mercoledì 13 maggio 2015

El hombre vertical

Una storia di tenacia, di forza di volontà, di ossessione, di sfida continua verso i propri limiti. Una storia di calcio di una verticalità folle, geometrico ma fantasioso.
La storia di Luis Enrique Martínez García, semplicemente Luis Enrique.

di Santiago Tedeschi







"Dormire per terra, con le pietre che ti si conficcano nel corpo, sopportare le bufere, che ti cada la tenda durante la notte, fare i tuoi bisogni davanti a tutti e vedere come lo fanno anche gli altri, mangiare poco, passare freddo e caldo in un breve spazio di tempo, sopportare il russare e tenere sempre con sé acqua è parte del viaggio della Maratona delle Sabbie e ti assicuro che sarà parte di un ricordo indimenticabile della tua vita". 

Questa è l’idea di divertimento che ha Luis Enrique. Senza dubbio è un uomo particolare. Il triathlon, la maratona, Ironman: sono le sue passioni. Prove sportive che richiedono un livello ossessivo di forza di volontà. “Quanto mi fa star bene mettere in agenda gli allenamenti” scriveva nella sua pagina web. Si tratta di un uomo a cui piace annotare minuziosamente la sua sofferenza ermetica, familiare e sportiva fino al punto da farci pensare che possiede qualcosa del semplicistico auto-assorbimento dell’atleta. (Non hanno i grandi allenatori una visione paternalistica, esperta e più ampia della vita?).


Luis Enrique e la sua "verticalità".
Fece parte dell’ultima generazione del calcio "asturiano" (odio eterno al calcio moderno). Debuttò con lo Sporting nel 1989, era un promettente attaccante centrale che cominciò con rovesciate, ma finì con lo scalare la sua posizione. Nel Real Madrid, tra alti e bassi, finì per giocare terzino. Dopo 5 anni nella capitale spagnola contraddistinti da una grande professionalità, lo acquistò il Barcellona. La storia è famosa. Otto stagioni dove migliorò e finì per diventare una stella. Arrivò fino ai 20 gol in una stagione e finì nel centrocampo della squadra di Van Gaal, buono, ma incompreso. Prima, con Robson, brillò nell’anno della Coppa del Re e della Recopa insieme a Ronaldo.


Luis Enrique e il naso rotto, Luis Enrique e il sangue.
Luis Enrique si ritira proprio quando sta cominciando il boom del grande Barça e il ciclo trionfante della Nazionale spagnola. Condivide la squadra e lo spogliatoio con quei giovani chiamati a vincere tutto. Un calciatore, quindi, di transizione, che in Nazionale ci lasciò con quell'immagine che tutti conosciamo, il naso rotto e il pugno di Tassotti. Quella fu l’ultima immagine, l’ultima figurina, il canto del cigno della "Furia".

Luis Enrique e il Triathlon.
Come allenatore e come persona, Lucho, è veramente un uomo misterioso. È parte ormai della tradizione asturiana del Barça, ma è un asturiano particolare, non è un asturiano simpatico come Abelardo o come Quini. È un asturiano arrabbiato con quel suo gesto famoso di serrare le labbra, un gesto di nervosismo, di tensione davanti alla stampa e forse, anche peggio, un gesto di dubbio, di non avere le idee chiare e di camminare pensando alle scelte che dovrà prendere.
Con la stampa ha un rapporto molto equilibrato. A Barcellona ancora non ha sofferto critiche, ma a Roma la pressione lo ha ferito. "Tranquilli, un giorno in meno e poi non mi vedrete", arrivò a dirgli. Chi l’ha visto in conferenza stampa racconta di un uomo cordiale, tranquillo, ma duro se vuole, tagliente.

Luis Enrique e Federico Buffa.
Luis Enrique è protagonista di uno degli episodi più controversi del rapporto non felicissimo tra Federico Buffa e il "giornalismo calcistico" volgare. Si narra che questa intervista fu la causa del suo allontanamento da Sky Calcio Show. 

