mercoledì 30 settembre 2015

Uno, nessuno e centomila Slaven Bilic

Slaven Bilic è tornato in una delle sue tante case. Fenomenologia di un uomo di mondo, spesso paraculo, ma comunque tutt'altro che sprovveduto.

di Emanuele Mongiardo






Confesso subito le mie impressioni su Slaven Bilic: non è possibile inquadrare l’uomo Slaven Bilic. E’ un personaggio controverso, se ne sono dette di tutti i colori sul suo conto, nazista, socialista, rocker, tabagista, simulatore perdigiorno, condottiero arcigno: sicuramente non si addice ad un’anestetica intervista post partita domenicale. Persino la sua biografia non è conforme a quella del tipico talento balcanico, perciò non è necessario andare a scavare in un passato di stenti e indigenza per poi giungere alla redenzione. Non c’è niente di tutto questo, anzi, il suo è un vissuto alto borghese, col padre preside della facoltà di giurisprudenza all’università di Spalato. La città dalmata è stata per secoli centrale nell’ottica mercantile della Serenissima, tanto che fino agli albori della prima guerra mondiale il veneziano era lingua franca e gli italiani costituivano l’8 % della popolazione cittadina. Non sorprenda che Slaven parli fluentemente la nostra lingua, oltre che l’inglese e il tedesco. Sulle orme del padre, si laurea in giurisprudenza (lo vedrei bene nei panni di Leo Drummond de L’uomo della pioggia), ma l’avvocatura non intralcia la sua vera vocazione: il calcio.

Bilic il calciatore
Esordisce in prima squadra con l’Hajduk Spalato nell’‘89, segnando due gol nelle prime tre partite. E’ un difensore centrale roccioso, abile in marcatura e imperioso di testa dall’alto del suo metro e novanta. Timbra 109 presenze in campionato e nel ’93, complice anche il conflitto serbo-croato, si trasferisce in Germania al Karlsruhe, la squadra di un certo Oliver Kahn. In due stagioni e mezzo si afferma tra i migliori centrali della Bundesliga, raggiungendo nel 93/94 una storica semifinale in Coppa Uefa, demolendo, tra le altre, il Valencia per 7 a 0 nel ritorno dei sedicesimi di finale. Harry Redknapp, all’epoca manager del West Ham, annota il suo nome e nel gennaio ’96 lo porta ad Upton Park per circa un milione e mezzo di Sterline. La storia d’amore tra il croato e gli Hammers è breve ma intensissima, ed il motivo lo spiega lui stesso: «In Inghilterra non esistono squadre minori, esistono grandi squadre e squadre ancora più grandi. Il West Ham ha qualcosa di speciale e non mi riferisco solo ai giocatori del ’66 […] They have something special, a cult club. I always believed that. They are moving in a new direction, but they will always have that feel». Conquista due salvezze consecutive e a gennaio del ’97 rifiuta un offerta del più altolocato Everton pur di non abbandonare la squadra in alto mare. Qui balza agli onori della cronaca, oltre che per le prestazioni, anche per il vizio del fumo. Si dice che in un giorno abbia spento quaranta sigarette e che, prima degli allenamenti, porti con sé a fumare un diciottenne di nome Frankie Lampard. 


Nel frattempo diventa un pilastro della neonata nazionale croata, con la quale partecipa ad Euro ’96, dove si arrende nei quarti ai futuri campioni tedeschi. Si segnala per questo accenno di rissa con l’ex milanista Ziege.

Notare il coro finale inneggiante al centralone croato.


Bilic il simulatore perdigiorno
Nella mercato estivo del ‘97 approda da promesso sposo ai Toffees. In quella stagione risulta essere il giocatore più scorretto della Premier, con sei ammonizioni, tre espulsioni e nove gare saltate per squalifica: quasi un quarto di campionato. Ironia della sorta, il West Ham precederà l’Everton in classifica. Tuttavia Slaven giunge in piena forma alla competizione più importante della sua carriera, il mondiale in Francia. Non c’è bisogno di rimembrare la storia ormai conosciuta a menadito della matricola Croazia che sbalordisce tutti col bronzo finale, è doveroso però segnalare Bilic come uno dei migliori difensori del torneo, nonostante un episodio in semifinale, aldilà della sconfitta, vada ad intaccare un ruolino di marcia sino ad allora immacolato. Alla mezzora del secondo tempo c’è una punizione insidiosa quasi dal vertice dell’area biancorossa per la Francia. Non appena Zidane pennella verso il centro, c’è uno scontro tra Blanc e Bilic: il transalpino colpisce con un buffetto sul muso il croato, il quale cade rovinosamente portandosi le mani al volto. Lo stopper del Marsiglia verrà squalificato e salterà la finale dei mondiali. Nell’immaginario collettivo francese, credo che su un ipotetico divano dell’inimicizia il posto di fianco a Materazzi spetti di diritto all’allenatore del West Ham.


Dal mondiale in poi inizia il suo crepuscolo: prima della rassegna iridata aveva sofferto per una frattura all’inguine, non operata per consentirgli di servire la causa croata. Rimane fino a novembre in patria per la riabilitazione, motivi precauzionali dirà lui; da quel momento in poi sarà bersaglio di sole critiche in quel di Goodison Park. Tenta il rientro a dicembre, disputando quattro partite di fila, ma non è più l’ostico difensore di un tempo.

C'è un non so che di Vincent Cassel...

Decide di tornare in Croazia, per stare vicino alla famiglia durante il bombardamento della vicina Serbia. Sulla sponda blu del Mersey ormai ha la fama di simulatore perdigiorno. Nel 2000 firma nuovamente per l’Hajduk, dove concluderà la carriera, non prima però di aver ricevuto una buonuscita di un milione di sterline dall’Everton. Finirà sotto i ferri solo nel 2012, ma gli strascichi di quell’infortunio sono tutt’oggi evidenti: in alcuni frangenti sembra trascinarsi più che camminare. 


Bilic il nazionalista
Il calcio resta comunque il suo mondo e nel 2004 diventa CT dell’under 21 croata, assieme al fido compagno Aljosa Asanovic. Chiude in testa il girone di qualificazione, ma perde lo spareggio decisivo contro i nemici di sempre dell’allora Serbia & Montenegro. Ma chiusa una porta si spalanca un portone e nel 2006 Bilic è chiamato alla guida della nazionale maggiore. Esordisce in agosto, a Livorno, con un netto 2 a 0 contro l’Italia campione del mondo uscente e sperimentale di Roberto Donadoni. Proprio nello stadio della curva più rossa d’Italia iniziano per Slaven le magagne politiche, a causa dell’insolita coreografia con i tifosi croati disposti a mo’ di svastica. 


