sabato 19 settembre 2015

Un pesce nello tsunami

Pensieri immaginari e immaginati di Mardy Fish. Il volto sereno (all’apparenza), ma irriducibile, degli USA.

di Emilio Malandrino






Il caldo continua ad essere asfissiante. 
Per quanto tempo ancora dovrò subire questo strazio? Lo spagnolo-meno-spagnolo tra tutti nel circuito prosegue in un piano tattico impeccabile ed ha un servizio costante dalla sua, in questo quinto set; le sue discese a rete si diradano in quanto non riesco più a rispondere: i crampi stanno consumando quel residuo di determinazione rimastami.
Cosa me ne importa, ormai?
Potrei lamentarmi dell’età, ma sto affrontando un mio coetaneo. 
Falso: ho vissuto fin troppe esistenze per cadere nel tranello dell’anagrafica…lui lo sa, ma non può coglierlo fino in fondo.


La temperatura mi riporta indietro di soli 1600 giorni: Atlanta, prima del calvario, molte piccole tappe verso il Golgota. Sto per battere una speranza americana, quella che ho rappresentato fin dal lontano 2003, quando portai a casa l’unico titolo da singolarista fuori dalla mia amata terra, nella fredda Stoccolma. Forse è da lì che ho cominciato ad esser prigioniero dei fantasmi della mia mente, innamorandomene. L’adrenalina di un giovane ignaro dello stress causato da uno sport che risucchia la tua linfa vitale, incontro dopo incontro.

Con il successo su John Isner del 2010, inauguro i due anni più floridi per costanza e risultati della mia carriera, con un futuro apparentemente radioso: ventottenne, sposato. Di lì a poco numero uno d’America, l’America di Connors e Mc, di Sampras ed Agassi, di Andy, il quale mi ha passato il testimone dopo il dramma patito a W09 (ed io come l’avrei presa?). Il 2009 ha rappresentato il mio personale punto di svolta: nulla probabilmente sarebbe arrivato se non mi fossi affrontato allo specchio ed avessi constatato che, sì, albergava nel mio spirito l’intenzione di stupire ed elevare il mio livello, mettendo a dura prova il mio fisico perdendo 13 kilogrammi, migliorando il diritto e la capacità di entrare nel rettangolo di servizio con i piedi appena prendevo campo.
C’è di peggio.
Ci sarebbe stato di peggio.
C’è stato di peggio.


5-3, 40-15. Pigramente, provo ad impattare la sfera con il mio fedele rovescio: rispondo ad una prima non aggressiva, ma al corpo. Sono lento. La palla si alza come se l’abbia colpita un bambino ai primi allenamenti non senza una certa goffaggine e si adagia nel corridoio. 
Non praticherò il mestiere che più mi si confaceva, d’ora in poi. Non ritroverò il campo, panacea dei mali della mia mente e causa dei sussulti del mio cuore: mi son scoperto dimezzato fin dal 2012, in questo stesso torneo. Avrei voluto affrontare, in quell’anno sciagurato, la leggenda del nostro sport, il campione senza grandi infortuni e dalla classe cristallina, fresco vincitore di Wimbledon (ma nel palmares siamo accomunati da un argento olimpico; lui nel tempio del tennis, io nella civiltà dei templi)…e non potevo. Il nostro gioco viene spesso accostato alla boxe, ma lì, ad ogni ripresa, vi è qualcuno che tenta di condurti fuori dal rettangolo. Io mi sentivo distante, schiacciato dalla pressione delle mie stesse aspettative, divorato dalle insicurezze ed atterrito dal declino.
Ho assaggiato l’oblio ed ho riflettuto più volte su quella che sembrava una fuga. Ho partecipato ad altri tornei poiché non riuscivo ad accettarmi al di fuori di essi. Così facendo, mi esponevo al pericolo, al rischio di una sequenza innaturale di battiti. 
Giorni simili ad un artefatto dedalico, senza uscita.
Eppure, quel rovescio inerme è la prova del mio ritorno agli US Open. E’ il saluto di commiato dopo essersi rivisti con gioia e quando non si credeva potesse riaccadere.
Potrò anche non far affidamento costante sul mio cuore, ma le estati nella “landa delle opportunità”, coincidenti con le più alte vette del mio gioco, e gli sguardi molteplici e diversi del mio popolo, mi terranno vivo a lungo. Mentre la tempesta dentro me imperversava, non potevo rendermene davvero conto. Ora, invece, mi sembra di ammirare tutti gli occhi sereni ed al contempo esasperati da una realtà in cui l’acqua sale costantemente alla gola e le pause possibili sono sempre meno e sempre più corte. Occhi come i miei. 


Combatto, ancora, con voi. Abbiamo appena cominciato.


Articolo a cura di Emilio Malandrino



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