Luis Enrique debuttò mentre Pep Guardiola construiva la storia blaugrana. Nel Barcellona B, filiale della prima squadra, arrivò in Segunda (la nostra Serie B) e finì terzo, record per quella squadra. Nell'aria c’era una suggestione logica che, forse proprio per quella coincidenza e per essere un maniaco del triathlon, Luis Enrique sarebbe finito per essere il sostituto di Guardiola. Ma Luis Enrique non cadde nelle mani del cruyyfismo, non cadde nella mani del tiqui-taca. Dopo il Barça B, andò a Roma. Lì passò un anno difficile. Cominciò scegliendosi casa in un quartiere laziale, sfortunato, e oltretutto litigò con tutti quando decise di mettere in panchina Totti, simbolo di Roma. Con il tempo, il capitano riconobbe il lavoro di Luis Enrique, ma in uno dei primi allenamenti entrò a Trigoria con una maglietta dove si poteva leggere: "Basta!". All'esperienza romana e romanista deve la fama di avere una mano dura con le stelle. Arrivare a Roma e come prima cosa mettere in panchina Totti dimostra coraggio, ma forse mancanza di quello che si potrebbe chiamare "gestione del tempo".


Luis Enrique e Francesco Totti.
A Roma, la squadra non finì mai di definirsi, non c’era fluidità nel gioco e non riuscì mai a completare la sua idea di attacco attrattivo. Forse la cosa più audace fu reinventare De Rossi come difensore. A Roma Luis Enrique soffrì. Decise di annullare l’anno di contratto che gli rimaneva e tornò in Spagna. Passò un anno sabbatico, facendo chilometri a piedi o in bici con il suo gruppo di amici.
Dopo Roma e quell’anno correndo arriva a Vigo. Il Celta arriva ottavo. Una buona stagione mentre il Barça passava per l’anno di transizione del Tata Martino.

Prima di arrivare a Barcellona Luis Enrique postò una foto sul Mortirolo. Conosce bene le più alte montagne. Ma non sappiamo come si comporterà nella scalata alla montagna calcistica più alta. Nelle sue dichiarazione cerca constantemente il termine medio, l’equilibrio, fugge dagli estremi: "L’elogio debilita. Se mi elogiano, mia moglie mi rimette subito con i piedi per terra quando torno a casa". Luis Enrique è già completamente culè. Metodo, miglioramento e sacrificio. Mentalità Ironman.


Tre professionisti del Barcellona (due giocatori e un "tradutor de futbol") camminano lungo una strada bagnata. Uno dei momenti germinali del calcio contemporaneo. Si può fotografare il "tempo"? Evidentemente si: passato, presente e futuro.
Una cosa sembra piuttosto chiara. Nella sua carriera come allenatore non è ancora riuscito a mostrare un calcio all'altezza del tifoso culè. Avere carattere, essere ossessivo, non significa essere Guardiola. Pep fu il mister del cardigan perfettamente in ordine, mentre  Luis Enrique ha portato una "ribellione serena" a Can Barça. Gli manca trasmettere la sua idea di calcio verticale, la capacità che le sue squadre attacchino sinfonicamente.  Dopo esser riuscito a trovare un equilibrio con il doppio centrocampista con Rakitic e Busquets gli manca il difficile: la scienza o l’arte dell’attacco, quel segreto che da Cruyff in poi possiede solamente il Barcellona.
Il gioco del Barcellona questa stagione forse ci ha messo un po’ a definirsi, ma finalmente possiamo rappresentare chiaramente un analisi tattica globale e minuziosa del Barcellona di Luis Enrique.


Luis Enrique e Pep Guardiola pt.1.
Il fatto principale ed evidente è che il gioco di Guardiola non potrà mai essere superato, fu qualcosa di nuovo e determinante, qualcosa che fece storia, creò un prima e un dopo nella forma di vedere il calcio. Pep incontrò dei giocatori determinati, in uno stato di forma eccezionale e in una situazione privilegiata, tutto questo li portò a vincere tutto e a stabilire un’egemonia mai vista prima. I due allenatori che ereditarono il lavoro di Guardiola, secondo me, fecero un grande errore che fu quello di cercare di imitare uno stile già finito o meglio, neutralizzato. Con Tito, all'inizio si poteva vedere qualche sprazzo di gioco di quello storico Barcellona ma con la malattia dell’allenatore la squadra si demoralizzò e tatticamente si sciolse. Il Barcellona continuava a praticare il tanto nominato, spesso erroneamente, “Tiki-Taka” anche con l’arrivo da Rosario del Tata Martino che,  con la stessa premessa e con l’importante appoggio di quasi tutto lo spogliatoio, provò a seguire il legame con il guardiolismo ma, questa volta, fu molto più evidente il fallimento.