Da lì in poi tutta una serie di episodi scatenerà la diatriba nell’opinione pubblica sulla fede politica del CT. Durante gli Europei, prima nel 2008, poi nel 2012, si dice carichi i suoi uomini a suon di Marko Perkovic, alias Thompson, rockstar croata notoriamente filofascista nonchè ammiratore di Ante Pavelic.

<<Brucerò la Krajina fino a Knin, brucerò due o tre caserme serbe affinché non viaggi invano.>>

Nel 2007 si dichiara eleggibile per un’amichevole tra vecchie glorie della Dinamo Zagabria e dell’Hajduk Spalato, con l’incasso destinato alla Fondazione per la verità sulla Guerra patriottica in Croazia, le cui finanze sarebbero finite nelle tasche degli avvocati dell’ex colonnello Ante Gotovina, criminale di guerra datosi alla macchia con l’appoggio, tra gli altri, dei servizi segreti croati e del Vaticano. Nel 2009 stabilisce con la squadra una visita a Vukovar, per commemorare i caduti.

Slaven consola il padre di un caduto.

Qualche mese fa, a seguito dello scandalo destato dalla svastica disegnata sul prato del Poljud della sua Spalato in Croazia-Italia, ha derubricato il gesto ad un semplice atto di attention seeking. Quest’ultimo episodio apre però un ulteriore spiraglio nella sua personalità: si tratta di un uomo che, contrariamente alla visione orwelliana, reputa il calcio come un semplice gioco, qualcosa di più bello anche delle donne ma pur sempre un gioco. In occasione del match di qualificazione ad Euro 2012 contro la Turchia, la stampa slava non manca di infervorare gli animi, prospettando una vittoria revanscista dello spirito nazionale croato, ferito dagli uomini di Terim nei quarti di finale in Austria&Svizzera nel 2008, in una delle partite più deliranti dell’ultimo decennio. Tocca al selezionatore croato fare da pompiere, sottolineando come si tratti di una semplice partita e non di una vendetta per legittimare la supremazia di questo o quell’altro popolo.


Modric e Rakitic fatali nella sconfitta. Chi mai oserebbe dirlo...



Bilic il socialista
E da qui passiamo ad analizzare la controparte di Slaven Bilic, quella socialista. Giunto al Besiktas nel 2013, dichiara di voler infondere una mentalità marxista-leninista nei propri uomini: <<Non esistono giocatori ricchi o poveri in questa squadra (suppongo sotto l’aspetto tecnico tattico). Abbiamo eliminato ogni tipo di divario tra di noi, in questo senso ho creato una squadra socialista […] Sono un socialista, ma nel vero senso della parola. Sono consapevole di non poter salvare il mondo da solo, ma se c’è da intraprendere una battaglia contro l’ingiustizia, preferisco essere in prima linea a combatterla. Questo è il mio modo di vedere il mondo>>. Non di rado lo si vede indossare t-shirt raffiguranti Ernesto Guevara de la Serna, mentre tra i suoi film preferiti cita sempre Il grande dittatore di Charlie Chaplin, non proprio un film filonazista o totalitarista. In un’intervista, alla domanda sulla sua visione del futuro risponde in maniera quasi distopica, prospettando un terzomondismo connotato dalla ricchezza di pochi a scapito delle masse; addirittura prima di Euro 2008 confessa di desiderare un incontro con l’ex presidente americano e democratico Bill Clinton.



Aldilà della politica, Bilic resta un uomo dalle mille sfaccettature, con svariati interessi, uno di quelli per cui <<Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio>>. Adora il rock e in particolare gli U2, non potrebbe vivere senza. Fa parte di una rock band in patria, i Rawbau, con cui ha composto una canzone per la nazionale. Per sua stessa ammissione, se non ci fosse stato il calcio, si sarebbe dedicato all’archeologia.

Preferivo “Sex, droga i Bodiroga”.


Bilic the hammer
Orecchino, giacca, cravatta e, in caso di pioggia o freddo, berretto con l’effige della squadra. Quest’ultimo dettaglio stilistico dice molto della personalità, anche calcistica, di Slaven Bilic. Un uomo duttile nei casi della vita e del campo, realista, di quelli che non si fanno problemi ad improntare una strategia in riferimento all’avversario.

D’altronde, lo predicava anche Sun Tzu nell’arte della guerra: «Se le forze del vostro nemico sono superiori, dovete evitarlo. Il rivale le cui forze sono soverchianti, riuscirà sempre a sottomettervi. […] Non conoscere l’altro né sé stessi, ogni battaglia è un rischio certo. Non conoscere l’altro e conoscere sé stessi, a volte vittoria, a volte sconfitta. Conoscere l’altro e sé stessi, cento battaglie senza rischi». Certo, la teoria non è sufficiente, sono necessarie la validità degli uomini in campo e l’applicazione,  discriminante spesso legata al rapporto con l’allenatore. E’ una qualità che Sun Tzu stesso definisce Tao (via): «Consiste nell’incitare il popolo a condividere le idee dei governanti, cosicchè possa affiancarli nella morte e nella vita; in questo modo, esso non temerà pericoli». Il depositario indiscusso di questa dote è ovviamente José Mourinho, ma anche il croato, come testimonia l’addio all’aeroporto ai tifosi del Besiktas, ne possiede a iosa.



Squilibrio difensivo e disordine
Upton Park aveva bisogno di una ventata di genuinità, dopo il quadriennio estremamente sobrio e British targato Sam Allardyce. Una delle critiche più ricorrenti mosse al tecnico inglese era la mancanza di fiducia nei giovani, da sempre peculiarità della società trampolino di lancio per i vari Lampard, Ferdinand e Joe Cole. Bilic ha da subito dimostrato coraggio, promuovendo titolare all’Emirates nella prima giornata il mediano Oxford, tra i più talentuosi nella nidiata dei ’98 d’oltremanica. La gara d’esordio è un perfetto saggio di conoscenza dell’avversario. E’ consapevole della maggior cifra tecnica dei Gunners, così come è conscio della discontinuità degli uomini di Wenger nel corso dei 90 minuti. Imposta una tattica attendista, con Cresswell terzino staccato a sinistra autorizzato a supportare la manovra, in particolare con Payet in possesso di palla (ben 16 combinazioni tra i due). Centrocampo e difesa restano corti, con un pressing basso, all’altezza della propria trequarti, atto ad occludere linee di passaggio ai padroni di casa, letali nelle triangolazioni. Durante la transizione difensiva spesso si passa da un 4-2-3-1 nella metà campo avversaria, con Oxford-Kouyate in doble pivote, Payet-Noble-Zarate davanti a loro, ad un 4-1-4-1, o 4-5-1 se preferite, con il capitano nuovamente in mediana ed Oxford vertice basso. Bilic preferisce ignorare le sovrapposizioni di Monreal e Debuchy piuttosto che concedere la metà campo. Difatti l’Arsenal impensierisce Adrian solo nelle rare occasioni in cui centrocampo e attacco riescono a dialogare in velocità, come al ’44 quando Ozil sorprende alle spalle la mediana, riesce a duettare con Cazorla e per poco non agguanta il pareggio. L’intensità difensiva, peraltro quasi sempre a ridosso della propria area, intacca inevitabilmente la performance offensiva: i gol nascono da due errori dei Gunners, prima di Coquelin, che tiene in gioco Kouyate nel primo gol, e poi dello stesso spagnolo e di Cazorla. Spesso la prima opzione risulta essere il lancio dalla difesa per Sakho o Payet. Il francese cerca sovente la ricezione sulla fascia, mentre l’altro trequartista, Zarate, agisce più centralmente. La prova di Maurito merita una menzione particolare: si allinea costantemente ai centrocampisti nelle transizioni negative e, appena può, pressa il portatore di palla avversario. Proprio da una sua caparbia pressione su Cazorla nasce il 2 a 0, in cui Coquelin e la difesa di Wenger gli concedono tutto il tempo di prendere la mira e calciare. Un atleta totalmente diverso, nonostante qualche giocata da veneziano, dalla seconda punta leziosa e viziata del periodo laziale, in cui addirittura Floccari veniva sacrificato sull’esterno per concedergli la vicinanza alla porta. Incitare il popolo a condividere le idee dei governanti, cosicchè possa affiancarli nella morte e nella vita; Bilic deve possedere un Tao superiore.

