anno, peggio di lui solo tre giocatori con almeno 50 target (certo, il fatto di aver giocato con un rookie QB, pur promettente, come Mariota e con un disastro come Mettenberger non ha aiutato…). Cose come questa, però, vanno oltre chi ti lancia il pallone.


Insomma, sia L.A. che Phlly sono due squadre con attacchi deficitari e poche alternative ma difese eccellenti. Né Goff né Wentz avranno compiti agevoli: ma il primo sarà, almeno inizialmente, lo sparring partner di Gurley, e il secondo, salvo tracollo di Bradford, non dovrebbe partire titolare. Rams e Eagles faranno di tutto per non bruciare i loro pesanti investimenti. 


6) I Colts possono tornare dov'erano due stagioni fa?

A gennaio 2015 i Colts perdevano la finale di Conference contro i New England Patriots, certificando un’altra stagione di miglioramenti, dalle Wild Card del primo anno di coach Chuck Pagano, passando per il Divisional round del 2014. Lo scorso anno, invece, Indianapolis, che molti in off-season vedevano come un’intrigante contender per il titolo, ha compiuto un deciso passo indietro terminando la stagione al 50% di vittorie e finendo fuori dai playoff per la prima volta in quattro anni.

Chiaramente, il fatto che gli infortuni non abbiano lasciato tregua a Luck - anche quando era regolarmente in campo - ha contribuito a mandare a sud la stagione, ma la sensazione è che la squadra sia stata costruita in maniera poco omogenea, abbondante in alcuni ruoli e decisamente scoperta in altri. Pagano si è attirato gran parte delle critiche in quanto allenatore, ma i demeriti vanno equamente divisi tra lui e il GM Ryan Grigson. Quest’ultimo, in quattro anni tra draft e free agency, ha cercato di dotare Luck di quante più armi offensive possibili, che spesso e volentieri si traducevano in ricevitori piccoli e veloci: i vari TY Hilton, che almeno si è dimostrato un’ottima scelta, Phillip Dorsett - colpevolmente scelto nel primo giro dello scorso draft, o i vari Lavon Brazill e Donte Moncrief (uno dei ricevitori più alti a roster, col suo metro e 88 cm), mentre l’esperimento Andre Johnson è durato una sola stagione. 

Un chiaro problema dei Colts è stato il running game, che è precipitato dall’undicesimo posto per DVOA del 2013 al 27esimo e 30esimo delle ultime due stagioni rispettivamente. Certo non è una novità per Indianapolis, che dal 2007 non ha un runner da almeno 1000 yard stagionali - Frank Gore si è fermato a 967 - vuoi perché il gioco è incentrato sul passing game, vuoi perché la o-line è decisamente mediocre, e poco negli ultimi anni è stato fatto per permettere un cambamento. Se non altro, appare azzeccata la scelta di Ryan Kelly, centro di Alabama, nel primo giro dello scorso draft per aprire varchi a Gore e mettere in moto il running game.

E se è vero che le squadre si costruiscono prima dalle trincee, i risultati recenti dei Colts potrebbero non essere un caso, viste le condizioni di entrambe le linee. Detto di quella offensiva, anche dall’altra parte del campo il problema è evidente, e non da oggi. Grigson ha cercato di porvi rimedio, invano. Il GM ha investito con parsimonia le scelte nel front seven e, quando ha premuto il grilletto, ha decisamente mancato il bersaglio: un esempio su tutti è Bjoern Werner, 21esima scelta assoluta nel 2013 che, dopo 6.5 sack in tre stagioni, non è più a roster.

Robert Mathis (19.5 sack tre stagioni fa ma con in mezzo un infortunio al tendine d’Achille alla veneranda età di 35 anni) e Trent Cole, le principali minacce in pass rush, sono ormai lontani dalla produzione dei giorni migliori, e i Colts, con 35 sack, hanno fatto peggio di sole quattro squadre per adjusted sack rate (5,7%). La difesa su corsa è mediocre (esattamente 16esima), e molto fa ancora D’Qwell Jackson, nettamente il miglior tackler di squadra, nonostante abbia perso più di un passo in coverage - aspetto in cui peraltro non ha mai eccelso. Tuttavia, Indy è una delle peggiori squadre per big plays su corsa concesse - cioè guadagni da almeno 10 yard - nella Lega, con 53. L’unica vera stella della difesa è il CB Vontae Davis, che rimane uno nei top nel ruolo. Lo dicono anche le statistiche, che lo collocano ai primi posti nella NFL per adjusted yards concesse per passaggio (5.2) e per success rate, cioè la percentuale di occasioni in cui il giocatore ha evitato un guadagno positivo in base al down (per esempio, una giocata del genere in un terzo down vale più che in un primo): la sua è del 60%. Se non altro, i Colts hanno migliorato l’altro spot di CB lasciando andare Greg Toler - uno dei peggiori nel ruolo in base alle stats di cui sopra - a Washington e sostituendolo con Patrick Robinson, firmato con un contratto da 13 milioni in 3 anni, un affare visto il rendimento nelle ultime due stagioni dell’ex Saints e Chargers.

