Il Barcellona di Valverde sconfigge la Juve e si candida per il primo posto del girone D
di Emanuele Mongiardo
A distanza di cinque mesi dallo zero a zero che aveva schiuso alla Juventus le porte della semifinale di Champions League, gli uomini di Allegri tornano al Camp Nou, stavolta per la prima giornata della fase a gironi di Coppa. Barcellona e Juventus hanno in comune un'estate piuttosto movimentata, destinata probabilmente a segnare un nuovo percorso per entrambe le squadre.
Da una parte la cessione di Bonucci costringe a rivedere parte dei meccanismi di quello che è stato, unitamente a quello dell'Atletico di Simeone, il miglior reparto difensivo degli ultimi anni in Europa, senza considerare l'età di Chiellini e Barzagli che costringerà Allegri a coinvolgere sempre più uomini nella rotazioni difensive.
Il Barcellona invece deve ancora assimilare l'addio a Neymar, desideroso di svincolarsi dal cono d'ombra di Messi e per questo migrato ai piedi della Tou Eiffel. Il mercato ha portato in dote Dembele, talento potenzialmente sconfinato ma ancora da sgrezzare. Soprattutto però è cambiata la guida tecnica: dopo il triennio di Luis Enrique, in cui i risultati gravavano sulle spalle della MSN, è stato scelto come nuovo allenatore Ernesto Valverde: l'ex Athletic ha il compito di ricostruire meccanismi di gioco che possano innanzitutto esaltare il talento di Messi e quindi portare alla vittoria in Liga e in Champions.
Barcellona e Juventus arrivano allo scontro di martedì entrambe con un percorso netto di tre vittorie in campionato. Ragionevolmente nel gruppo D sono loro le squadre favorite per la qualificazione, ecco perché il match del Camp Nou può essere rivelatore per quanto riguarda le gerarchie del girone.
Allegri, orfano di Mandzukic. Chiellini, Cuadrado e Khedira, punta su quasi tutti i nuovi arrivati, proponendo un 4-4-2 pronto a trasformarsi in un 4-3-3 asimmetrico in fase offensiva. Davanti a Buffon agiscono Barzagli e Benatia, i centrali con maggior esperienza a disposizione, mentre il terzino destro scelto per l'occasione è De Sciglio; a sinistra, ovviamente, Alex Sandro. In mezzo al campo Pjanic e Matuidi sono i due mediani; alla loro destra prende posto il giovane uruguayano Bentancur, col compito di accentrarsi in fase di non possesso e creare un centrocampo a tre; l'esterno opposto è invece Douglas Costa, chiamato ad ambientarsi il prima possibile nell'undici titolare. Le punte sono Higuain e Dybala.
Valverde invece conferma le scelte delle prime giornate di Liga; unica novità è Dembele al posto di Deulofeu. Perciò i quattro davanti a Ter Stegen sono Semedo, Pique, Umtiti e Alba. Busquets è il mediano davanti a cui si muovono Rakitic e Iniesta. Davanti, oltre all'ex ala del Dortmund, ci sono Leo Messi da falso 9 e Suarez nell'inedita posizione di ala sinistra.
La strategia di Max
Già dal fischio iniziale è chiaro quale sarà lo spartito della gara: Barcellona in controllo del pallone e Juve attenta a negare ogni spazio tra le linee per recuperare palla e attaccare in transizione.
La Juve invece parte con un 4-4-2 che preferisce coprire il centro del campo mantenendo soprattutto una distanza minima tra difesa e centrocampo, comprimendo quindi quegli spazi vitali per giocatori come Messi e Iniesta. In questo modo si riescono anche a recuperare palloni utili per ripartire in transizione. Ovviemente il 4-4-2 prevede scivolamenti da un lato all'altro del campo che portano Costa o Bentancur a uscire in pressione sul terzino del lato palla, con l'esterno del lato opposto che stringe in modo da poter controllare i movimenti della mezzala sul lato debole. Nella linea di centrocampo Allegri concede a Matuidi licenza di staccarsi per aggredire il centrocampista più vicino, a patto però di essere coperto alle spalle da Pjanic.
Il 4-4-2 juventino con l'esterno del lato palla (Bentancur) che esce sul terzino (Jordi Alba)
Le uniche occasioni in cui la Juve prova a pressare più in alto sono le rimesse dal fondo, durante le quali Dybala e Higuain schermano il lato destro del Barcellona in modo da lasciare libera solo la linea di passaggio su Umtiti sul centro sinistra, costringendo quindi i padroni di casa ad affidare il possesso al centrale di difesa meno dotato tecnicamente (e comunque Umtiti ha degli ottimi piedi) e soprattutto invitando i blaugrana a sviluppare l'azione sul loro lato meno creativo.
Per quanto riguarda invece la fase offensiva, Allegri sa di non potersi affidare solamente alle transizioni. Durante la scorsa stagione, nel doppio confronto, aveva approfittato a pieno della tecnica di due difensori come Bonucci e Dani Alves per risalire il campo palleggiando, aiutato anche dal pressing approssimativo del Barcellona di Luis Enrique. Stavolta l'intenzione è attirare il pressing del Barcellona sulla propria destra, il lato per intenderci dove ama spaziare Dybala, per poi cambiare velocemente gioco sulla fascia di Alex Sandro e Douglas Costa, sorprendendo così gli avversari sul loro lato debole. E' un piano che necessita innanzitutto di moovimenti coordinati tra Dybala e Higuain, col primo che spesso muovendosi verso la fascia apre corridoi interessanti per il passaggio del terzino sul Pipita. Questi può decidere di proteggere palla e cambiare gioco in prima persona o, come avvenuto molto raramente, appoggiarsi su Bentancur, rimandando al giovane ex Boca la responsabilità del cambio gioco. In alternativa, il giocatore più cercato quando la Juve porta molti uomini in fascia è Pjanic, sicuramente il più adatto a innescare i due esterni brasiliani sul lato debole.
due occasioni in cui il movimento verso l'esterno di Dybala libera il passaggio su Higuain. Nel primo caso il Pipita appoggia a Bentancur che però sbaglia la misura del lancio, nel secondo si mette in proprio e col sinistro attiva la conduzione di Alex Sandro
La mano di Valverde
E' un piano che non riesce del tutto perché Valverde sembra aver capito che uno dei più grandi problemi dell'ultimo Barcellona di Luis Enrique era proprio la riconquista della palla. Per contrastare il palleggio bianconero l'ex allenatore dell'Athletic, quando la sua squadra è in pressione alta, vuole pareggiare il numero di uomini adottati dalla Juve in impostazione. Perciò, anche sulle rimesse dal fondo, spesso si ritrovano alcuni accoppiamenti fissi: Suarez e Messi gravitano nella zona dei centrali di difesa, Iniesta si alza su Pjanic e Rakitic va su Umtiti. Sfruttando l'asimmetria di entrambi gli schieramenti Jordi Alba si alza su De Sciglio.