Paradossalmente è più facile impostare una partita contro l’Arsenal, piuttosto che contro una squadra sulla carta inferiore come il Leicester. Ranieri opta per un 4-4-2 compattissimo, che attua una pressione sui centrocampisti avversari ed impedisce ai difensori di servirli. Il pacchetto arretrato è costretto ad un giro palla sterile, finalizzato spesso al lancio su un Sakho sempre più solo sull’isola là davanti. Addirittura Payet è costretto ad agire da regista, lui che probabilmente è il miglior assistman d’Europa e che dà il meglio a ridosso dell’area avversaria; per di più si pesta i piedi con Zarate. Proprio dall’ impossibilità di comunicazione tra difesa e mediana nasce il primo gol: dopo una serie di rimpalli sul lato sinistro del centrocampo la palla sta per arrivare a Vardy. Reid lo anticipa, nella speranza magari di innescare un compagno, ma la palla finisce tra i piedi di Albrighton. Col neozelandese preso in controtempo è facile per lui servire Vardy che scodella nel mezzo per Okazaki, non più seguito da Oxford, che riesce a segnare in due tentativi. Anche sul fronte difensivo il disordine regna sovrano: la squadra tende a collassare su un solo lato e in generale il centrocampo è nelle mani degli ospiti.

Reid, Ogbonna, Cresswell, Oxford, Noble, Kouyate, Payet e di fronte a loro anche Zarate e Sakho. Tutti radunati in un'unica linea verticale. Non proprio il massimo per favorire lo sviluppo della manovra o per contrastare il giro palla avversario.

Oxford inutilmente lavolpiano anche in fase di non possesso, Noble tanto largo da sembrare quasi un guardalinee e Kouyate quasi sempre in prossimità di Sakho. Una situazione analoga genera il secondo gol delle volpi: Schlupp lancia su Vardy, bravissimo a servire Okazaki con un colpo di testa. Il giapponese svuota l’area palla al piede e nel frattempo Albrighton attacca lo spazio. Noble, come al solito larghissimo, tenta di raggiungere il numero 11 avversario con una corsa disperata di 50 mt, ma quando il capitano giunge sul luogo del delitto, il pallone è già stato scaricato al centro per Mahrez (presumibilmente uomo di Oxford, anche stavolta troppo basso) che può insaccare.

Kouyate segue Drinkwater in mezzo al campo, Noble è larghissimo in pressione su Schlupp; da lì partirà la sua rincorsa su Albrighton.

La sperimentazione tattica che ha portato il West Ham al terzo posto in classifica inizia ufficialmente nel secondo tempo di quel pomeriggio di un giorno da cani. I nomi chiave sono due, in ordine di ingresso: Obiang e Lanzini.

L’ex sampdoriano esordisce ad inizio secondo tempo. Si assume maggiori responsabilità, è il fulcro della manovra, con lui la circolazione migliora sensibilmente. Bilic ne trae benefici anche in fase difensiva: non si sbilancia totalmente indietro, a ridosso dei difensori, resta più vicino agli interni di centrocampo, in modo da non appiattire un’eventuale ripartenza; contestualmente al suo ingresso diminuiscono anche i lanci dalla difesa per Sakho. Probabilmente da novembre, col ritorno di Song, non sarà più titolare, resta comunque imprescindibile nell’economia della squadra, probabilmente in questo frangente di stagione ha raggiunto la piena maturità. Di Manuel Lanzini se ne dovrebbe parlare in un articolo a parte: svezzato dal River, cresciuto nel solco dei poeti maledetti Ariel Ortega e Marcelo Gallardo, il suo sembra un declino precoce, col trasferimento a soli 21 anni all’Al Jazira. Fortunatamente il West Ham lo tiene sott’occhio e lo ingaggia in prestito. Si palesa al 76’ contro il Leicester e da allora diventa titolare. Gioca dal primo minuto contro il Liverpool, partendo largo ma rientrando fino al centrocampo per offrire un appoggio in più al compagno; il suo impiego, unitamente a quello di Obiang, permette a Payet di avanzare il proprio raggio d’azione dalla trequarti avversaria in su. Difatti il primo gol contro il Liverpool è in parte merito dell’ex Marsiglia, capace di trovare la posizione ideale tra le linee e di crossare al centro; la capacità di Cresswell di accompagnare costantemente l’azione e il tempismo di Lanzini fanno il resto.

Payet è pronto a ricevere il suggerimento di Noble, trovando lo spazio libero tra le linee.

Nonostante in distinta risulti ala/trequartista, per il calcio europeo è perfetto da mezzala: oltre a proporsi infatti, è un maestro nell’eludere il pressing avversario, non ha paura dei contrasti e recupera diversi palloni. La sua pressione caparbia causa l’errore di Lovren da cui parte l’azione del gol di Noble, le cui proiezioni offensive, così come quelle di Kouyate, hanno finalmente un senso. I due hanno ora dei compiti precisi là in mezzo, in particolare con le marcature preventive devono impedire alla difesa avversaria di scaricare in verticale sul centrocampo. Le linee mediana e difensiva sono serratissime ed ogni qualvolta un avversario riceve palla dalla difesa è pressato, perciò, se vuole proseguire in verticale, deve giocarla alla cieca. E’ facile quindi per la difesa riconquistare il possesso.