Se l’anno scorso si parlava di Super Bowl, quest’anno non si va oltre i playoff, sapendo che la division - per quanto ancora di livello mediocre - ha un altro padrone fino a nuovo ordine, Houston, e due squadre in rampa di lancio in Jacksonville e Tennessee. Quel che è certo è che, se la stagione dovesse essere foriera di delusioni, Grigson avrebbe il benservito, e nemmeno Pagano dormirebbe sonni tranquilli. Visti le falle a livello di roster, di sicuro servirà la miglior versione di Luck, cioè questa:



Articolo a cura di Michele Serra


lunedì 29 agosto 2016

Occasioni sprecate

Hamilton parte ultimo ma finisce terzo e Rosberg spreca una chance per recuperare molti più punti nel Mondiale. La Ferrari ne spreca una forse irripetibile per puntare alla vittoria, Verstappen invece per smentire alcune etichette.

di Federico Principi






Quattro settimane di riposo dopo il Gran Premio di Germania avrebbero dovuto più che altro ricaricare il morale del team Ferrari, data l'impossibilità di compiere grossi stravolgimenti tecnici vista anche la chiusura aziendale per due settimane disposta dal regolamento. Il Gran Premio del Belgio sembrava apparentemente una pista Mercedes ma il fatto che la Pirelli sia giunta quest'anno a Spa con le super-soft ha scombussolato i piani un po' per tutti.

La Ferrari ha scelto un solo treno di medie e come sempre ha voluto puntare sulle gomme più morbide. Altri invece, compresa la Red Bull e anche Rosberg, ne hanno portati addirittura 4.

Problemi della super-soft
Già però nelle prove libere 2 del venerdì, nelle simulazioni sul passo gara, la super-soft ha mostrato un decadimento repentino. Perfino nei giri da qualifica tantissimi piloti hanno detto che sull'ultima chicane si avvertiva già meno grip, e per questo motivo l'out lap doveva essere lentissimo.

Le Mercedes non hanno neanche provato le super-soft sul passo gara nelle FP2, mentre Ferrari e Red Bull presentavano un comportamento leggermente diverso: mentre Ricciardo e Verstappen hanno registrato dei tempi di attacco molto più veloci di quelli di Vettel, il degrado sulla RB12 è sembrato più evidente, forse proprio per un eccessivo uso della gomma nei primi giri a serbatoio carico.

La grafica di "F1 analisi tecnica" mostra come le Red Bull siano più veloci nei primi due passaggi (da non considerare il 2:00 nel traffico di Verstappen al secondo giro) ma che successivamente le prestazioni tendano ad appiattirsi con quelle di Vettel.

In questo modo sembrava opportuno calcolare il delta prestazionale in qualifica tra super-soft e soft e tentare di passare il taglio della Q2 con la soft per partire proprio con quel tipo di gomma. Il delta poteva essere calcolato ad esempio quando, sempre nelle FP2, le due Manor di Wehrlein e Ocon (al debutto) sono scese contemporaneamente in pista ma con diverse mescole per la simulazione da qualifica. Ocon (con la super-soft) ha registrato un tempo di soli 4 decimi più veloce di quello di Wehrlein, ma a giudicare dalle dichiarazioni post-qualifica si poteva dedurre che il delta tra le mescole fosse in realtà superiore. Il francese ha infatti detto: «Ho fatto fatica con le super-soft, dovevo fare l'out lap più lento e l'ho capito solo ora, in Q1. Mi manca esperienza nel capire il comportamento della super-soft». 

Al netto delle capacità di guida dei due, il delta poteva così essere calcolato tra i 5 e gli 8 decimi: Rosberg nelle FP2 ha effettuato la simulazione da qualifica solo con la soft (forse con troppa sicurezza di ottenere poi la pole in assenza di Hamilton) ed era sicuro di passare dal Q2 al Q3 con quella gomma, Ferrari e Red Bull si sono regolate di conseguenza e Ricciardo e i due ferraristi hanno effettuato la stessa scelta. Verstappen invece, forse spaventato dal 7-1 sfavorevole in qualifica con il compagno fino a Hockenheim, non si è fidato e in Q2 ha stampato il tempo con la super-soft, anche se aveva già battuto Ricciardo nelle simulazioni sul giro secco nelle FP2 e poi anche a fine Q3, sempre di circa 2 decimi.

Nelle FP2 Ocon precede Wehrlein di quasi mezzo secondo, ma ad esempio Rosberg è più lento di solo mezzo secondo rispetto a Hülkenberg nonostante sia l'unico dei piloti di testa a non aver fatto il tempo con la super-soft. Rosberg ha comunque 1.2 secondi di margine sull'undicesimo e in questo modo la qualificazione da Q2 a Q3 con le soft, nel giorno successivo, sembra sicura.