Luis Enrique e Pep Guardiola pt.2.
Luis Enrique ha cambiato lo stile, ha capito le necessità del club blaugrana e, aiutato dal suo profilo di allenatore duro e irriverente si è auto-spinto a trovare quello che aveva bisogno il Barcellona, cercare un nuovo stile. Finalmente un allenatore ha dimostrato personalità con i suoi giocatori per convincerli che bisognava creare uno stile di gioco che, anche se hanno provato a distruggerlo durante questi due anni, rimane la più adatta ai giocatori della rosa. In un futuro si parlerà dell’era Luis Enrique, il calcio verticale, efficace ed offensivo. 

Ci sono sicuramente situazioni tattiche che possiamo studiare e analizzare, soprattutto estrapolandole dalle ultime partite del Barcellona.

La prima è senza dubbio la sicurezza difensiva. Una rapida transizione offensiva necessita sempre di un’attenzione maniacale dei centrali difensivi. Il Barcellona è riuscito a cambiare un suo deficit difensivo, provocato dai laterali/ale grazie alla formazione di un triangolo quasi impenetrabile ai cui vertici ci sono i due centrali e il portiere. Piquè e Mascherano sono la miglior difesa del campionato, come coppia combinano alla perfezione. Lo spagnolo sta tornando ai suoi massimi livelli con l’aiuto dell’argentino, onnipresente e vero pilastro difensivo della squadra.

Uscita della palla dalla zona iniziale, sempre in maniera collettiva: centrali che si allargano, laterali aperti, e centrocampista che facilita l'uscita pulita con l'appoggio.
Il tridente offensivo lo possiamo inserire nel secondo fondamento della tattica di Luis Enrique. La ormai battezzata MSN si vede terribilmente favorita da questo nuovo calcio verticale e per questo ha un ruolo da protagonista nello schema culè. Il fattore Messi si sa che è uno dei più importanti per qualsiasi squadra e il Barcellona per questo lo rende il principale finalizzatore di tutte le combinazioni d’attacco, l’argentino sceglie sempre la decisione giusta per finire brillantemente la giocata e a lui si appoggiano due mostri sacri come Neymar e Suàrez. Il brasiliano rompe la difesa rivale costruendo letteralmente spazi con i suoi movimenti, spazi che l’argentino non deve fare altro che vedere. Suàrez appare nell'attacco statico in un modo molto attivo, è riuscito a far suo il ruolo di attaccante centrale interpretandolo attraverso le proprie caratteristiche e una delle giocate più frequente è l’uno-due veloce. Tutti i giocatori blaugrana che si propongono in fase offensiva lo cercano. Ovviamente non dimentichiamo la sua naturalezza nel cercare lo spazio libero quando la difesa rivale finisce per aprirsi ed è proprio lì che si evidenzia la sua fama da killer.

Occupazione razionale dello spazio nella zona di finalizzazione, posizionano fino a due uomini in ogni zona di influenza nella fase di attacco. Questo comporta il dominino di questa fase non solo per qualità e talento individuale, ma anche per le ottime spaziature.

Il terzo fondamento serve per chiudere il cerchio ed è quello della pressione immediata dopo la perdita della palla, questo è il principale metodo difensivo blaugrana. Luis Enrique per riuscire a mascherare in una maniera quasi perfetta gli errori tattici ha costruito un piano di pressione: quando la squadra perde il pallone in posizione offensiva, automaticamente si produce una pressione asfissiante sull'uscita della difesa rivale, provocando così errori nella squadra avversaria. (Primo gol di Messi contro il Bayern docet.)


Schieramento difensivo basato nel 4-4-2, la difesa si abbassa nella propria metà campo. Così facendo la squadra è molto corta e predisposta d un pressing alto. La linea di quattro è composta dai due centrali e dai due laterali con profilo offensivo e molto profondi che giocano sempre in ampiezza per provocare l'uscita in zone esterne, due mediani molto offensivi per asfissiare gli avversari nell'uscita. Il 4-4-2 si forma con l'arretramento sulla linea di centrocampo di uno degli attaccanti sul lato debole e la mezzala sul lato forte che scala.
Con tutto questo si crea una nuova era a Barcellona, un gioco con il quale Luis Enrique ha stabilito il record di vittorie dopo 50 panchine. A fine stagione l’allenatore asturiano aspira ancora alle competizioni più importanti, ma in testa ha sicuramente un unico obiettivo: tornare ad essere ambiziosi e regnare in Europa. Non avrà vinto titoli importanti, ma una cosa la sa fare bene, scalare le montagne più alte. 



Articolo a cura di Santiago Tedeschi


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