I perfetti accoppiamenti dei centrocampisti che costringono il Liverpool a riciclare il possesso in orizzontale. Notare come inizialmente Payet (e anche Lanzini sul lato opposto) resti più basso di Noble in modo da avere il controllo sui movimenti di Clyne.

Anche in questo caso, contro il Manchester City, le marcature preventive impediscono a Fernandinho di giocare il pallone in avanti. Il brasiliano, indeciso sul da farsi, si volta per cercare un appoggio; Sakho è lesto a piombare su di lui ed innescare il contropiede che però si concluderà in un nulla di fatto.

Gli Hammers sfoggiano una prestazione simile, se vogliamo ancor più brillante e con una nuova variante tattica contro il City reduce da cinque vittorie di fila in Premier League. Kouyate stavolta resta in panchina, il titolare è Moses. Il nigeriano è un esterno puro, copre tutta la fascia e permette di sfruttare entrambi i lati. Mentre nelle precedenti partite Payet spesso svariava, ora può giostrare sul lato sinistro del campo. Il primo a trarre beneficio dal nuovo schieramento è Sakho, che può tagliare e ricevere i precisi filtranti di Dimitri.
In fase di costruzione, quando il pallone viaggia nelle zone laterali, spesso i giocatori di Bilic vanno a formare dei triangoli, in modo da agevolare la trasmissione di palla.

 Lanzini-Cresswell-Obiang e Obiang-Lanzini-Noble riescono a far circolare velocemente il pallone eludendo il pressing avversario. La lezione zemaniana sui triangoli è stata ben assimilata.

Il possesso palla è finalizzato a stanare il City; il primo a cadere in trappola è Fernandinho al 5’. Il brasiliano si alza in pressione su Lanzini all’altezza di De Bruyne, lasciando un buco sul centro sinistra. Payet vi si incunea, riceve la splendida scucchiaiata di Lanzini e può attaccare la porta in situazione di palla scoperta. Una volta giunto nei pressi della difesa, Moses gli offre un’alternativa a destra; nel frattempo Jenkinson (un vero terzino, sempre propositivo, non un centrale adattato come il buon Tomkins) con la sovrapposizione attrae a sé Sterling. Moses, non appena riceve palla, ha lo spazio di mirare, calciare e portare in vantaggi i suoi.

Fase 1: Payet riceve indisturbato la scucchiaiata di Lanzini.

Fase 2: punta la porta e visualizza Moses alla propria destra.

Jenkinson attira a sé Sterling, Moses può mirare e calciare indisturbato.

Sempre con Moses in campo Bilic esplora un’altra variante, che sinceramente mi piace di meno, ma è soltanto un parere esterno. Rinuncia ad Obiang per puntare sulla più aitante coppia Noble-Kouyate, coadiuvata naturalmente da Lanzini sulla destra. Si tratta di un 4-4-2 tipicamente inglese, con Payet seconda punta e Sakho centravanti. Ha adottato questo canovaccio contro due squadre “inferiori” quali Newcastle e Norwich. Probabilmente è una mossa finalizzata ad alzare il baricentro, magari per favorire le interazioni tra i due là davanti e per sgravare il francese dai soliti compiti difensivi che gli imponevano il confino sulla fascia in fase di non possesso. L’azione del gol del pareggio sfrutta proprio il dialogo tra i due attaccanti; da sottolineare comunque la solita compattezza tra centrocampo e difesa, che permette il recupero palla da cui parte la transizione offensiva.


In compenso, per mantenere un certo equilibrio, ha preferito una coppia di centrocampisti adatta all’interdizione, a scapito del più geometrico Obiang. Un problema a questo punto facile da notare è quello dell’impostazione. Il primo gol del Norwich nasce proprio da un tentativo maldestro di Noble di aprire il gioco sul lato opposto.
Aldilà del terzo posto, il West Ham di Slaven Bilic è ancora in divenire. Probabilmente la creatura passerà dalla potenza all’atto col ritorno di Song, il più reclamizzato in quel di Boleyn Ground. Stiamo assistendo ad una stagione di calcio insolita, una sorta di palingenesi totale: il City interlocutorio, il Chelsea in crisi e lo United in testa in Inghilterra (e qui, se non fosse per la discontinuità della squadra, si potrebbe parlare di restaurazione), il nuovo Valencia, il Real non proprio convincente di Benitez e il Barcellona alle prese con l’infortunio di Messi in Spagna (ne approfitterà Simeone?), i dolori della giovane Juve, la Roma alle prese con le solite questioni tattiche e il Napoli di Sarri in Italia. Forse quest’anno riscriveremo tutti insieme la mappa del continente, forse sarà l’ennesimo gattopardiano caso in cui cambierà tutto affinchè tutto resti invariato. Chissà, ancora è presto per parlarne. Slaven Bilic probabilmente brama il suo posto nella storia di questo ‘48, non si sa se nei panni dell’Ustascia o del marxista-leninista in grado di smuovere struttura e sovrastruttura. Sicuramente le folate di questo nuovo vento che spira nel calcio europeo sono anche merito suo, in barba a francesi e tifosi dell’Everton.




Articolo a cura di Emanuele Mongiardo



martedì 29 settembre 2015

Bomba atomica

Si abbatte sul suolo giapponese un'altra arma di distruzione di massa: la Mercedes.
Lo strapotere argentato, le strategie della Ferrari, i mal di pancia di Alonso, l'eterno confronto tra Verstappen e Sainz: Suzuka ci ha regalato questo e molto altro. Scopriamolo insieme.

di Federico Principi






Il circuito di Suzuka era ormai già diventato un evergreen quando fu cancellato dal calendario del Campionato 2007 e 2008. Sostituito dal rinnovato, spettacolare Fuji: un tracciato di cui si ricorda principalmente l'assegnazione del titolo del 1976. Una delle stagioni più controverse ed incerte nella storia della massima categoria dell'automobilismo, quando Lauda si rifiutò di gareggiare sotto il diluvio giapponese per una comprensibile paura dovuta al recente drammatico botto al Nordschleife, consegnando il Mondiale nelle mani di James Hunt.

Ritiro di Lauda al Fuji: impressionanti le vecchie immagini di una Formula 1 di altri tempi, decisamente più improvvisata sotto tutti gli aspetti. Anche quello della sicurezza.

Come per il Gran Premio di Germania, poi incredibilmente cancellato nella stagione in corso, si profilava anche per il Giappone un'alternanza tra le due sedi. Era piaciuta la modernizzazione dell'impianto sulla più famosa montagna del Sol Levante, estremamente adatta ai nuovi standard della Formula 1 e assolutamente disponibile di opportunità di sorpassi. Nonostante Suzuka abbia al seguito un numero consistente di discepoli che ne predicano la straordinarietà in mezzo a tanti poco stimati tilkodromi, l'altalena di circuiti sarebbe probabilmente stata gradita alla Ferrari (che aveva indicato in Silverstone, Spa e Suzuka le tappe più difficili) e sicuramente a Jules Bianchi.