Ferrari per la vittoria
Nelle FP3 del sabato mattina la Ferrari si è presentata con un assetto radicalmente diverso. Sia Ferrari che Red Bull al venerdì avevano montato l'ala posteriore praticamente in configurazione-Monza, a bassissimo carico, per tenere il passo delle Mercedes che hanno invece riproposto a Spa l'ala "a cucchiaio" anche in questa stagione, più carica. La Ferrari ha forse fatto più una scelta difensiva nei confronti della Red Bull per tenere il passo di Ricciardo e Verstappen nel secondo settore, ma grazie al potentissimo motore i ferraristi hanno trovato un compromesso nettamente migliore che poteva addirittura far sognare la vittoria.

In Q3 Verstappen è il più veloce nel secondo settore grazie al telaio Red Bull, ma Raikkonen è migliore di Ricciardo nello stesso punto. Nel primo e nel terzo settore (dove conta di più il motore) Rosberg è il più veloce davanti ai ferraristi e le Red Bull sono molto indietro in entrambi i punti della pista. Vettel nel terzo settore ha però un deludente ottavo tempo: forse, come nella passata stagione, è arrivato con poca gomma nell'ultima chicane, mentre Raikkonen (che fa di solito più fatica a scaldare le gomme ma le degrada anche leggermente di meno) era più efficiente nell'ultimo intermedio, secondo solo a Rosberg.

Nonostante l'assetto più carico rispetto al venerdì, infatti, le Ferrari hanno comunque registrato delle altissime velocità di punta in qualifica, dove tutti arrivano alla speed trap nelle stesse condizioni (senza scia e con il DRS aperto). Verstappen pagava un po' dazio rispetto a Ricciardo, confermando (vista la sua superiorità nel settore centrale) di essere probabilmente un po' più carico dell'australiano.

Non solo l'assetto più carico al posteriore ha garantito un salto di qualità prestazionale sul giro secco (Raikkonen in Q3 a poco più di un decimo da Rosberg su una pista lunghissima), ma in questo modo la Ferrari avrebbe dovuto contenere molto di più il degrado rispetto a una Red Bull molto scarica e che già a Baku, con la stessa configurazione aerodinamica, aveva sofferto tantissimo con gli pneumatici in gara.

Le Ferrari in griglia erano oltretutto in seconda fila ma davanti a loro si stagliavano solamente Rosberg e Verstappen che però partiva con le super-soft, destinato a consumarle col serbatoio carico mentre gli altri piloti di testa avrebbero proseguito abbastanza comodamente con le soft. Nonostante uno scatto al via di entrambi i piloti in Rosso migliore di quello di Verstappen, l'olandese si è infilato alla prima curva duro ma corretto su Raikkonen, Vettel non ha colpevolmente visto o immaginato la situazione e ha girato troppo presto, rovinando la gara di tutti e tre.

Da qui si vede come Verstappen giri molto interno ma non accompagna fuori Raikkonen in uscita di curva: la sua manovra, per una volta, era corretta.

La Ferrari si era presentata in griglia con le gomme soft usate e la scelta di un solo treno di medie per tutto il weekend, neanche utilizzato e per questo rimasto nuovo per la gara, poteva far pensare che nella parte finale di gara, a serbatoio scarico e con pista gommata, le Rosse avrebbero potuto sferrare addirittura l'attacco alla leadership con le super-soft che a fine gara potevano percorrere anche una decina di giri, anche se poi le medie su Rosberg hanno dimostrato di funzionare benissimo.

I treni di gomme disponibili per la gara. Rosberg aveva addirittura 2 medie nuove, Ricciardo perfino una super-soft nuova risparmiata con audacia nel Q2 mentre le Ferrari erano rientrate in pista per sicurezza qualora eventualmente qualcuno da dietro le avesse passate, ma poi hanno giustamente abortito il giro per partire con la soft.

La gara dei tre piloti coinvolti nell'incidente al via è diventata di fatto ingiudicabile, se si esclude il successivo indecente comportamento di Verstappen nei confronti di Raikkonen, commentato dall'olandese in questo sconcertante modo: «Sono stati molto aggressivi con me alla prima curva, hanno distrutto la mia gara, dopodiché io non volevo lasciarli passare perché loro mi avevano danneggiato in precedenza». L'olandese ha effettivamente accusato un degrado anomalo per tutta la gara a causa dei danni meccanici dopo la prima cirva, ma non è certo un alibi per giustificare successivi comportamenti fuori dalle regole per almeno due volte contro Raikkonen.

Dove voleva andare Verstappen?

Vettel almeno nel finale ha avuto pista libera e - nel confronto con Hülkenberg e soprattutto Perez (che sembravano minacciosi per tutti alla vigilia, con un passo gara simile a Ricciardo nei primi giri), che lo precedeva e sentiva quindi più pressione - ha evidenziato come la Ferrari, nonostante sia passata prima attraverso un altro treno di soft e poi direttamente alle medie snobbate prima del weekend, abbia sofferto pochissimo degrado grazie al buon telaio e soprattutto all'assetto scelto nelle FP3. Una grossa chance sprecata, almeno per riguadagnare punti sulla Red Bull in classifica costruttori.