L'unico dubbio riguarda la marcatura di Bentancur, che probabilmente Valverde non immaginava mezzala destra ma trequartista nel classico 4-2-3-1 bianconero. Il Barcellona allora si adatta alla posizione dell'uruguayano alzando anche Busquets in pressing, pareggiando numericamente il centrocampo a tre della Juve e affidando la marcatura di Dybala al talento difensivo di Umtiti, autorizzato anche ad uscite in zone rischiose sulla Joya. E' un tipo di pressione alta che necessita ancora di miglioramenti nella tempistica, ma che porta spesso i bianconeri a commettere errori tecnici che riconsegnano il possesso al Barcellona. Quando invece la pressione viene elusa e bisogna difendere più bassi Valverde adotta un classico 4-4-2, in cui Dembelè e Iniesta sono gli esterni col compito di attivare gli scivolamenti sul lato palla, con conseguenti scalate dei compagni.
Pressione alta del Barcellona, con il tre contro tre a centrocampo. Qui Rakitic scala e si occupa di Dybala che si muove alle sue spalle, lasciando la marcatura di Matuidi a Dembele che stringe. Da notare Jordi Alba che si alza su De Sciglio
L'influenza di Valverde però, è percettibile soprattutto per quanto riguarda la fase di costruzione. Il primo aspetto che salta all'occhio è l'asimmetria tra il lato sinistro e il lato destro del campo. Detto della posizione da finto centravanti di Messi, che secondo le proprie inclinazioni naturali gravita sul centro destra, è da notare come sulla destra l'ampiezza sia garantita da Dembele, con Semedo che quindi resta alle spalle del talento francese. Sul lato opposto invece tocca a Jordi Alba restare largo per smagliare la linea difensiva avversaria; quando il terzino ex Valencia sale allora Suarez può accentrarsi e agire in una zona a lui più consona.
L'asimmetria del 4-3-3 del Barcellona evidenziata dalla posizione dei suoi tre attaccanti, con Suarez che viene dentro e Alba che si alza
Nonostante il Barcellona nel primo tempo non riesca quasi mai a giungere dalle parti di Buffon per via delle distanze serrate tra centrocampo e difesa, vi sono alcuni aspetti incoraggianti del nuovo corso catalano. Innanzitutto Messi e Iniesta ritornano ad essere le pietre angolari della squadra: dai loro movimenti e dalle loro interazioni, reciproche e coi compagni, nascono le migliori trame culé.
Don Andres talvolta si muove verso la fascia sinistra, quella di Umtiti a cui la Juve spesso e volentieri concede il possesso. In questo caso è evidente come Valverde stia cercando di coordinare soprattutto i movimenti del Manchego, di Suarez e di Jordi Alba, in modo da non fossilizzare la costruzione solo sul lato destro. Qui una combinazione spesso provata, ma praticamente mai andata a buon fine anche per l'attenzione di De Sciglio e Sturaro, è lo scatto dell'ex valenciano non appena Suarez entra dentro il campo e libera la fascia, con conseguente filtrante alle spalle della difesa di Iniesta; ma come detto, la Juve è stata brava a disinnescare questo tipo di giocata, che comunque potrà essere riprovata e affinata nel corso della stagione.
Nella maggior parte dei casi però ama muoversi verso il centro, avvicinandosi a Messi e alla zona con più uomini blaugrana per condurre palla e creare triangoli che permettono alla squadra di occupare in blocco la trequarti avversaria.
Lezione di geometria spiegata dal professor Iniesta: prima triangola con Messi per raggiungere il centro destra. Quando poi Dembele gli restituisce palla forma un triangolo con Rakitic e Semedo, poi ne forma un altro con Messi e Suarez, con il suo movimento che apre il passaggio dalla pulce all'uruguayano. Infine ne forma un ultimo con Busquets e Suarez al termine del quale prova l'imbucata verso Rakitic che con fiducia cieca nel suo capitano si era inserito in area
La presenza massiccia di così tanti uomini sulla propria destra ha dei risvolti anche sulla fase difensiva: Valverde vuole invitare i suoi a una riconquista di palla immediata, con l'aggressione sugli avversari appena perso il possesso. Situazione non così frequente nel corso della sfida alla Juve, essendo un meccanismo ancora da collaudare, ma che comunque sarà importante riproporre per recuperare palla in zone pericolose e moltiplicare quindi le occasioni da gol.
Qui la pressione costringe De Sciglio a buttare via il pallone
Messi invece molto spesso rientra fino al centrocampo per aiutare la costruzione, favorendo così il ritorno di Suarez verso il centro. Soprattutto Messi in zona centrale leggermente arretrato può essere esiziale se si aprono varchi tra difesa e centrocampo; come in occasione del gol dell'uno a zero, quando il Barcellona con pazienza riesce a sviluppare un'azione palla a terra a partire da Ter Stegen. Il portiere tedesco, approfittando di una copertura della linea di passaggio non ottimale da parte di Higuain, serve Pique che, pressato, innesca Dembele, che con un controllo orientato elude l'aggressione di Alex Sandro. A quel punto, con la Juve riversata in avanti per via della precedente pressione, il talento francese può servire Messi alle spalle del centrocampo bianconero. In questo caso Pjanic e Bentancur riescono a rientrare su diez, ma Leo dà un saggio della sua incisività da falso nueve: nonostante il rientro dei centrocampisti, gli basta usare Suarez come parete per oltrepassare la mediana avversaria e bucare Buffon con controllo e tiro eseguiti praticamente in un millisecondo.
L'importanza di Ter Stegen
Ma il primo gol offre ulteriori spunti di riflessione, sul lavoro di Valverde e sulle qualità dei singoli. E' evidente come il nuovo allenatore punti molto sulla costruzione dal basso che sembra essere l'aspetto del gioco meglio sviluppato fino ad ora dai blaugrana. Il Barcellona non esita a portare un gran numero di uomini a ridosso della propria area per favorire un'uscita pulita della palla; spesso gli unici a non essere coinvolti nella prima costruzione sono i soli Dembelè e Suarez, su cui comunque in casi di emergenza si può cercare la palla lunga per saltare il pressing. I catalani in prima costruzione allargano i centrali di difesa, con Busquets che quindi può decidere se restare a centrocampo o abbassarsi tra di loro in salida lavolpiana. Rakitic e iniesta si avvicinano alla difesa e spesso anche Messi, seppur più avanzato, viene incontro appena dietro ai centrocampisti. Soprattutto però, i terzini si alzano e si mettono con i piedi sulla linea del fallo laterale: è il dettaglio più importante perché permette da sfruttare i lanci millimetrici Ter Stegen, probabilmente il miglior portiere al mondo nell'impostazione insieme a Neuer e Reina.