In macchina col il Campione della Formula E, Nelsinho Piquet, sul nuovo Fuji nel 2008.


I nuovi Prost e Senna
Il 1987 è esattamente il primo anno in cui la Honda accumula una serie importante di successi (come fornitore di propulsori) che verrà spezzata soltanto dalla genialità creativa di Adrian Newey e dalle sospensioni attive della Williams-Renault nel 1992. Curiosamente è proprio nel 1987 che la Federazione inserisce per la prima volta in calendario il tracciato di Suzuka, già progettato dalla stessa Honda (fornitore del motore che in quella stagione ha spinto la Williams di Piquet al suo terzo ed ultimo titolo) come punto d'appoggio per effettuare dei test.

Ron Dennis, per la stagione successiva, si aggiudicò di prepotenza il propulsore giapponese, estraniando la concorrenza dalla lotta per il vertice e lasciando i suoi due purosangue liberi di scannarsi senza alcuna pietà. Risale proprio a quei tempi una serrata lotta per il Mondiale ristretta a due soli piloti, compagni di squadra: unico punto di contatto con l'odierno dualismo tra Hamilton e Rosberg, e forse più precisamente quello dello scorso anno. Vettel è in arrivo su Nico in classifica e l'equilibrio interno al box Mercedes è allo stato attuale più simile a quelli tra Schumacher e Barrichello piuttosto che alle baruffe risalenti ai tempi di Prost e Senna.

Nonostante tutto, la partenza dell'ultimo Gran Premio ha ricordato molto da vicino i tafferugli che i due vecchi campioni avevano inscenato proprio su questa pista, e che sono rimasti delle icone incancellabili e ridondanti ogni volta che si torna a correre a Suzuka. Con un pizzico di correttezza e molta falsa gentilezza, Hamilton ha accompagnato con qualche convenevolo Rosberg nell'erba all'uscita di curva 2, compromettendo ogni chance di vittoria del tedesco e costringendolo ad una lunga rimonta per afferrare il massimo risultato possibile, che a quel punto era il secondo posto. Molto meno diplomatico fu Senna, in partenza nel 1990, a tamponare quell'Alain Prost su Ferrari che nella stagione precedente aveva dapprima sbarrato violentemente la porta al brasiliano e successivamente conquistato il titolo mondiale nelle aule di tribunale.

Non si può non credere che Senna lo abbia fatto apposta. La vendetta è un piatto...

Pochi giorni prima della corsa Rosberg aveva senza indugi dichiarato: «Quando abbasso la visiera, divento agonisticamente cattivo». Non gli avranno creduto in molti, assistendo alla facilità con la quale Hamilton ha preso l'interno alla prima curva, ma a parziale discolpa del tedesco vanno spiegate alcune cose. Innanzitutto è sicuramente generalmente più difficile scaricare tutta la trazione a terra se si vuole procedere a un cambio di traiettoria in partenza, con la vettura che perde sicuramente in grip e in bilanciamento. Lo specialista in questo senso era Michael Schumacher, perfettamente conscio di non essere uno fenomeno dello scatto da fermo, sempre pronto a chiudere immediatamente la traiettoria. Ma gli andò male un paio di volte, proprio a Suzuka.

La partenza dell'edizione 2000 al minuto 1:02. Troppo superiore al via Hakkinen, che passa agilmente uno Schumacher deciso a tagliargli (regolarmente) la strada.

Il secondo elemento che va ad avvalorare quanto compiuto da Rosberg è il fatto che, soprattutto alla prima curva, la traiettoria migliore è proprio quella esterna: non essendo una staccata è molto difficile passare all'interno in curva 1. Andando infatti a spulciare nei sorpassi poi compiuti in gara in quel punto, è tanto impossibile imbattersi in immagini di qualcuno che riesca a passare all'interno, quanto frequente assistere a manovre andate a buon fine nella traiettoria esterna. Rosberg confidava quindi in una migliore velocità di percorrenza della curva rispetto ad Hamilton, che gli avrebbe successivamente permesso di chiudere più comodamente la traiettoria in curva 2 e prendere il comando della corsa. Lewis è riuscito invece ad avere un ottimo grip alla prima curva, che gli ha permesso di rimanere affiancato al tedesco ed avere il vantaggio della traiettoria in quella successiva. Una splendida manovra dell'inglese, con un Rosberg che non ha forse tirato fuori il massimo della propria cattiveria e avrebbe forse dovuto chiudere prima la traiettoria in curva 2, ma aveva comunque alle spalle un'idea corretta. Ed avrebbe invece dovuto alzare leggermente il piede in uscita, per non finire fuori pista, rimanendo in scia con Hamilton e giocandosi successivamente la vittoria.

Tutta la dinamica della partenza di Suzuka 2015.


Strategie di guerra
Verrà un giorno in cui i nostalgici smetteranno di ripetere fino ad esaurimento corde vocali la litania che recita mestamente: "In Formula 1 oggi si sorpassa solo ai box". Ma quel giorno non è certamente oggi.

Non aiuta ovviamente l'ingegnere di Rosberg a sfatare questo tabù. Sorpassare in pista è diventato quasi pericoloso, al punto tale da costringere il proprio pilota a distanziarsi dalla vettura che lo precede per non stressare termicamente tutte le componenti della propria macchina. Tanto nel primo con Bottas davanti, quanto nel secondo stint quando si stava avvicinando a Vettel, a Nico è stato intimato di tenere un ritardo di circa due secondi dalla vettura che lo precedeva. Per poi, in particolare nella seconda occasione, realizzare i migliori parziali nel giro di rientro ai box, effettuato con una tornata di anticipo rispetto a Vettel. Sfruttando l'ormai celebre undercut, con un giro in più con pneumatici freschi, strappando la seconda posizione al ferrarista. Come ha poi agito lo stesso Raikkonen su Bottas, insuperabile in pista.

A dire la verità di sorpassi ce ne sono stati, e neanche pochi. Nemmeno troppi facilitati dal DRS, che fa storcere il naso alla stessa categoria di nostalgici di cui parlavamo poco sopra. I più belli all'ultima chicane: quello di Rosberg su Bottas, favorito evidentemente dall'extra-power del team ufficiale Mercedes, e quello di Caino su Abele. Verstappen su Sainz, ormai diventata un'esecuzione capitale più scontata di quella inflitta a Saddam Hussein dopo la cattura.

Bellissimo attacco di Rosberg su Bottas.