Grafico "Forix" sull'andamento dei tempi in gara. Nel secondo stint Vettel è sulla soft usata per 14 giri (16 quelli massimi previsti dalla Pirelli) e guadagna tantissimo su Perez che è sulla media nuova per 15 passaggi (24 massimi indicati dalla Pirelli). Nel finale entrambi tornano sulla media nuova e, nonostante qualche corpo a corpo in più e quindi un grosso sforzo sulle gomme, Vettel continua a guadagnare nel finale ma poi si rassegna salvando il motore negli ultimi giri. 

Il duello al vertice
Lewis Hamilton era arrivato al limite di utilizzo delle componenti della power unit e ha giustamente scelto Spa per scontare le penalità previste già da inizio stagione dopo le frequenti rotture. Insieme con il team Mercedes hanno deciso di introdurre numerosissimi nuovi elementi tutti insieme, per scontare una penalità ancora più grande (è comunque partito ventesimo dopo le penalità ad Alonso e la partenza dai box di Ericsson) senza dover pagare ulteriori dazi da qui a fine campionato.

Hamilton si è concentrato sul passo gara per tutto il weekend. Nelle libere 2 ha provato soft e medie, in Q1 è sceso in pista con la super-soft per fare un tempo che lo facesse stare sotto il 107% per poi addirittura fare altri passaggi in simulazione gara. In questo modo ha potuto liberamente scegliere la gomma con cui partire: la scelta è ricaduta sulla media, così come il compagno di penalizzazioni Alonso, per prolungare più possibile il primo stint e scremare il traffico, contando sulla superiorità della Mercedes.

Hamilton è stato fortunato ad approfittare del triplice incidente al via che ha tagliato fuori le Ferrari e Verstappen, e fortunato anche per la neutralizzazione della corsa dopo lo spaventoso incidente a Magnussen. Mercedes e Red Bull sono state inoltre intelligenti a non rientrare ai box durante la Safety Car perché consapevoli che sarebbe arrivata la bandiera rossa visto il pericolosissimo stato delle barriere in uscita dal Raidillon, con troppo tempo da dedicare alla sistemazione da parte dei commissari.

Con la bandiera rossa Hamilton e Rosberg, separati da sole 3 vetture in mezzo tra cui l'attaccabile McLaren-Honda di Alonso, hanno incrociato la strategia. Hamilton ha scartato la media nuova dopo soli 10 giri, Rosberg ha invece definitivamente smarcato la soft e si è buttato sulla media, risultando vincente non solo in pista ma anche nell'interpretazione delle scelte.

La grafica di "F1 analisi tecnica" ci suggerisce i tempi medi delle simulazioni gara. Hamilton è più veloce sulla soft nuova rispetto alla media usata, così come Rosberg, ma l'interpretazione della gara è stata diversa e il tedesco stavolta ha calcolato meglio tutte le variabili in gioco.

Quantificando la Pirelli in 16 giri la durata massima della soft, Hamilton dovrebbe aver pensato di poter coprire due stint con le soft, a 34 giri dal termine. La sua simulazione con la soft nel venerdì era stata ottima e più lunga di quella di Rosberg, si suppone anche provata con il pieno di carburante, e Hamilton è stato richiamato al giro 21, troppo presto per poter concludere la gara con un altro treno di soft. Nel finale al box Mercedes gli hanno di nuovo montato la media per gli ultimi 12 giri, e lo stesso Hamilton è rimasto molto perplesso dopo questa scelta.

Nelle libere Hamilton aveva fatto questo lungo run con le soft nuove senza degrado, registrando nei due giri successivi anche un 1:55.8 e un 1:54.8.

Il traffico nel secondo stint, il primo dopo la ripartenza a seguito della bandiera rossa, ha dato una bella mazzata alle gomme di Hamilton. Dopo essersi liberato di Alonso l'inglese ha preso un po' di spazio da Hülkenberg per far riposare le gomme e sferrare poi l'attacco vincente al giro 18, ma ai giri 18, 19 e 20 Hamilton è sempre stato più lento di Rosberg e al giro 21 è rientrato ai box dopo aver detto alla radio: «Sto scivolando tantissimo». Nel frattempo aveva accumulato oltre 11 secondi di ritardo da Ricciardo, che si è fermato 4 giri dopo per andare fino in fondo con le medie, e in quel momento al box Mercedes hanno capito che la strategia migliore fosse quella di consolidare il miracoloso terzo posto.

Anche a ridosso della sosta di Rosberg al giro 26, Hamilton con soft nuova guadagnava pochissimo sul compagno di squadra: Hamilton non aveva tanto sbagliato i calcoli sulla durata della soft, quanto aveva soprattutto sottovalutato il potenziale prestazionale della media sul passo gara, che al venerdì si surriscaldava forse troppo (la media lavora bene a temperature più basse della soft) per colpa delle alte temperature, mitigate un po' in gara, oltre che delle pressioni di gonfiaggio altissime previste dalla Pirelli dopo lo scoppio di Vettel dello scorso anno. La sfortuna di trovarsi davanti il traffico ha toccato i delicati equilibri della soft, consumandola troppo e obbligando Hamilton da lì in avanti a una strategia più conservativa.