La Juventus cerca di ostacolare l'impostazione con le due punte orientate sui centrali di difesa, Matuidi che si alza su Busquets e gli esterni che stringono nella zona delle mezzali, pronti a uscire in pressione sul terzino in possesso attivando le scalate da un lato all'altro se la palla dovesse arrivare sulle fasce. In tutto ciò, con i centrocampisti e i difensori bloccati, Ter Stegen è quasi sempre perfetto a lanciare sui terzini, soprattutto Jordi Alba, che a quel punto può appoggiare su Suarez e permettere al Barcellona di palleggiare con calma o, nel migliore dei casi, avanzare in conduzione.
ecco i vantaggi che garantisce un portiere forte coi piedi
Fine delle ostilità
Nel secondo tempo poi c'è l'episodio che chiude del tutto la partita, con Benatia che esce in anticipo su un'imbucata di Rakitic per Dembele; il marocchino però sbaglia il controllo e regala palla a Suarez che può allargare per Messi; Leo coglie la difesa avversaria impreparata, punta il fondo e determina la deviazione di Sturaro che propizia il 2 a 0 di Rakitic. Dopo la rete del Croato la Juventus difatti esce lentamente dalla partita, forse anche per la consapevolezza di affrontare un girone che difficilmente non riuscirà a superare. Ne è la prova il gol del 3 a 0, timbrato da Messi e nato da un contropiede condotto da Iniesta.
La Juventus, seppur priva di diversi titolari, ha giocato un primo tempo di grande equilibrio, in cui è anche riuscita ad impensierire Ter Stegen. Cercare analogie tra il crollo di Cardiff e questa sconfitta mi sembra fuorviante, innanzitutto per le diverse motivazioni in campo e poi per svariate situazioni contingenti, tra cui il periodo della stagione, il valore complessivo del girone e le già citate assenze. La prima parte di stagione è sempre un periodo di assestamento per Allegri che deve innanzitutto trovare il modo di mettere a proprio agio un talento come Douglas Costa che potrebbe mettere a ferro e fuoco la Serie A e garantire quell'upgrade offensivo che Cuadrado non offre. De Sciglio nella mezz'ora abbondante in cui ha giocato si è dimostrato affidabile difensivamente e ha giocato anche dei buoni palloni verso Higuain, segno che con un'organizzazione solida e un parco giocatori diverso alle proprie spalle può essere uno dei migliori terzini italiani; forse il primo tempo del Camp Nou è troppo poco, ma l'inizio lascia ben sperare. Il più pronto dei nuovi acquisti è sembrato Matuidi, che ha scelto oculatamente quando restare nella linea dei quattro centrocampisti e quando invece uscire in pressione sull'uomo più vicino. In ogni caso il rientro di Khedira, Mandzukic e Chiellini aiuterà Allegri a decidere in che grado essere conservatore, per creare il giusto mix tra la solidità granitica dello scorso anno e le caratteristiche dei nuovi arrivati e per scendere a patti col talento di Douglas Costa e, perché no, Bernardeschi.
Valverde, pur all'inizio del suo percorso, ha messo in chiaro alcuni principi cardine, tra cui la costruzione bassa ragionata a partire dal portiere, la centralità di Messi e Iniesta e le riaggressioni in zone alte del campo appena perso il possesso. Spetta a lui cesellare al meglio due diamanti grezzi come Semedo e Dembele. Il primo è sembrato subito pronto alla titolarità, con una struttura fisica che gli ha permesso di reggere l'urto di Douglas Costa e di mettere in difficoltà in fase offensiva un mostro di atletismo come Alex Sandro. Dembelé invece è un talento dai confini inesplorati e, al momento, non individuabili. Sarà importante migliorarne il tratto associativo, già presente in lui ma ancora in fase germinale, per combinarlo con una tecnica in velocità più unica che rara. Dovrà inoltre imparare a tagliare senza palla alle spalle della difesa per sfruttare gli spazi aperti da Messi; un compito che potrebbe attagliarsi alle caratteristiche di Suarez, in difficoltà per via della forma fisica non ottimale (prima partita giocata solo settimana scorsa contro l'Espanyol), ma che con i suoi movimenti potrebbe trarre grandi vantaggi dai movimenti a rientrare di Messi. Solo così il Barcellona potrà ritrovare la via della gloria in patria e in Europa, invertendo le gerarchie con quel Real Madrid che, a detta di Piqué, per la prima volta negli ultimi anni sembra essergli davanti.
di Emanuele Mongiardo
giovedì 14 settembre 2017
lunedì 26 giugno 2017
Scampato pericolo
L'Italia di Di Biagio supera la Germania e centra le semifinali
di Emanuele Mongiardo
di Emanuele Mongiardo
La partita con la
Germania rappresenta per l'Italia di Di Biagio l'ultima spiaggia per
evitare di abbandonare anzitempo la Polonia. Un destino beffardo per
il CT romano, messo spalle al muro da una sconfitta inaspettata
proprio come due anni fa: allora era stata la Svezia a infliggere un
sorprendente K.O. agli azzurrini, stavolta è toccato alla Repubblica
Ceca. Così come nel 2015 dunque il destino dell'Italia è nelle mani
di un'altra squadra: un'eventuale vittoria di Schick e compagni
contro la Danimarca costringerebbe la nazionale a superare la
Germania con almeno due gol di scarto.
L'Italia insomma è
sull'orlo del baratro, vittima di un format estremamente elitario che
sembra essere una reazione uguale e contraria (e dunque parimenti
sbagliata) alle formule iper inclusive adottate da UEFA e FIFA a
partire dagli scorsi Europei di Francia. Di Biagio in conferenza
stampa aveva manifestato comunque una certa fiducia nel contesto
tattico di Repubblica Ceca-Danimarca, in cui gli uomini di Lavicka
avrebbero avuto per la prima volta nel corso del torneo il controllo
di pallone e ritmi di gioco.
L'obiettivo degli
azzurri dunque è vincere contro i tedeschi, quantomeno per
raggiungere la soglia minima di sopravvivenza. Per farlo Di Biagio
punta tutto sulla batteria di trequartisti e ali a sua disposizione,
sacrificando Petagna che diventa ufficialmente il Thiago Motta della
nazionale under 21 in quanto bersaglio numero uno di critica e
tifosi. Per il resto giocano i titolarissimi nel consueto 4-3-3, con
Gagliardini forse un po' snaturato nel ruolo di vertice basso di
centrocampo.
La Germania invece,
forte di due sonore vittorie contro Repubblica Ceca e Danimarca, vive
una situazione di classifica piuttosto ambigua: rischia
l'eliminazione in caso di vittoria dei cechi e contemporanea
sconfitta con due gol di scarto, ma in caso di vittoria è certa di
incontrare la Spagna di Saul e Asensio. Con la vittoria della
Danimarca potrebbe però permettersi un passo falso con gli azzurri,
assicurandosi la semifinale contro la meno temibile Inghilterra.
Nel dubbio il CT
tedesco Kuntz si affida al suo undici di riferimento: Pollersbeck tra
i pali, difesa a quattro con Kempf e Stark centrali di difesa e
Gerhardt e Toljan terzini rispettivamente a sinistra e a destra.