Resta il fatto che la grande maggioranza della corsa si sia decisa in seguito agli ordini delle ammiraglie. È ormai consuetudine che, durante il giro di ricognizione, la regia internazionale pubblichi una grafica teoricamente interessante riguardo le possibili strategie in corsa. Anche a Suzuka erano state fatte previsioni, disattese: è partita in realtà una rincorsa folle all'undercut. I giri 17 e 34, previsti dalla regia, sono stati anticipati da tutti i protagonisti di vertice: chissene del possibile degrado nei giri finali, che è comunque diminuito di incidenza rispetto a stagioni come il 2012 o il 2013, meglio tentare il sorpasso poi si vedrà. Disattesa anche la previsione di due stint con le medie ed uno finale, un po' più lungo, con le hard: ad eccezione di Hamilton che ha rispettato questa tabella, Rosberg e i due ferraristi sono passati alle hard già dopo il primo pit stop per poi tenerle fino alla bandiera a scacchi.

A fine gara Villeneuve su Sky si era lasciato andare ad una considerazione parzialmente condivisibile: «Quando l'inseguitore prova l'undercut, chi si ferma il giro successivo perde matematicamente la posizione. A quel punto sarebbe il caso di tentare una strategia differente». La tesi sarebbe assolutamente valida e corroborata, non fosse altro che Jacques aveva allargato la casistica in esame anche all'episodio dell'attacco di Rosberg a Vettel. Il pilota della Rossa aveva in realtà un margine di circa 1.8 secondi prima del pit stop, effettuato un po' a sorpresa dal connazionale della Mercedes: possibile, in quel caso, tentare di mantenere la posizione pur reagendo un giro più tardi. Seconda piazza che infatti Vettel ha perso per una manciata di metri al rientro in pista.

Alternative potevano essere: una sola sosta? Impraticabile: a fine corsa Seb ha spiegato via radio che nell'ultimo giro prima della seconda sosta le gomme non ne avevano più. Anche nel caso avesse ritardato la prima e unica sosta, difficilmente il suo passo gara avrebbe retto un ritmo accettabile per il podio. Non fosse stato indeciso sull'esito della reazione immediata al pit stop di Rosberg, Vettel avrebbe avuto solo un'opportunità, difficile in ogni caso da realizzare: prolungare il secondo stint con le dure, accettare di perdere la seconda posizione e lanciarsi a caccia di Rosberg negli ultimi 10 passaggi con gomme medie fresche, più prestazionali. Ma il sorpasso in pista, e in questo caso hanno ragione i vecchi bacchettoni, sarebbe stato troppo complicato.


Equilibri di forze
Il Mondiale 2015, che si avvia alla conclusione, ha svolto un copione basato interamente sull'equilibrio (a volte neanche troppo sottile) tra le reciproche differenti caratteristiche tecniche delle due case costruttrici dominanti.

Per mesi, dopo attente valutazioni tecniche e numerosi rilevamenti di dati su opposte tipologie di tracciati, si è delineata in modo abbastanza chiaro quale fosse la reale contrapposizione tra Mercedes e Ferrari. I tedeschi hanno prevalso, oltre che per la potenza e l'erogazione della coppia della power unit, nella capacità di mandare immediatamente gli pneumatici nella temperatura ottimale, nell'utilizzo delle mescole più dure e nella stabilità sui curvoni veloci. Da Maranello avevano invece tentato di tamponare l'egemonia delle frecce d'argento attraverso una miglior gestione del degrado degli pneumatici, prerogativa del telaio Allison, nella generale minor sofferenza di fronte ad alte temperature (in tutta la componentistica) e nella capacità di lottare ad armi pari in piste lente o con pneumatici soft o super-soft.

Qualche settimana fa il team principal Arrivabene aveva indicato proprio nei circuiti di Silverstone, Spa e Suzuka i weekend in cui correre in difesa, limitando i danni. A fine gara non era certamente raggiante ma in ogni caso piuttosto sollevato: «Ci aspettavamo sicuramente di meno da questa gara». Non è difficile crederlo, nonostante le false speranze alimentate dall'anomalo Gran Premio di Singapore. Hamilton era infatti orgasmico, descrivendo la sua vettura come una barca a vela che danza agilmente e senza intoppi: la W06 era eccezionale, come sempre, sui lunghi curvoni di Suzuka. Pista dove era indicato un solo punto di staccata violenta, l'ultima chicane, e che non metteva quindi neanche a rischio i freni dei tedeschi che saltuariamente ripropongono problemi di alte temperature se sollecitati con violenza.

La pole di Rosberg. Effettivamente Hamilton ha ragione...

L'equilibrio Mercedes-Ferrari di Suzuka ha ripristinato lo status quo, ma con sviluppi differenti. E che dimostrano per l'ennesima volta quanto, per lo meno i team più ricchi, operino progressi nel corso della stagione. La Ferrari ha innanzitutto migliorato enormemente il proprio comportamento con le hard arancioni, decidendo addirittura per il doppio stint con questa mescola e non evidenziando alcun problema nelle temperature nei primi passaggi. La SF15-T aveva già vinto un Gran Premio corso con gli pneumatici hard, in Malesia, ma con un solo breve stint finale con le arancioni e con elevatissime temperature dell'asfalto che avevano immediatamente portato le gomme nelle temperature ottimali di esercizio. Devastante, invece, lo stint nel Gran Premio di Spagna nel quale Vettel perdeva sistematicamente più di un secondo al giro sui piloti di Stoccarda. A Suzuka, favorito forse dai 40 gradi dell'asfalto (rilevamento comunque non estremo), Seb ha invece tenuto il passo di Rosberg quasi alla pari nello stint conclusivo.

Imbarazzante confronto Mercedes-Ferrari sul passo in Spagna, a parità di gomme (hard).

Enormi passi in avanti li ha invece compiuti il team di Toto Wolff nella gestione del degrado e delle alte pressioni e temperature. Con l'unico intoppo dell'aria calda di Bottas prima e Vettel poi, e i conseguenti ordini di stare a distanza di sicurezza, la W06 non ha mostrato alcun segno di degrado né di surriscaldamento, problema molto probabilmente incontrato a Singapore con le nuove pressioni più alte imposte dalla Pirelli. Hamilton è perfino risultato l'ultimo a fermarsi in entrambe le finestre per le soste, e lo stesso Rosberg è stato l'ultimo ad imboccare la pit lane prima del Campione del Mondo, nel primo pit.

Resta in ogni caso la sensazione che, essendosi difesa egregiamente in un tracciato completamente sfavorevole, la Ferrari possa ormai ritenersi pronta per sfidare ad armi pari il principale rivale in ogni possibile occasione. Difficile, per motivi matematici, puntare al titolo mondiale, ma resta il fatto che sembrerebbe proprio la SF15-T la vettura ad aver compiuto i migliori progressi nell'arco della stagione, e non solo rapportati alla competitività (scarsa) del 2014. Ad Austin ci saranno 10 posizioni di penalità per entrambi i piloti, ma una probabile ulteriore evoluzione di 4 gettoni. Nell'attesa che la cura del dettaglio compiuta durante il Campionato possa portare la Ferrari ad una più che realistica ambizione mondiale per il 2016. Oltre che alla probabile vittoria a novembre ad Abu Dhabi, tracciato in molte parti simile a Singapore, chiudendo col botto.