Le strategie di tutti i piloti.

Ricciardo nel frattempo aveva confermato le perplessità circa la gestione del degrado della Red Bull con l'ala molto scarica, forse ancora più scarica di quella di Verstappen. Al giro 5 aveva già accumulato oltre 6 secondi di ritardo da Hülkenberg (che comunque aveva le super-soft usate) e si lamentava di fare «fatica con le gomme anteriori». Al giro 30, dopo soli 5 passaggi sulla media nuova, comunicava al team via radio che «la posteriore sinistra è molto usurata».

Grafico "Forix" sull'andamento dei tempi in gara. Ricciardo nel secondo stint ha un crollo verticale di prestazione con la soft nuova. Nel finale fa molta fatica a tenere il passo di Rosberg a parità di gomma media nuova. Una brutta gara per l'australiano, miracolato dalla penalità a Hamilton e dal triplice incidente Raikkonen-Vettel-Verstappen alla prima curva.

Riflettendo in pista i dubbi sulla gestione del degrado in casa Red Bull, la Ferrari a posteriori ha buttato via una grossa chance per ottenere quanto meno un doppio podio alle spalle di Rosberg, per non dire qualcosa di più. Marchionne ha ingiustamente criticato i piloti per non aver centrato la pole position ma di certo le performance in piste di motore come Spa e Montréal confermano che ormai anche in Ferrari abbiano l'extra-power per la qualifica come in Mercedes e che almeno a livello di potenza massima i due motori siano realmente giunti quasi ad equivalersi. Il Gran Premio d'Italia a Monza, il "tempio della velocità", sarà più che indicativo in questo senso, anche se stavolta le Mercedes a dare fastidio saranno due.


Articolo a cura di Federico Principi


martedì 9 agosto 2016

L'ossessione dell'oro

Il Brasile non ha mai vinto l'oro olimpico nel calcio. Nonostante alcuni problemi e due pareggi iniziali, non può fallire nell'appuntamento casalingo di Rio de Janeiro.

di Federico Principi







La disciplina del calcio ai Giochi Olimpici è stata introdotta nella seconda edizione delle Olimpiadi moderne a Parigi nel 1900 e da lì sempre inclusa nel programma, ad eccezione di Los Angeles 1932. 

La prima partecipazione del Brasile si registra a Helsinki 1952, due anni dopo il terrificante Maracanazo dei Mondiali casalinghi ad opera dei rivali dell'Uruguay. Il Brasile non va oltre i quarti di finale e non entra in zona medaglia. Per tornare ad avere possibilità di indossare un metallo al collo i verdeoro dovranno aspettare Montréal 1976, ma cederanno all'Unione Sovietica nella finale per il bronzo. 

Da Los Angeles 1984 - ad eccezione delle edizioni 1992 e 2004 in cui non si qualifica - il Brasile tornerà sempre ad ambire alla medaglia d'oro, senza riuscirci: due argenti nel 1984 e nel 1988 (sconfitte rispettivamente contro Francia e di nuovo Unione Sovietica), bronzo ad Atlanta 1996, quarti di finale a Sydney 2000, di nuovo bronzo a Pechino 2008 fino al sanguinosissimo argento di Londra 2012, condannati alla disfatta dal Messico dopo aver portato ai giochi perfino Thiago Silva e Marcelo come fuoriquota.

Il Messico piega il Brasile a Wembley, a sorpresa.

Il Brasile si presenta quindi ai giochi di Rio condannato a vincere, nella prima Olimpiade ospitata in patria, due anni dopo la seconda competizione mondiale persa in casa dopo il terribile 7-1 subìto dalla Germania. Per evitare la terza delusione in un torneo globale organizzato dal Paese carioca, il Brasile si è dotato di due fuoriquota di alto livello (Renato Augusto e soprattutto Neymar) e di under 23 già blasonati come Marquinhos e Felipe Anderson e altri finiti nell'occhio del ciclone in questa ultima sessione di mercato come Gabriel Barbosa (conosciuto da tutti come Gabigol) e Gabriel Jesus, appena acquistato dal Manchester City di Guardiola.

Le difficoltà contro il Sudafrica
La partita inaugurale di una manifestazione per Nazionali - soprattutto rappresentando la Nazione di casa - si può trasformare in alcuni casi in una passerella particolarmente trionfale, in altri in un'esibizione contratta e condizionata dal contesto in cui si fa fatica ancora a rompere il ghiaccio. Al di là dell'emozione e del risultato sicuramente negativo (uno 0-0 contro una selezione decisamente inferiore a livello di organico), il Brasile ha comunque evidenziato al suo esordio alcune lacune che ne hanno fortemente condizionato la prestazione.

Con un roster formato da gente con i piedi buoni in tutte le zone del campo la conseguenza naturale è che il Brasile ha quasi sempre il possesso in mano. Fin dalla costruzione bassa, però, si sono palesate alcune incongruenze che impediscono ai verdeoro di sfruttare tutto il proprio potenziale.

