martedì 15 settembre 2015

Calcio cerebrale

Thiago Alcantara continua a controllare spazio e tempo. Viaggio nella sua dimensione calcistica.

di Emanuele Mongiardo







Esiste un sentimento, a mio avviso il più catartico ed inebriante allo stesso tempo, che Goethe definisce affinità elettiva: si tratta di riconoscere un altro soffio vitale verso il quale nutrire una sorta di comunione, di empatia nell’accezione più radicale del termine, soffrire insieme come direbbe Federico Buffa. La nobiltà di questo stato d’animo coincide con la difficoltà nell’incontrare il collimante altrui pensiero, proprio per questo il raggiungimento dell’affinità stimola il piacere intellettuale e non solo.

Calcisticamente è un sentimento che ho sperimentato per la prima volta nel corso della Champions League 2007, durante Milan-Celtic e nei 180 minuti di Milan-Manchester United in semifinale, grazie ad un certo Ricardo Izecson dos Santos Leite: non mi vergogno di ammettere che sul contrasto fratricida Evra-Heinze è scappata più di qualche lacrimuccia. A distanza di otto anni, in una sera di aprile, mese di Pasqua, ho vissuto un’altra rinascita spirituale, grazie a Guardiola e ad un suo discepolo. All’Allianz Arena va in scena Bayern Monaco-Porto, quarto di finale di ritorno di Champions League. La sconfitta per 3 a 1 all’andata ha messo Pep con le spalle al muro, è da solo contro tutti, nel mirino di quell’opinione pubblica presuntuosa e sputa sentenze per la quale non vale più la pena discutere di calcio davanti ad un buon caffè macchiato. L’unico modo per risorgere, come recitato dalle sacre scritture, è stravincere il match in Baviera. E qui, in difesa del Sistema del tecnico catalano, contro la Santa inquisizione fantacalcista che non aspetta altro che mandarlo al rogo, arriva il suo massimo interprete: è un ragazzo di talento brasiliano e capacità associativa spagnola post 2008, tarantolato dal ritmo della propria terra natia. Suo padre si chiama Mazinho ed è stato campione del mondo, Balotelli davanti ai microfoni della tv spagnola lo ha definito «El mas grande». Il suo nome è Thiago Alcantara.

E forse avresti potuto esserlo anche tu, Mario.

E’ il 1990-91, stagione immediatamente successiva ai mondiali delle notti magiche. La Serie A è l’epicentro del calcio mondiale, un campionato fantastico in cui la Sampdoria di Vialli e Mancini sovverte ogni pronostico, aggiudicandosi lo scudetto. Il livello è talmente alto che anche una squadra destinata alla retrocessione come il Lecce può annoverare in rosa giocatori del calibro di Antonio Conte, Checco Moriero e Pietro Paolo Virdis, oltre che il sovietico Sergeij Alejnikov. Vi è persino un nazionale brasiliano, riserva ad Italia 90 ma destinato ad una casacca da titolare al mondiale successivo. Si tratta di Mazinho, trasferitosi in Salento assieme alla moglie e pallavolista Valeria Alcantara. L’undici aprile di quell’anno nasce il loro primogenito, Thiago, in un paese rivierasco di 15 mila anime, San Pietro Vernotico. La ventata d’aria fresca portata dall’ex canterano blaugrana in Germania si addice perfettamente allo spirito della sua terra d’origine, la Giamaica italiana, quella in grado, grazie ad interpreti come i pionieri Papa Ricky e Gopher D (non i Boomdabash, GOPHER, QUELLO DI NEO EX), di rivoluzionare passo dopo passo il sottobosco della musica italiana. E’ stato Guardiola stesso ad imporre il suo acquisto come conditio sine qua non per il suo approdo in Baviera. Venticinque milioni il prezzo del cartellino, cessione più redditizia della storia catalana. 

Anche il Flamengo tenta di lucrare sull’affare, chiedendo una caparra in quanto clube formador, in un caso analogo alla querelle Gilberto Silva-Arsenal-America MG. Già, perché la prima adolescenza calcistica di Thiago è a tinte rubionere: è il 2002, Mazinho ha da poco abbandonato il calcio e il talento di suo figlio inizia a sfavillare per i campetti del bairro Gavea. I leader di quel manipolo di undicenni sono lui e suo cugino Rodrigo, oggi dardo nella faretra del rinascente Valencia targato Nuno Espirito Santo; insieme vinceranno anche una Copa Juniores. 