Dahoud e capitan Arnold compongono il doble pivote in mediana davanti
a cui giostrano i trequartisti Gnabry, Meyer e Weiser. La punta è
Selke, tecnico e creativo nonostante la stazza imponente alla Mario
Gomez.
Si tratta la
classica partita in cui entrambe le squadre puntano gli occhi sul
campo e le orecchie sulla radiolina o sulle informazioni degli
inviati Rai a bordocampo.
German style
Nonostante la posta in palio entrambe le squadre continuano a seguire
il proprio spartito. La Germania cerca costantemente di creare
superiorità numerica attorno al pallone, risalendo il campo
coinvolgendo più uomini possibile nel palleggio. L'Italia invece è
meno legata a un gioco di tipo posizionale e prova a sviluppare
soprattutto sulle fasce con le combinazioni terzino-mezzala-ala.
Uno dei pochi punti di contatto tra le due squadre è la scelta di
pressare alto.
Di Biagio in fase di non possesso sistema i suoi in un 4-1-4-1 con
Bernardeschi prima punta. Inizialmente il trequartista della
Fiorentina copre il centro per intervenire su un eventuale passaggio
a Dahoud o Arnold. Sui mediani tedeschi si orientano le mezzali
azzurre. Chiesa e Berardi devono invece attaccare il terzino di
riferimento quando in possesso. Il passaggio da centrale a terzino
rappresenta nelle prime fasi di gioco il momento in cui l'Italia
scatena il pressing. L'ala del lato palla attacca il terzino mentre
Bernardeschi si fionda sul centrale più vicino per escluderlo dal
possesso. Contemporaneamente Pellegrini e Benassi attaccano il doble
pivote avversario.
le linee azzurre indicano le direttrici del pressing italiano
Può accadere però che il pressing non sia eseguito con tempi
perfetti e allora Bernardeschi resti tagliato fuori perché c'è
stato il passaggio da un difensore all'altro. E' una situazione
pericolosa perché sia Stark che Kempf, come quasi tutti i centrali
tedeschi di ultima generazione d'altronde, sono dotati di ottimi
piedi e visione di gioco e possono innescare Meyer o una delle due
ali rientranti verso il centro. Di Biagio rimedia autorizzando una
delle due mezzali a seconda del lato palla ad abbandonare il mediano
di riferimento per uscire in pressione sul difensore in possesso,
sempre cercando di oscurare la traccia verso i due centrocampisti
avversari.
Dahoud e Arnold provano a uscire dalla zona d'ombra disponendosi in
verticale o in diagonale l'uno rispetto all'altro. Il primo in
particolare riesce quasi sempre a creare col movimento una linea di
passaggio pulita per il difensore, eseguendo nei casi più estremi
anche la salida lavolpiana. Quando il centrocampista del
Moenchengladbach entra in possesso la prima opzione è la
sventagliata su una delle due ali, di solito Gnabry, con licenza di
puntare il terzino.
Si tratta di uno sviluppo estremamente diretto che confida
innanzitutto nel talento sopra la media dei suoi interpreti, ma è comunque di un piano B da adottare quando ogni linea di
passaggio verso il centro è otturata. Il vero intento della Germania
è infatti occupare gli half space ai lati di Gagliardini per poi
attaccare frontalmente la porta di Donnarumma. In questo senso è
fondamentale il contributo di Meyer, una minaccia costante col suo
movimento orizzontale ai fianchi del centrocampista dell'Inter.
Meyer e Selke tra l'altro tornano spesso utili in fase di possesso
quando l'Italia indirizza la prima costruzione della difesa sulla
fascia. A quel punto i due si allargano con movimenti incontro
interno-esterno verso il lato palla, raggiungendo zone basse di campo
in cui Caldara e Rugani preferiscono non addentrarsi. Rappresentano quindi un'opzione di passaggio libera: i difensori centrali
non vogliono seguirli, i terzini sono impegnati con le ali, gli
uomini in pressing hanno ciascuno un avversario di riferimento.
Barreca controlla Weiser, Pellegrini e Chiesa seguono Dahoud e Toljan. Bernardeschi esce in pressione su Stark. Selke viene incontro, riceve il lancio e appoggia per Dahoud che cambia gioco su Gnabry come se fosse la giocata più semplice del mondo
Per raggiungere la trequarti palla a terra e costringere l'Italia a
difendere all'indietro la Germania sfrutta anche i movimenti dei due
mediani. Si è detto di come Dahoud e Arnold si dispongano in maniera
asimmetrica per cercare una zona di luce in cui offrire un appoggio
ai compagni. Di solito il primo si propone ai difensori, mentre il
centrocampista del Wolfsburg si alza. Può capitare che questi decida
di andare oltre allineandosi con Meyer e determinando il passaggio
momentaneo dal 4-2-3-1 al 4-3-3. Le due mezzali allora occupano lo
spazio ai lati di Gagliardini dietro Pellegrini e Benassi, che devono
restare più avanzati per poter eventualmente uscire in pressione sui
difensori. Stark e Kempf però, come detto, hanno buone doti di
distribuzione e riescono spesso a innescare Meyer e Arnold. A quel
punto però la Germania non riesce a sfondare perché l'Italia è
brava a ricompattarsi e a difendere la propria area di rigore.
il triangolo di centrocampo tedesco con Meyer e Arnold alle spalle delle mezzali avversarie e ai lati di Gagliardini. Qui Dahoud raggiunge Meyer con un laser pass
Oltre i limiti
Sin
dal percorso di qualificazione, passando per l'esordio vincente con
la Danimarca, l'Italia di Di Biagio non ha mai entusiasmato per
fluidità nella costruzione e nella definizione. Non è casuale che
il gol non sia figlio di un possesso ragionato o di una rapida
combinazione tra gli attaccanti, bensì di una fase di pressione alta
molto ben applicata. Alla mezz'ora del primo tempo gli azzurri
ostacolano una rimessa dal fondo tedesca: Bernardeschi copre Dahoud
che si propone, Chiesa e Berardi controllano i terzini.
Le mezzali partono più arretrate, pronte poi come al solito a
scattare sui mediani. Stark riceve dal portiere, allora Chiesa
abbandona Toljan per pressare il centrale che a quel punto va da
Dahoud; il giocatore di origine Siriana è pressato da Bernardeschi e
alle sue spalle da Pellegrini che in tackle recupera palla e spalanca
la porta al proprio numero dieci. Col gol dell'uno a zero l'Italia
viene a capo di una situazione estremamente complicata, grazie anche
alla contemporanea vittoria danese.
Difatti
l'Italia, così come la Germania, con le proprie trame non riesce a
impensierire Pollersbeck. Da allievo di Zeman Di Biagio vuole
costruire principalmente sulle fasce, coinvolgendo terzino, mezzala e
ala. I tre giocatori sono in continua rotazione e si scambiano spesso
la posizione. Il miglior
interprete di queste giocate, forse anche perché abituato ad
eseguirne di simili con Di Francesco, è Berardi: l'ala di Cariati
legge bene i movimenti di mezzala e terzino ed è eccellente nella
protezione di palla spalle alla porta. La sua assenza potrebbe essere
più pesante del previsto contro i terzini della Rojita,
non proprio irreprensibili quando si tratta di orientarsi sull'uomo.