Il Brasile si è schierato con un vero e proprio 4-3-3, con Felipe Anderson mezzala destra a tutti gli effetti a fianco del mediano Thiago Maia e dell'altra mezzala Renato Augusto. Gli elementi offensivi erano Neymar e Gabigol esterni a piede invertito e Gabriel Jesus schierato di base come prima punta, ma in realtà più volte libero di scambiarsi la propria posizione proprio con Gabigol.

In questo modo in fase di possesso i terzini della linea a 4 avrebbero dovuto sfruttare le capacità nel dribbling di Neymar e Gabigol per attaccare in ampiezza, complice anche il fatto che nessuno dei due esterni offensivi abbia la tendenza ad andare sul fondo con il piede debole e che le marcature del Sudafrica fossero estremamente orientate all'uomo e quindi propense a lasciare spazi in ampiezza nel momento in cui un esterno offensivo rientrava verso il centro. In realtà la posizione dei terzini era estremamente timida fin da inizio azione, probabilmente per paura di lasciare ampi spazi alle spalle in caso di (molto molto improbabile) perdita del pallone o comunque per lasciare l'opzione di scaricare lateralmente la costruzione bassa.

I due terzini, Zeca a destra e Douglas Santos a sinistra, sopra la linea dei centrali ma comunque abbastanza bassi. La prima linea di pressing dei due attaccanti sudafricani è piuttosto bassa e poco aggressiva e Thiago Maia non ha bisogno di allinearsi a Marquinhos e Rodrigo Caio per evitare un ipotetico 2vs2 delle punte sudafricane contro i centrali brasiliani.

Con una pressione poco convinta da parte delle due punte avversarie la salida lavolpiana formata dall'abbassamento di Thiago Maia non era necessaria, ma date le difficoltà del Brasile ad aprire il campo in ampiezza l'allargamento dei due centrali avrebbe permesso ai terzini di sentirsi molto più liberi di spingersi in avanti dando una mano agli esterni offensivi e allargando la difesa avversaria, senza dover per forza sviluppare azioni sempre in zone piuttosto centrali.

Anche in questo caso Thiago Maia rimane un po' più avanzato dei centrali che rimangono stretti, ma con la mezzala Renato Augusto che si apre lateralmente, Douglas Santos si sente molto più libero di avanzare a metà campo mentre Zeca rimane invece molto basso. Se i centrali si aprissero molto di più, non sarebbe necessario l'allargamento di una mezzala per rassicurare il terzino ad abbandonare la propria posizione sicura a protezione.

Il problema del mancato sfruttamento dell'ampiezza è diventato una certezza in più nelle mani del Sudafrica che in questo modo ha avuto più facilità a difendere, concentrandosi principalmente nelle zone centrali ben sapendo che sarebbero state quelle quasi esclusivamente attaccate dal Brasile.

Da poco più di mezz'ora dal fischio finale i verdeoro hanno anche avuto l'opportunità di sfruttare la superiorità numerica per l'espulsione del mediano sudafricano Mvala. Con la pressione che saliva per un risultato che non arrivava, il Brasile si è però affidato principalmente a combinazioni strette tra i solisti con Neymar sempre coinvolto (grazie a una di queste, Gabigol ha sfiorato il gol del vantaggio), attaccando in questo modo la difesa schierata del Sudafrica e senza cercare una più prevedibile ampia circolazione del pallone alla ricerca di uno spazio o un uomo inevitabilmente liberi. I "Bafana Bafana", nonostante l'inferiorità numerica, si sono così chiusi centralmente sapendo che il target dell'azione verdeoro sarebbe stato proprio quello.

La mezzala Luan, subentrato a Felipe Anderson, chiede l'uno-due a Neymar che gli restituisce il pallone. Al Sudafrica basta tenere due uomini su Luan e in generale 5 uomini sui 4 offensivi del Brasile per neutralizzare la manovra. La linea sudafricana è strettissima e ci sarebbe un'autostrada per il terzino Douglas Santos, timido ad attaccare lo spazio e per di più ignorato dai compagni offensivi che vogliono fare tutto da soli, anticipati nelle intenzioni dai difensori del Sudafrica.

Negli ultimissimi minuti, infatti, con il Sudafrica ormai schiacciatissimo i terzini carioca si sono finalmente presi libertà di attaccare gli spazi, senza più paura di difendere, e hanno così allargato le maglie della difesa avversaria approfittando dell'accentramento degli esterni. Era comunque ormai troppo tardi per realizzare il gol del vantaggio.

Con Neymar che viene molto dentro, Zeca (passato a sinistra dopo l'uscita dal campo di Douglas Santos) si alza e finalmente disordina e allarga la linea sudafricana. Con Gabigol e Gabriel Jesus marcati nuovamente a uomo, ci sarebbe lo spazio per la rifinitura di Rafinha sia verso Zeca sulla corsa, sia soprattutto verso Luan che attacca lo spazio intermedio, ma il centrocampista del Barça (subentrato anche lui) ignorerà la possibilità di aprire il gioco verso quella zona di campo.