Mino Raiola in Formula 1
«Mi fa male pancia quando vedo te», disse al giornalista Nebuloni un Ibrahimovic con la stessa eleganza del cappottino indossato da Cassano durante la propria presentazione ufficiale al Real Madrid.

Una personalità boriosa ed accentratrice di ego come quella di Fernando Alonso, molto simile a quella del fuoriclasse svedese, avrebbe facilmente potuto partorire determinate considerazioni poco tenere e certamente poco costruttive. Comprensibile la frustrazione, ma non può ogni volta essere l'alibi per giustificare ogni atteggiamento spacca-spogliatoio.

L'episodio a cui ci riferiamo è certamente quel team radio pronunciato alla squadra dopo l'ennesimo sorpasso subito, stavolta da Verstappen sul rettilineo principale:

«Il motore è da GP2».

Non è andato effettivamente neanche troppo lontano dalla realtà Alonso. I motori della GP2, realizzati dalla Mecachrome come fornitore unico della seconda categoria dell'automobilismo, avrebbero una potenza regolamentare di 600 cavalli, poco più di 200 in meno rispetto alla Formula 1. Honda avrebbe tuttavia un armamentario da un'ottantina di cavalli in meno rispetto a Mercedes, stando alle stime, con il gap dai tedeschi e da Ferrari che si sarebbe dilatato dopo gli sviluppi effettuati prima di Monza dalle due power unit dominanti. In sostanza, un propulsore giapponese più adatto ad una categoria di serie B che a sfidare quelli della diretta concorrenza. Ma i panni sporchi vanno comunque lavati in casa.

Non era comparso sulla TV italiana il primo team radio, seguente ad un sorpasso subito da Ericsson (il che è tutto dire), che dimostra come Alonso sia poi recidivo all'interno della stessa gara:

«Sembra la GP2. Imbarazzante, molto imbarazzante».

Non è certo una novità vedere lo spagnolo con il "mal di pancia". Le dichiarazioni rilasciate soprattutto nelle ultime due stagioni lasciavano presagire la volontà di abbandonare l'ormai poco stimato progetto Ferrari. Né risulta un inedito mondiale il vizio del team radio durissimo e assolutamente inutile. Risale alle qualifiche di Monza 2013 un precedente in cui Fernando polemizzava apertamente con il box:

«Quindi c'è da lasciarlo passare. Veramente siete dei (geni/scemi), eh! Mammamia, ragazzi!».

Per poi bacchettare nuovamente, con lo stesso tono di uno spocchioso docente universitario, gli uomini del box in una delle sue ultime apparizioni in Ferrari, sempre in qualifica ma in Brasile, 2014:

«Ahi ahi ahi ahi ahi... perché devo iniziare la qualifica con la batteria scarica? Come è possibile?».

È sembrata una coincidenza talmente rilevante, quella degli insulti proprio in Giappone e in un circuito costruito dalla stessa Honda (come già detto nelle prime parti dell'articolo), che non può non balenare in mente l'idea che lo abbia fatto apposta. Villeneuve su Sky ha perfino azzardato l'ipotesi che sia stato il team McLaren a suggerirglielo, mettendo così pesantemente sotto pressione la Honda che non vuole ricevere aiuti esterni nella progettazione e nello sviluppo della power unit. Aiuti che con questi nuovi labirintici regolamenti sono ormai necessari e imprescindibili per stare al passo con i tempi.

Ha corretto il tiro a fine gara Fernando, sottolineando la necessità che i team radio dovrebbero restare privati (ma lo sanno tutti che da anni vengono pubblicati in mondovisione, doveva in ogni caso evitare certe sceneggiate) e lanciandosi in quello che ormai assomiglia sempre più ad un mantra che non ad un realistico progetto: «Solo Honda potrà, un giorno, sconfiggere Mercedes». Qualche burattinaio ha forse pilotato le dichiarazioni alla stampa, forse perfino quelle, pleonastiche, in gara. Le voci che circolano non lasciano per nulla confidenti gli uomini McLaren nel poter disporre del talento di Alonso anche nel 2016: ipotesi Formula 1 percorribili restano Red Bull e il rinnovato team Renault, che qualcosa di buono insieme ad Alonso ha storicamente fatto. Finestre aperte anche nel mondo dell'endurance, dove già quest'anno lo spagnolo sarebbe dovuto salire sulla Porsche numero 19 campione di Le Mans al posto di Nico Hülkenberg, ma che poi è stato frenato da motivi commerciali imposti dalla McLaren, rivale di Porsche nel mercato. C'è forse qualche Mino Raiola alle spalle di Fernando Alonso, chissà che non sia quello vero...



Promossi e bocciati di Fuori Dagli Schemi

I giapponesi li avete visti, sono precisissimi. Ci ispiriamo anche a loro nelle nostre analisi e nei nostri giudizi post-gara. E come sempre, dopo aver apprezzato il lavoro di chi se lo è meritato in pista, rimandiamo altri a presentarsi al prossimo appello.


PROMOSSI:

- La sicurezza in Formula 1: Per maggiori informazioni, consultare qua. Ci basta soltanto mostrare le immagini dell'incidente di Kvyat in Q3 e spiegare che il pilota russo sia uscito completamente illeso, immediatamente capace di spiegare via radio ai meccanici la dinamica. Rinnoviamo tuttavia l'invito a rivedere le vie di fuga del circuito di Suzuka, troppo vicine alla pista, che in realtà è abbastanza veloce.

Kvyat sbatte, e immediatamente spiega: «Ho toccato l'erba».

- Max Verstappen: La sua ultima gara da minorenne prima di diventare grande. Stava asfaltando in qualifica Sainz, ma il motore lo ha lasciato a piedi, impossibilitato a prendere parte alla Q2. Una furia in gara, riprende di prepotenza la zona punti prima di riavvicinarsi minaccioso sul dirimpettaio di box. L'incubo si ripete: Verstappen è nettamente più veloce di Sainz di almeno mezzo secondo al giro, sorpassandolo all'ultima chicane allo stesso modo di Rosberg su Bottas. Impensabile pensare a un ordine di scuderia: Sainz ha effettuato un bel bloccaggio nella circostanza, che senso avrebbe un flatspot in una situazione già decisa dal muretto box? Verstappen è fin dalle prime gare parso un pilota molto rischioso ed aggressivo, e forse durante l'estate potrebbe aver trovato il giusto bilanciamento della propria ferocia agonistica e del proprio talento. Resta il fatto che l'olandese sta distruggendo Sainz, anche e soprattutto psicologicamente. Un anno esatto dopo il suo debutto in Formula 1, durante le prove libere di Suzuka 2014, appena compiuti 17 anni.