Esistono
dunque degli
schemi creati per le catene
laterali che però vengono
eseguiti in maniera acritica dai giocatori, senza capire quando è
conveniente provarli e quando occorre invece
tornare indietro e avanzare in un altro modo. Un'interpretazione
che li rende ripetitivi e per questo facili da leggere per gli
avversari.
Se
si riesce a mantenere il possesso in fascia un'opzione importante è
lo scarico su
Gagliardini che cambia gioco sul lato debole, sfruttando le scalate
del 4-4-2 tedesco in fase di non possesso. A questo punto l'ala che
riceve può decidere di
puntare il diretto marcatore o premiare la sovrapposizione del
terzino.
Anche quando con un passaggio dalla difesa (ottima prestazione di
Rugani e Caldara anche in fase di costruzione) si innescano
centralmente le mezzali, si cerca subito l'appoggio su Berardi e
Chiesa che possono, ancora una volta, rientrare o servire i terzini
sulla corsa.
Spesso l'Italia giunge al cross, portando in area stabilmente
Pellegrini, Benassi e l'ala del lato debole. In questo contesto
l'impatto di Bernardeschi sulla fase di possesso purtroppo è minimo.
Innanzitutto perché la
ricezione tra le linee è diversa da quella tipica della Fiorentina
di Sousa: con i viola Federico rientra dalla fascia e riceve spesso
in movimento, orientando con lo stop conduzione e posizione del
corpo; qui invece deve
abbassarsi e giocare spalle alla porta, situazione in cui può
migliorare sensibilmente ma che spesso lo porta a commettere errori
tecnici per via della
pressione e dell'impatto fisico del difensore.
In più giocando da attaccante centrale non viene coinvolto nelle
interazioni laterali che caratterizzano il gioco dell'Italia. Certo,
l'ex crotonese ha pressato per tutta la partita e ha siglato il gol
vittoria, ma il suo schieramento da prima punta in luogo di Petagna
non ha garantito alcun vantaggio tattico.
Verosimilmente contro la Spagna il nove atalantino tornerà titolare,
con Bernardeschi dirottato nella sua comfort zone. L'ingresso di
Petagna permetterà di appoggiarsi a lui anche con i lanci,
situazione alle volte utile per una squadra con difficoltà nella
risalita palleggiata del campo. Senza dimenticare che nel contesto
delle nazionali under 21 il centravanti orobico ha dimostrato di
saper sfruttare a proprio vantaggio il contatto con difensori acerbi
che si lasciano aggirare dal suo uso del fisico.
pensateci due volte prima di dire che Petagna è scarso
La Rojita è la nazionale con
più talento in questo Europeo. Tuttavia è una squadra che talvota preferisce lasciare il pallone tra i piedi di avversari anche inferiori come la Macedonia. Proprio il match con la
nazionale slava ha palesato le difficoltà della Spagna nel difendere
posizionalmente; i macedoni hanno raggiunto più volte la trequarti
col possesso palla e la difesa ha sofferto particolarmente i tagli
delle ali tra terzino e centrale. Se l'Italia non ama sviluppare il
possesso palla per attaccare gli spazi di mezzo, può comunque contare sui movimenti in profondità dei propri esterni.
Dal punto di vista difensivo sarà
importante non lasciare troppo solo Gagliardini a centrocampo; contro
la Germania le corse all'indietro hanno permesso di isterilire le
ricezioni di Meyer di fianco al nostro numero diciotto, ma contro
Asensio potrebbe non bastare. Per non rinunciare alla pressione delle
mezzali, si potrebbero invitare Caldara o Rugani a uscire in maniera
aggressiva, quando possibile, sull'avversario tra le linee.
Sarà bene concentrare la produzione sulla fascia destra, anche perché a sinistra un
giocatore che punta molto sull'atletismo in conduzione come Chiesa
potrebbe andare in difficoltà con un difensore altrettanto rapido
quale Bellerin. Da tenere d'occhio il duello tra
Bernardeschi e uno tra Jonny Castro e Gaya, spesso
lacunosi dal punto di vista difensivo.
Sulla nostra destra tra l'altro agisce di solito anche un
centrocampista poco propenso a difendere come Suarez senza
dimenticare che Asensio potrebbe essere sgravato di qualche compito
difensivo. Attaccare con costanza la loro catena sinistra potrebbe
essere un dettaglio decisivo, in una partita in cui piccoli
accorgimenti potrebbero fare la differenza.
di Emanuele Mongiardo
venerdì 16 giugno 2017
Assistere alla storia
Qualche considerazione sulla serie finale tra Warriors e Cavs.
di Michele Serra (@ElTrenza93)
Le Finali NBA 2017 tra Cavs e Warriors dovevano servire per consolare gli appassionati del Gioco rimasti delusi da questi playoff, senza molte partite davvero divertenti e, soprattutto, nessuna sorpresa: si può dire che siano riuscite nel loro intento. Il risultato finale di 4-1 da parte di Golden State, che vince il suo secondo titolo in tre stagioni, dopo la cocente delusione dello scorso anno, racconta solo in parte il film di queste Finals. Il livello del basket giocato è stato davvero alto, il migliore che la NBA attuale potesse offrire, e a giocarsi l’anello sono state le due squadre che ci si attendeva ad inizio stagione, quando non si aspettava altro che di capire chi sarebbe uscita vincitrice dal terzo capitolo di questa saga che, ancora una volta, non ha deluso le aspettative.
Un inizio traumatico
Le prime due gare
della serie sono state un bagno di sangue per i Cavs, che hanno sbattuto la
faccia contro Golden State come se non avessero nemmeno avuto modo di studiare
i loro avversari. Benché si potesse, a buon diritto, pensare il contrario, i
Cavs hanno deciso di giocare allo stesso gioco dei californiani, cercando di
correre e di attaccare a ritmo alto, colpendo con le transizioni offensive.
Quello che però contraddistingue i Warriors dalle altre squadre è il saper giocare a ritmo alto (quasi 103 di pace nei playoff, secondi solo ai Blazers), senza perdere troppi palloni (13.6 palle perse nei playoff: 11esimi, ma imparagonabili a squadre come Utah, Memphis e Milwaukee che giocano a ritmi molto più lenti). Da questo punto di vista, gara 1 è stato un massacro, con i Cavs che commesso ben 20 turnover a fronte dei 4 (record all-time in una gara di finale) di Golden State. I palloni persi da Cleveland hanno fruttato agli avversari ben 21 punti, arrivati anche a causa di una difesa Cavs tragica in transizione (la squadra di Lue è quarta nei playoff per punti subiti da questa situazione di gioco, e prima per punti totali concessi). Quello che si è visto è la totale mancanza di comunicazione tra i giocatori, una mancanza di urgenza, in un certo senso (colmata, sì, con l’avanzare della serie, ma mai sparita del tutto), e, soprattutto, il terrore a concedere un centimetro di spazio ai tiratori Warriors.