Un altro problema che ha limitato le capacità del Brasile di creare occasioni da gol contro una difesa schierata è stato l'assenza di prime punte di ruolo. Nessuno tra Neymar, Gabigol e Gabriel Jesus possiede in quello di centravanti il proprio ruolo naturale e Micale ha dovuto adattare principalmente proprio Gabriel Jesus in quella posizione, alternandolo in alcuni casi con Gabigol che però serviva nel suo piano come esterno destro mancino. Il neo-acquisto del City ha mostrato un'ottima tendenza a tagliare in verticale solo in situazioni dinamiche, non disordinando praticamente mai la difesa sudafricana con movimenti sull'asse verticale o in diagonale (sia a venire incontro per portare via un uomo - viste anche le spiccate marcature a uomo del Sudafrica - sia ad andare in profondità per allungare le spaziature) nel momento in cui la linea del Sudafrica era schierata in situazioni statiche, come per gran parte del secondo tempo.

Lo stesso Felipe Anderson, come visto in un'istantanea soprastante, è stato coinvolto molto centralmente nelle fasi di uscita del pallone, sfruttando ovviamente la sua grande tecnica, e molto più raramente ha attaccato l'ampiezza aperta dal movimento di Gabigol verso il centro. Una soluzione che il Brasile avrebbe potuto sfruttare poteva essere infatti quella (favorita dal 4-3-3) di creare catene laterali a 3 uomini con continui interscambi di posizioni e poi sfruttare la superiorità numerica eventuale in quella fascia, o cambiare gioco verso il lato debole trovando l'esterno opposto pronto all'1vs1 isolato. Soprattutto la catena di destra, grazie proprio alla presenza di Felipe Anderson, poteva essere sfruttata maggiormente anche per isolare Neymar sul lato opposto, rendendolo devastante nell'1vs1 nonostante non sembri più esattamente brillante come nei giorni migliori.

Qui in posizione di esterno destro c'è Gabriel Jesus. Seguito a uomo dal terzino Mekoa (da notare quanto si allontana dalla linea difensiva), libera lo spazio attaccato da Felipe Anderson (seguito a uomo dal mediano Mvala) che viene lanciato in un movimento che il laziale è abituato a fare. L'azione comunque è piuttosto individuale e non rientra in un piano tattico di creazione di una catena laterale.

Le correzioni contro l'Iraq
Il Brasile ha ottenuto lo stesso risultato nella seconda partita contro l'Iraq, dopo aver espresso un gioco più fluido e più completo, nonostante tutto. Rogerio Micale ha opportunamente apportato delle modifiche che hanno rivisto il modo di attaccare della sua squadra anche se non le hanno consentito di sbloccare il risultato, ma solo per colpa di circostanze sfortunate.

La formazione di partenza era apparentemente la stessa, ma proprio per cercare di attaccare meglio l'ampiezza Micale ha scambiato di posizione Felipe Anderson e Renato Augusto, portandoli rispettivamente sul centro-sinistra e sul centro-destra.

L'azione partiva dall'uscita di un difensore centrale verso Renato Augusto che nel frattempo raggiungeva praticamente in ogni occasione la linea di Marquinhos e Rodrigo Caio. In alcune occasioni si creava addirittura un rombo con Thiago Maia vertice alto, Marquinhos vertice basso e Renato Augusto e Rodrigo Caio vertici laterali per facilitare l'uscita del pallone, con i terzini più alti (verso la linea di centrocampo) per occupare l'ampiezza.

Il rombo basso che consolida il possesso e permette al resto della squadra di stare più alta.

Nella maggior parte dei casi Renato Augusto veniva invece sul centro-destra per dare modo a Zeca di attaccare lo spazio in avanti, che talvolta era lo spazio interno vista la posizione di Gabigol (ma anche di Gabriel Jesus) non di rado praticamente coincidente alla linea laterale. Zeca insieme all'esterno offensivo di turno allargavano e mettevano in crisi la difesa iraqena sulle scelte da effettuare in copertura e molto spesso il Brasile ha creato occasioni da quel lato, senza tuttavia mai effettuare un cambio di gioco sfruttando il lato debole.

L'avvio della catena di destra, fonte principale delle azioni brasiliane contro l'Iraq. Il giro palla difensivo si conclude con Renato Augusto che viene vicino a Marquinhos, mentre Zeca si alza e occupa lo spazio interno vista la posizione larghissima di Gabigol (fuori inquadratura).

Meno di frequente - e in modo stranamente meno efficace visti gli interpreti (Felipe Anderson e Neymar) - veniva attivata la catena di sinistra, nella quale il terzino Douglas Santos faceva da contraltare all'aggressività di Zeca e rimaneva piuttosto basso, dimostrando di essere meno abile del suo omologo nella proiezione in avanti e per questo meno sollecitato a sganciarsi. Felipe Anderson stavolta non è stato coinvolto spesso attivamente nell'uscita della palla nelle zone centrali e questo la dice lunga sulle intenzioni di Micale di sfruttare molto di più l'ampiezza rispetto alla partita con il Sudafrica.