Rodrigo esulta dopo un gol. Accanto a lui un Thiago “gordito”.
Papà Mazinho è conscio della caratura della propria gemma, vuole raffinarla in Europa, nella città in cui ha lasciato il cuore, Vigo. El chavel si sente gallego, è tifosissimo del Celta, «Mi sueño es triunfar en Galicia», dichiarerà nel 2011. Nel frattempo incanta con le giovanili dell’Ureca, una delle tante società cittadine, assieme all’inseparabile cugino e al fratellino Rafinha. E’ due spanne sopra gli altri, lo bramano sia il SuperDepor che il Real Madrid. Alla fine avrà la meglio il Barcellona, disposto a sborsare i 40 mila euro richiesti dal padre. Il suo acquisto rappresenta un’inversione di tendenza a La Masia, probabilmente è la prima pietra nella costruzione della Cantera dalla quale Guardiola inizierà ad attingere con frequenza: i blaugrana hanno appena ceduto Fabregas e Fran Merida (quanto era forte a FM2008?) all’Arsenal e molti storceranno il naso di fronte alle migliaia di euro sborsate per un tredicenne. Le giovanili sono solo l’anticamera dell’esordio in prima squadra, nel maggio 2009 contro il Maiorca. 



Ma la netta sensazione di trovarsi di fronte ad un predestinato la si ha nell’estate del 2011: domina sotto età gli europei under 21, segnando un gol in finale su punizione da trenta metri sintomatico della sua velocità di pensiero. Dopodichè indossa lo smoking più elegante nell’amichevole di Audi Cup contro il Bayern, attirando le attenzioni di tutti i notiziari che non esitano a designarlo come erede di Xavi. Se da noi in Italia Verratti è stato subito insignito della carica di nuovo Pirlo (Sconcerti addirittura pensava fosse un novello Ambrosini), anche le testate spagnole si sono dimostrate fallaci in quanto ad accostamenti tra giocatori. Perché probabilmente Thiago non ha l’abilità del Profe nello smarcare i compagni con filtranti da PlayStation, per quanto sia brillante anche in questo fondamentale. Il catalano è una mezzala di possesso, ricamata su misura per il calcio di posizione di Guardiola. In un certo senso Alcantara è invece succube nel periodo blaugrana di questo sistema, che prevede un’imprescindibile superiorità numerica in mediana, atta a garantire il possesso della sfera sia in ottica difensiva, restando corti ed impedendo le ripartenze avversarie, sia in fase offensiva, premiando appena possibile i tagli degli attaccanti. 

 02:07, inserimento e stacco di testa perentorio, anche nel contesto del futbol de toque. 05:07, giudicate voi.

Le lusinghe di Pep il bavarese e la cappa di pessimismo attorno al nuovo corso culè lo convincono a trasferirsi in Germania. Effettivamente, il gusto sperimentativo di Guardiola tocca l’apice solo col ritorno in campo del figlio di Mazinho, reduce da due infortuni ai legamenti del ginocchio. Nel Bayern è diverso, soprattutto per l’assenza di un motore immobile come Xavi (nel senso aristotelico del termine) e di un alieno come il 10 argentino. L’elasticità mentale di Guardiola porta ad un’evoluzione del sistema, senza la negazione del precedente sostrato tattico. Si tratta di un calcio bicerebrale, sito nelle menti di Lahm e di Thiago. Siamo di fronte ad un vero e proprio comandante delle forme a priori, intese come spazio e tempo: la libertà di movimento gli permette di decidere come si svilupperà la fase offensiva, un regista con e senza il pallone. E’ il sogno del colonnello Lobanovsky, di Sacchi, di Cruijff: un giocatore a tutto campo e a tutto tempo. «El futbol que hago lo tengo dibujado en mi cabeza».Spiega lui stesso, meglio di tutti, l’universalità e l’analiticità a priori del suo modo di stare in campo. Crea sempre nuove linee di passaggio, non da respiro al centrocampo avversario, è sempre la prima opzione per i compagni. Lo si vede spesso affiancare Muller e gli esterni nella linea dei trequartisti dietro Lewandowski. Non di rado sfrutta il movimento incontro del polacco per attaccare la profondità e spostare la regia a ridosso dell’area avversaria, in ossequio al guardioliano principio per cui il miglior centravanti è lo spazio. Nonostante il metro e settanta scarso d’altezza è spesso pericoloso sui traversoni, grazie al meraviglioso tempismo negli inserimenti: Caldirola, Bianchetti e il centrocampo dell’Italia under 21 di Mangia lo stanno ancora cercando in Israele. Il meglio però lo da fronte alla porta palla al piede, situazione in cui probabilmente è il centrocampista più decisivo al mondo: può verticalizzare improvvisamente, aprire il gioco per l’ala o per la sovrapposizione del terzino, oppure saltare l’uomo, data la buona velocità di gambe e la tecnica sopraffina, che gli permette giocate da stropicciarsi gli occhi come questa:


E quindi torniamo al punto iniziale, alla partita delle affinità elettive: nell’anno in cui il menottismo di Luis Enrique riesce a sbaragliare la minuziosità, la ricerca dell’assoluto e del miglioramento del sistema di Pep, quel quarto di finale contro il Porto rappresenta una revancha per chiunque creda che l’idea venga prima del singolo. Agisce sia da interno destro che da interno sinistro, non concede punti di riferimento ad un allenatore meticoloso e perspicace come Lopetegui (che ne aveva intuito l'intelligenza spaziale in Under 21), sfianca ed umilia il povero Hector Herrera, tra i centrocampisti più intelligenti d’Europa. Prevede ed incanala a suo piacimento ogni azione bavarese, comprese quelle decisive ai fini del 6 a 1. Effettua una perfetta scelta di tempo in occasione del primo gol, anticipando il difensore sul cross di Bernat. Nel terzo effettua un lancio semplicemente fantastico, immaginifico, quasi tottiano per la capacità di guadagnare un tempo di gioco, dando il là alla splendida combinazione volante che porta al colpo di testa di Lewandowski. In occasione del quarto, per la verità un po’ fortunoso, salta il diretto marcatore all’altezza del centrocampo solo con una perfetta orientazione dello stop di petto, scatenando la transizione offensiva e quindi il destro di Muller. Con un doppio passo infine, propizia il fallo e l’espulsione di Marcano, con conseguente punizione del 6 a 1 di Xabi Alonso. «Questo è il calcio degli angeli. Raramente si vede giocare così tra i comuni mortali», arriverà a dire un’entusiasta Daniele Adani a fine primo tempo.

 00:53 <<Solo giocate di qualità di Thiago Alcantara>>.

Venti milioni cash, quattro milioni totali di ingaggio risparmiati ed un milione incassato con un’amichevole contro il Bayern: questo è quanto guadagnato dal Barcellona grazie all’affare Thiago Alcantara. L’ultima estate ci ha regalato il calciomercato più dissennato e delirante di sempre, con cifre esorbitanti sborsate per giovani ancora in rampa di lancio. Viviamo nell’epoca della dicotomia Messi-Cristiano, in cui Kondogbia vale 35 milioni, il Manchester United sborsa 50 milioni su due piedi per Martial e Pogba per qualcuno è la Gioconda: gli highlights prima della partita a 360 gradi. C’è chi però continua a percorrere il proprio sentiero, convinto delle proprie idee, ragionando e producendo calcio nell’ottica del beneficio comune. Perché chi ha già il proprio gioco scolpito nell’intelletto lo sa: meglio ricercare la situazione più vantaggiosa per arrivare in porta, magari rinunciando a qualche doppio passo inutile a centrocampo e alle conseguenti copertine sui tabloid. D’altronde, cosa servirebbero a qualcuno in grado di controllare spazio e tempo?


Da tifoso del Celta, Thiago avrà avuto un rapporto speciale con un’icona celeste come Tito Vilanova. Scrisse di suo pugno una lettera d’addio al Barcellona, con una menzione particolare per il  suo ex mentore.                
<<Per te Tito, splendido lottatore… come ha detto Abi, se trovi delle pietre lungo il tuo cammino raccoglile, perché ti serviranno un giorno per costruire un castello. Nessuno ha il minimo dubbio che tornerai e proseguirai nel tuo percorso>>.
Sono sicuro che anche Tito, da lassù, quel 21 aprile dello scorso anno, avrà provato una qualche affinità elettiva nei confronti di Thiago.


Articolo a cura di Emanuele Mongiardo


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