Quello che però contraddistingue i Warriors dalle altre squadre è il saper giocare a ritmo alto (quasi 103 di pace nei playoff, secondi solo ai Blazers), senza perdere troppi palloni (13.6 palle perse nei playoff: 11esimi, ma imparagonabili a squadre come Utah, Memphis e Milwaukee che giocano a ritmi molto più lenti). Da questo punto di vista, gara 1 è stato un massacro, con i Cavs che commesso ben 20 turnover a fronte dei 4 (record all-time in una gara di finale) di Golden State. I palloni persi da Cleveland hanno fruttato agli avversari ben 21 punti, arrivati anche a causa di una difesa Cavs tragica in transizione (la squadra di Lue è quarta nei playoff per punti subiti da questa situazione di gioco, e prima per punti totali concessi). Quello che si è visto è la totale mancanza di comunicazione tra i giocatori, una mancanza di urgenza, in un certo senso (colmata, sì, con l’avanzare della serie, ma mai sparita del tutto), e, soprattutto, il terrore a concedere un centimetro di spazio ai tiratori Warriors.
Questo è il caso più lampante, ma ce ne
sono anche altri, soprattutto nelle prime due gare. Durant cattura il rimbalzo
difensivo, Supera la metà campo e davanti si trova Irving che fa segno a LeBron
di rimanere su Curry, salvo poi finire anch’egli per spostarsi, forse per
raddoppiare Curry, forse perchè temeva ci fosse qualcun altro tiratore
appostato, o forse non sa nemmeno lui il perchè: fatto sta che viene concessa
un’autostrada per il canestro a KD. Cose come questa si sono viste sempre più
raramente, non fosse altro perchè Cleveland ha tagliato il numero di palle
perse, che invece è salito tra i giocatori di Golden State, che a volte ha il
difetto di piacersi troppo e di tentare giocate ad effetto quando non ce ne
sarebbe il bisogno. In gara 2, i Cavs hanno sfruttato alla grande le palle
perse di Golden State - 20 - fino a che sono rimasti in partita. Di queste 20,
però, solo 7 sono arrivate nel secondo tempo, quando i Warriors hanno preso il
largo.
In gara 1 abbiamo assistito ad un vero e
proprio show difensivo di Klay Thompson e Draymond Green che, pur avendo
combinato un tragico 6-28 dal campo, hanno giocato una magistrale partita
difensiva. Thompson ha concesso un solo canestro - su 12 tentativi - ai
giocatori che si è trovato a marcare. Nonostante il rendimento sotto la media
messo in mostra nei playoff, Thompson attira sempre le attenzioni delle difese
con i suoi movimenti senza palla: stiamo parlando pur sempre di uno dei
migliori tiratori NBA, che ha finito la serie con il 42.5% da 3. Qui un esempio
di quanto appena detto:
sul taglio del numero 11, LeBron e JR Smith
non comunicano, non sarà l’ultima volta, e si mettono sulle sue tracce,
lasciando però Durant indisturbato a ricevere e a tirare, per un gioco da
quattro punti.
Green, invece, ha messo in mostra le sue
qualità da safety NFL gravitando al centro dell’area e spostandosi, con
velocità e abilità nelle letture, nel punto in cui si muoveva il pallone.
Qui l’ex Michgan State è fermo in mezzo
all’area in attesa dell’entrata di LeBron. L’aiuto di Green sulla penetrazione
sconsiglia a James di attaccare il ferro, preferendo scaricare sul perimetro,
dove però c’è appostato Thompson, che recupera il pallone e fa ripartire il
contropiede, finito senza alcun disturbo della difesa. In gara 1, Green si è
permesso più volte di lasciare anche il proprio marcatore designato, molto
spesso Love, per pattugliare l’area. Se la difesa di Green è stata all’altezza
del giocatore, lo stesso non si può dire dell’apporto offensivo, che si è rivelato
spesso un punto a favore per gli avversari. Cleveland non ha mai rispettato il
tiro di Dray, che lo ha mandato a bersaglio nella serie con un misero 28%
(7-25), e solo il 30% nelle triple non contestate (esattamente 4 a partita). Il
numero 23 dei Dubs ha dato l’impressione di essere anche molto nervoso; ha
commesso 4.4 falli a partita rimanendo in campo per 35 minuti di media, e
limitando allo stesso tempo la presenza in campo della Super Death Lineup, cioè
il quintetto senza centri dei Warriors. Questo anche per i problemi al tiro di
un altro Warrior, cioè Iguodala, che, con alle spalle anche un problema fisico
patito contro gli Spurs in finale di Conference, ha mandato a bersaglio il tiro
da 3 con il 33% (su 3 tentativi a partita), pur mettendo in mostra la solita,
eccellente difesa su LeBron, che marcava per esonerare Durant da compiti
difensivi quando in campo assieme, ma anche su Kyrie.
MVP
Ad uccidere le velleità di vittoria
dei Cavs in gara 2 è stato Kevin Durant, schierato in un’inedita posizione di
centro (ruolo che in stagione aveva coperto solo per 8 minuti). L’MVP delle
Finali ha la stazza per poter giocare da 5; ma se in stagione regolare si
preferisce evitargli il logorio fisico che battagliare contro uomini di 130
chili comporta, in Finale, vuoi per la frequente mancanza di centri in campo,
Kerr ha deciso di dargli una chance, con risultati eccellenti. Durant ha finito
la serie con 35.2 punti, 8.2 rimbalzi, 5.4 assist con il 64% di effective
field goal (la statistica che tiene conto del maggior valore del tiro da
tre punti), finendo per essere anche il quarto giocatore di sempre a segnare
almeno 30 punti nelle prime cinque gare di una Finale (dopo Elgin Baylor, Rick
Barry, Jordan e Shaq). Cleveland gli ha alternato tre giocatori in marcatura.
LeBron se n’è preso carico in tutta gara 1, mentre nelle successive uscite si è
deciso di dargli un po’ di riposo delegando la marcatura anche a Shumpert e
Richard Jefferson. L’ex Knicks ha atletismo e fisico, ma rende all’avversario
quasi 15 cm, e in attacco è stato tragico, costantemente ignorato dalla difesa
(che infatti metteva Curry sulle sue tracce). Jefferson, invece, merita due
parole più avanti.
Quando si vede KD giocare, l’occhio si
sofferma chiaramente sulla bellezza del suo gioco offensivo, così naturale ed
efficace. Ma la verità è che l’ex OKC è anche un eccellente difensore in grado
di marcare praticamente tutti e 5 i ruoli, accompagnando gli esterni al ferro,
curandosi del miglior giocatore avversario o fungendo da rim protector con le
sue lunghissime braccia. Ecco un paio di esempi da gara 2.