Verstappen un anno fa. Qualche correzione di troppo all'inizio, ma il battesimo fu estremamente positivo.

- Lewis Hamilton e Sebastian Vettel: Hanno indubbiamente tirato fuori il rispettivo massimo, ad eccezione del giro da qualifica di Lewis. Lungo al tornante sotto il ponte, avrebbe certamente migliorato le proprie prestazioni nel secondo tentativo: possibilità scongiurata dalla bandiera rossa causata da Kvyat. Fantastici entrambi in partenza e nel passo, Seb si deve arrendere alla superiorità del mezzo meccanico di Rosberg.

- Cappellini dei tifosi giapponesi: Ce ne era uno in particolare di un tifoso McLaren-Honda, raffigurante l'ala posteriore con il DRS che si apriva e richiudeva a intervalli regolari, da tramandare ai posteri. Altri ugualmente interessanti e divertenti, contenenti un plastico in miniatura della vettura tifata dal soggetto. Salviamo posti con reale passione e cultura sportiva motoristica, Bernie.

- Lotus-Mercedes: Era possibile prevedere, dopo il podio di Spa, una prestazione convincente su un tracciato non molto dissimile. Nonostante i meccanici vengano ospitati da Ecclestone per mangiare, il che la dice lunga sulla gravissima crisi economica interna, arrivano punti e qualche soldo. Che servirà ad alleggerire il debito che Renault si accollerà, nell'ambito della completa rilevazione del team.

- Nico Hulkenberg: È tornato. Gaudeamus igitur. Ecco l'Hulk di Le Mans. Pochi highlights che lo vedono coinvolto, ma la prova resta estremamente solida e concreta. I cinque davanti erano in possesso di vetture decisamente imprendibili, e l'occasione di accorciare in Campionato sul compagno Perez, fuori pista alla prima curva, era troppo ghiotta. Nico non se l'è lasciata sfuggire.


- Fernando Alonso: Rivedibile l'atteggiamento, come già spiegato precedentemente. Resta in ogni caso un risultato formidabile, date le premesse, e sicuramente una delle migliori gare della stagione dopo l'Ungheria. Dà la paga a gente come Perez, Kvyat, Ericsson, tutti dotati di monoposto ampiamente più competitive della sua. Nonché al compagno di squadra Button, surclassato nell'intero weekend e apparso decisamente a secco di motivazioni.

- Alexander Rossi: Non ci siamo scordati di assegnare la Coppa GT, per la seconda volta consecutiva, ad Alexander Rossi. Seconda gara in carriera, seconda vittoria sul compagno di squadra. Non certo sufficiente per puntare fiches su di lui come erede di Schumacher, ma già in GP2 ha mostrato un ottimo livello di guida che ben presto lo ricompenserà di un volante di Formula 1 di peso maggiore.


BOCCIATI:

- Red Bull-Renault: Trapelava ottimismo dopo Singapore. E non solo e non tanto per il risultato ottenuto, quanto piuttosto per i miglioramenti generali effettuati dal telaio nelle ultime 4-5 gare e che davano grande ottimismo soprattutto a Ricciardo. Che poi tanto sorride sempre e comunque, quindi non è che si possa capire quando è sfiduciato. Le prestazioni, sia in qualifica che sul passo, si sono invece rivelate del tutto insufficienti, e Kvyat ha faticato per tutta la gara a gestire un imbizzarrito impianto frenante. Non c'è molto altro da aggiungere, se non che non è la prima volta che la sorellina minore Toro Rosso fa i dispetti a quella più grande, rubandole la merenda.

- Partenze di Rosberg e Bottas: Di Nico Rosberg avevamo già approfonditamente discusso in precedenza. Bottas era invece una enorme minaccia per la Ferrari: estremamente cattivo ed efficace in qualifica, in gara si è trasformato nel solito brodino mangiabile ma senza particolare sapore. L'efficienza aerodinamica e la potenza della sua Williams facevano sì che sarebbe probabilmente risultato inattaccabile in pista da Vettel, deciso a rubargli la posizione direttamente sui blocchi di partenza. E lo farà, sfruttando un enorme pattinamento del finlandese in terza marcia, dopo uno spunto discreto: da lì in avanti Bottas si farà perfino superare in pista da Rosberg, per poi accontentarsi della quinta posizione a seguito del riuscito undercut di Raikkonen.

Dal minuto 0:47 l'on board dello scatto di Bottas. Facile vedere il pattinamento in terza marcia che gli compromette la posizione, a vantaggio di Vettel.

- Carlos Sainz: Vedi alla voce Verstappen. Sainz sembra ormai totalmente fuori fiducia, al punto tale da sentire talmente la pressione da combinarne una per ogni Gran Premio. A muro in qualifica a Singapore, riesce nell'impresa di centrare il paletto all'ingresso della pit lane in gara a Suzuka, costretto a cambiare l'ala anteriore. Il ritmo nei confronti dell'olandese è ridicolo, e sembra perfino facilitarne il sorpasso al punto tale da farlo sembrare un ordine di scuderia. Riesce a dilapidare in soli 7 giri un vantaggio di 4.8 secondi sul compagno di squadra, subendone immediatamente l'attacco. Non dovrebbe attaccarsi al mancato rispetto dell'ordine impartito a Verstappen a Singapore, ma tenere giù il piede ed andare forte.



- Marcus Ericsson: Possibile che un pilota che da due stagioni corre in Formula 1 riesca nell'impresa di commettere tre errori simili tra loro nella stessa curva (la Spoon) in un intero weekend? Dei quali due in gara, per giunta? Ericsson è, verrebbe da dire "finalmente", tornato ad essere il pilota pagante. Non contento, si addormenta nel doppiaggio che concede a Raikkonen facendosi contemporaneamente infilare anche da Kvyat. Magra consolazione il fatto che, anche in una gara pulita, resta difficile pensare che la Sauber potesse portarlo a punti.

- Jenson Button: Che le motivazioni stiano venendo meno, è sinceramente comprensibile. A tutto ciò si aggiunge il team McLaren che sta evidentemente mettendo pressione all'inglese affinché non ne abbia abbastanza della Formula 1, in vista di un non impossibile divorzio con Fernando Alonso. La pazienza è venuta meno ai due piloti McLaren, entrambi Campioni del Mondo e ridotti a lottare con le Manor. Button non si lamenta come Alonso, ma rimane protagonista di una gara assolutamente anonima, figlia di una cattiveria agonistica che se ne è andata da tempo. Per il suo bene, e per il bene di giovani come Vandoorne e Magnussen, se la motivazione è questa, sarebbe meglio salutare il circus e lasciare spazio ad altri.


Articolo a cura di Federico Principi