Con Douglas Santos in possesso ma che rimane bloccato, si attiva la catena di sinistra con Neymar che viene incontro e Felipe Anderson che attacca ampiezza e profondità

Non è un caso infatti che Felipe Anderson sia stato richiamato all'intervallo, sostituito nuovamente da Luan che ha preso una posizione più centrale, quasi da trequartista, mentre Douglas Santos attaccava molto più liberamente l'ampiezza rispetto al primo tempo. Come nella catena di destra, anche in quella di sinistra Micale ha schierato un attaccante esterno a piede invertito e un terzino ad attaccare lo spazio con il piede forte per allargare ulteriormente il campo. Nel primo tempo invece (con Douglas Santos più bloccato) sia Neymar che Felipe Anderson attaccavano la fascia sinistra a piede invertito: gli sganciamenti del terzino sinistro nella ripresa hanno permesso così al Brasile di guadagnare un ulteriore uomo in fase offensiva.

Luan attacca lo spazio centrale mentre Douglas Santos attacca l'ampiezza aperta da Neymar che punta l'avversario verso l'interno. Rispetto al primo tempo il Brasile ha un uomo in più nella trequarti avversaria.

Alla fine anche la catena di destra, seppur chiamata in causa molto più spesso di quella di sinistra, non sempre è stata perfetta nei tempi e nelle sincronie nell'occupazione degli spazi. Ovviamente il Brasile Olimpico è una selezione che non possiede movimenti codificati come del resto accade a quasi tutte le altre Nazionali (ad eccezione dell'Italia di Conte, ma lì il contesto era diverso) e anche contro l'Iraq il tentativo di scardinare la difesa asiatica è stato deputato piuttosto spesso a combinazioni centrali tra le 3 punte, con Gabriel Jesus che stavolta è sembrato molto più attivo senza palla anche in situazioni statiche.

Prospettive
La prestazione di esordio contro il Sudafrica è stata piuttosto sconfortante e il modo con cui Micale ha parzialmente aperto in larghezza il campo soltanto tre giorni più tardi potrebbe far pensare che il reale potenziale di questa squadra sia molto più alto rispetto a quello visto in queste prime due partite, nella prima in particolar modo.

Il Brasile possiede anche una discreta organizzazione difensiva nelle situazioni di possesso statico avversario. I verdeoro si schierano con il canonico 4-3-3 di base, piuttosto stretto, nel momento in cui il portiere avversario deve avviare l'azione, per poi ripiegare in un 4-1-4-1 compatto quando il possesso avversario è consolidato. Un sistema che richiede costante sacrificio alle due punte esterne (Neymar da una parte, Gabigol o Gabriel Jesus dall'altra) e soprattutto a Felipe Anderson, costretto a stringersi per coprire le zone centrali quasi come un vero e proprio mediano, anche se con Thiago Maia sempre pronto alle spalle. Il pivot del Santos, accostato al Chelsea di Conte, permette inoltre alle due linee di non appiattirsi eccessivamente in modo da scatenare un'eventuale transizione soprattutto degli esterni alti.

Il 4-3-3 del Brasile a inizio azione avversaria (sopra) diventa un 4-1-4-1 molto organizzato (sotto) quando il possesso avversario è consolidato ed è impossibile recuperare immediatamente il pallone. Si sacrificano gli esterni d'attacco e soprattutto Felipe Anderson.

Oltre all'occupazione dell'ampiezza è emerso anche un piccolo problema nelle transizioni difensive, nelle quali l'uomo più vicino al portatore avversario - e insieme a lui anche i suoi compagni di reparto - ha fatto spesso fatica a capire se attaccare direttamente l'avversario o temporeggiare, finendo per concedere quel tempo di gioco che in una transizione veloce può essere fatale. Anche la linea difensiva non sempre accompagna l'aggressione ai portatori avversari, quando c'è: tende anzi a scappare indietro e in situazioni così dinamiche c'è il rischio che il Brasile si allunghi, anche se a protezione dell'area rimangono quasi sempre almeno 3 uomini (i centrali più Thiago Maia) con l'aggiunta sporadica di un terzino non coinvolto attivamente nelle fasi di possesso.

Le transizioni offensive sono invece un fondamentale che, vista la tecnica e la velocità degli interpreti, dovrebbero rappresentare un'arma letale per il Brasile. La conduzione delle transizioni però è troppo spesso individuale e quasi mai organizzata e questo limita fortemente il potenziale della selezione verdeoro in queste circostanze.

Il Brasile è probabilmente la Nazionale più accreditata alla medaglia d'oro, in virtù principalmente di una rosa fortissima (soprattutto relativamente al contesto), ma ha dimostrato che nel calcio contano ancora organizzazione e disciplina tattica. La vittoria del torneo olimpico sarà molto più complicata del previsto da ottenere e Micale, i giocatori e soprattutto il popolo carioca dovranno sudare freddo per evitare un altro Maracanazo.


Articolo a cura di Federico Principi