Qui Cleveland cerca il mismatch con Curry
su un p&r, cosa che ha fatto durante tutto l’arco della serie (ed anche
nelle scorse Finals). McGee è costretto a passare su LeBron lasciando il
proprio marcatore, Frye, che taglia a canestro, dove però trova Durant, che lo
stoppa e guadagna il possesso del pallone.
In quest’altro caso, invece, stoppa Love in
un 1-contro-1 spalle a canestro, si catapulta in attacco, dove supera James in
palleggio e conclude con un circus shot nonostante la difesa di Love e
il ritorno di James. Per l’impatto avuto su entrambe le metà campo e
l’efficienza del suo gioco, Durant è, meritatamente, l’MVP delle Finals 2017.
Senza voler nulla togliere a Curry, però,
che ha giocato una serie strepitosa, dopo quella, sottotono, dello scorso anno. Steph, finalmente sano dopo i guai al
ginocchio dello scorso anno, ha giocato playoff e Finali strepitose, terminando queste ultime con medie di quasi 27 punti, 8 rimbalzi e 9.4 assist, steccando
solo una gara, la quarta, guarda caso persa da Golden State. I Cavs sono
“storicamente” una squadra contro cui il due volte MVP faticava parecchio, per
via dell’incredibile dispendio fisico su entrambi i lati del campo. In attacco,
i difensori avversari hanno cercato in tutti i modi di rendergli difficile ogni
singola ricezione mettendogli le mani addosso e raddoppiandolo sui p&r alti
(mossa, questa, che si è vista meno rispetto allo scorso anno, e comunque
soprattutto nell’ultimo capitolo della serie, quando Golden State ha deciso di
affidarsi soprattutto alle capacità di Steph di giocarlo). Anche in difesa è
stato inserito in qualsiasi pick and roll, sia che a portare palla fosse Kyrie
o LeBron, per cercare di creare mismatch favorevoli. Solo la presenza di
Durant, di questo Durant, gli ha tolto un premio di MVP che avrebbe certamente
meritato. Chi aveva sminuito lui e il suo gioco dopo gli scorsi playoff, dovrebbe
avere avuto svariati argomenti per rivedere la propria tesi (che comunque era
errata di partenza, chiariamo).
Troppo tardi
Dopo la vittoria in
gara 4, sul web si è tornato a scherzare sul famigerato “Warriors blew a 3-1
lead”, ignorando il fatto che questa volta il vantaggio era arrivato fino
al 3-0, che mai nessuna squadra è stata capace di rimontare un deficit simile
in Finale NBA e che sì, questi Warriors sono decisamente più forti di quelli
dello scorso anno, con KD e Steph sano.
Va dato merito alla squadra di Lue di
essersela giocata a viso aperto, di aver tenuto la serie competitiva più di
quanto dica il risultato e di aver fatto aggiustamenti per raddrizzarla dopo le
prime due, disastrose uscite. Come era ampiamente prevedibile, la difesa
di Cleveland ha faticato terribilmente, soprattutto lontano dalla palla e nella
comunicazione dei blocchi e dei cambi da effettuare. Cose come quelle di gara
1, che abbiamo visto sopra, non sono più capitate (o comunque in maniera molto
più sporadica), ma le amnesie difensive non sono mai mancate. I Warriors hanno
ripagato Cleveland della stessa moneta, individuando Kevin Love come anello
debole della loro difesa, attaccandolo ripetutamente. L’ex Minnesota ha avuto
un atteggiamento troppo passivo, in alcuni casi, rimanendo troppo basso (come a
difendere l’area da una penetrazione) e lasciando spazio al tiratore. In altri
casi, si decideva per non intrappolare Curry sul p&r, lasciando il numero
30 faccia a faccia con Love, che veniva sistematicamente portato al ferro per
un canestro facile.
Qui un esempio di mancanza di
comunicazione, con Love e Shumpert protagonisti. I due Cavs raddoppiano Durant
su un pick and roll dimenticandosi completamente Green: nessuno dei loro
compagni ruota in mezzo all’area e il 23 schiaccia comodamente. Come detto,
questi episodi si sono verificati varie volte, nella serie, a maggior ragione
quando non c’era James sul terreno di gioco. LeBron ha avuto, com’era
prevedibile, un minutaggio altissimo, e ogni qual volta si prendeva un minuto
di pausa, Cleveland era totalmente incapace di tener testa ai Dubs. Con il
Prescelto in panchina, Cleveland ha avuto un net rating di -13.8,
nettamente il peggiore di squadra. Richard Jefferson, che lo generalmente
prendeva il sui posto, è totalmente incapace di prendersi un tiro da solo, e in
generale ha faticato terribilmente a trovare il canestro: tutti i suo tiri sono
stati open o wide open secondo i criteri di NBA.com, e di questi
ultimi non ne ha mandato a bersaglio neppure uno (su 0.8 tentativi a partita).
Al contrario, l’ex università di Arizona si è ritagliato un ruolo come
passatore sui pick and roll, in cui è stato particolarmente coinvolto
sopratutto in gara 4, quando marcato da JaVale McGee (altro giocatore spesso
inserito su pick and roll per la sua incapacità a tenere le penetrazioni
uno-contro-uno).
Quando gli è stato chiesto quando avesse
sviluppato questa caratteristica del suo gioco, Jefferson è stato molto onesto,
rispondendo “in realtà ho iniziato a farlo solo da un paio di giorni”.
Avere LeBron in forma è l’unico modo che
hanno i Cavs di giocarsela davvero, e non è un caso che, nei secondi tempi
delle prime tre gare, il 23 abbia tirato meno o peggio rispetto al primo tempo,
magari tentando maggiormente il tiro da fuori anziché andare a canestro per
punti più facili, sperando di riempire di falli i giocatori di Golden State. In
gara 3 LeBron e Kyrie si sono accesi per 78 punti combinati, mentre Love ha
chiuso con soli 9 punti e un -11 di plus/minus. Peccato che il minutaggio dei
due (45 e 44 minuti, rispettivamente) li abbia fatti arrivare in apnea a fine
partita. Negli ultimi tre minuti, complice una buona difesa dei Warriors, i
Cavs hanno subito un parziale di 11-0, tra distrazioni e semplice bravura degli
avversari, condensata nel canestro del sorpasso da parte di Durant in faccia a
James. Per Cleveland ci sono stati 16 punti di JR Smith, che ha cominciato le
Finali con due partite di ritardo. Nelle ultime tre gare ha tirato 17/27 da 3
(63%) contro il 25% delle prime due (1/4). Love, come detto, ha chiuso con soli
nove punti ma anche 13 rimbalzi e 6 palle rubate. La serie di Love è stata in
chiaroscuro. Offensivamente, non è mai riuscito a mettere insieme due partite
buone consecutive (in gara 5 ha giocato poco per problemi di falli, in una
partita in cui gli arbitri non facevano passare il minimo contatto). In difesa,
i suoi difetti nella marcatura del pick and roll sono stati spesso esposti, ma
ha avuto modo di rendersi utile in altri modi. Coi rimbalzi, ad esempio, uno
dei suoi punti di forza. La sua rebounding% è la più alta tra i Cavs
(18.9), e dei suoi 10.4 rimbalzi di media, il 32% è contestato. Ha anche fatto
registrare 2.8 deviazioni e 2.4 palle vaganti catturate a partita, mostrando
voglia di lottare su ogni pallone.
Chi invece ha deluso parecchio è stato senza dubbio Tristan Thompson, vero e proprio fattore X nella vittoria dell’anello lo scorso anno, fantasma in questa serie, perlomeno nelle prime tre gare. Bisogna dire che Pachulia, nei minuti in cui è rimasto in campo, ha svolto un ottimo lavoro contro di lui nel tagliafuori, ma non si può spiegare solo con questo il rendimento insufficiente del lungo canadese. Thompson (che ha fatto registrare nemmeno 6 rimbalzi di media a partita) è entrato nella serie nelle ultime due gare, dando ai Cavs possessi extra con la sua presenza a rimbalzo offensivo e anche una inaspettata mano come scorer (15 punti in gara 5): pochissime volte abbiamo visto TT attaccare il tabellone con questa aggressività, regalando nuove opportunità offensive ai suoi.
Ultimo, ma non meno importante, Kyrie
Irving. L’ex Duke ha subito per tutta la serie l’eccellente difesa di Klay
Thompson, a cui a preso le misure dopo averlo sofferto particolarmente nelle
prime due gare, segnando 38, 40 e 26 punti nelle ultime tre partite della serie
in tutti i modi possibili: in acrobazia al ferro, dal mid-range e anche da 3
(ma solo 2-13 in gara 2 e 3, per una percentuale complessiva nella serie del
42%).
Difficile rimproverare qualcosa ai Cavs.
Certo, gli errori difensivi ci sono stati, e anche parecchi, come si era già
notato nelle altre serie playoff della Eastern Conference. Se LeBron è il
giocatore più forte del mondo, Durant ha giocato esattamente al suo livello, e
la potenza di fuoco dell’attacco di Golden State non ha lasciato a Cleveland la
possibilità di giocarsela (con armi che,
peraltro, né i Cavs né nessun altra squadra attualmente in NBA possono dire di
avere). Difficile prevedere se i Warriors domineranno la Lega senza possibilità
di appello nei prossimi 4-5 anni - in fondo pensiamo a quanto i campioni 2016
siano andati vicini a pareggiare la serie, non fosse stato per gli ultimi tre
minuti di gara 3.
Di sicuro, le altre 29 squadre dovranno
escogitare qualcosa di nuovo e finora imprevedibile, o affidarsi unicamente
alla fortuna.
Articolo a cura di Michele Serra
giovedì 4 maggio 2017
Cambio di marcia
Qualche osservazione sulla vittoria degli Spurs in gara 2.
di Michele Serra (@ElTrenza93)
Gara 2 tra San Antonio e Houston era un
misto di curiosità e attesa per capire se, e come, gli Spurs si sarebbero
rialzati dopo la batosta di gara 1, in cui hanno dato l’impressione di non
potersela giocare con i loro avversari. Houston è squadra che corre e che
produce tanto da situazioni di pick and roll (0.93 punti per possesso in questa
situazione per il portatore di palla in regular season, addirittura 1 nei
playoff), e ciò sulla carta non si sposa bene contro questi Spurs: la squadra
di Pop non ha un rim protector - per la verità nemmeno lunghi in grado di
rimanere incollati alla guardia su un cambio, ad eccezione di Aldridge, forse,
che però non vive un gran momento di forma - e, tolto Leonard, nessun giocatore
in grado di rispondere colpo su colpo all’attacco dei Rockets. Gara 1 è stata
un massacro, con gli Spurs precipitati a meno 30 senza riuscire a giocare il
loro basket fatto di movimento di palla alla ricerca del tiro migliore (solo 19
assist contro i 30 di Houston). All'intervallo, Kawhi aveva segnato 21 punti su
19 possessi, mentre i suoi compagni erano rimasti a guardare: i titolari solo
27 punti su 42 possessi giocati.
Gara 2 è stata decisamente diversa, fin dall’inizio. Tanti Spurs sono riusciti a trovare il canestro, da Danny Green (4-4 nel primo quarto, con anche 3 assist) a Tony Parker e anche Aldridge. L’ex Blazers ha giocato una gara complessivamente sufficiente, con 15 punti (6-14 al tiro) e 8 rimbalzi. Il tiro dalla media fatica ad entrare, ma almeno è migliorato nelle letture e nella velocità di esecuzione rispetto al primo episodio della serie, evitando di attirare i raddoppi spalle a canestro, concludendo prima o servendo i compagni sul perimetro.
Un grosso problema per gli Spurs, in gara
1, sono state le palle perse, 15, che hanno scatenato i Rockets in transizione.
La squadra di D’Antoni non è necessariamente elite, in questa situazione di
gioco, anzi: in stagione regolare era seconda per la frequenza con cui questa
arma veniva utilizzata (18% a partita), ma solo nel 45esimo percentile, nella
metà bassa. I tiratori però non mancano, ai Rockets, e disporsi male in
transizione può voler dire lasciare spazio dall’arco ad una delle tante armi a
loro disposizione. Ieri notte sono riusciti ad evitarlo, soprattutto nel primo
tempo: all’intervallo, gli Spurs avevano perso solo un pallone, che però era
risultato in una tripla comoda per Anderson (che nelle ultime 3 gare sta
tirando da tre con il 44%).
Popovich ha fatto anche qualche
aggiustamento, ad esempio spostando Danny Green su Ryan Anderson e Leonard su
Harden; l’ex San Diego State è rimasto il più possibile su di lui anche
attraverso i blocchi, evitando mismatch favorevoli a Houston, che in gara 1
avevano creato non pochi problemi alla squadra di casa, soprattutto quando
veniva coinvolto nel pick and roll l’uomo marcato da David Lee.
Qui Leonard passa sopra due blocchi,
evitando di cambiare e lasciare Aldridge o, ancora peggio, Lee contro Harden,
arrivando a contestare il tiro al Barba. Harden che ha tirato solo 3-17 e solo
a tratti è riuscito a mettere in ritmo i compagni: ha finito la partita con 10
assist (5 solo nel terzo quarto quando Houston è arrivata anche a -3). Nel
secondo tempo, l’impatto della panchina è calato drasticamente, con Eric Gordon
che ha messo a segno solo 3 punti nel secondo periodo (sui 15 totali), mentre
Lou Williams ha litigato col canestro tutta la sera (2-7 e 2 palle perse) e
Nenè non ha dato l’impatto avuto nelle precedenti gare di playoff.
Particolarmente rilevante ai fini del risultato è stata la scelta di Popovich di far entrare dalla panchina David Lee, il bersaglio preferito dei suoi strali in gara 1, per la sua difesa passiva sui pick and roll e in situazioni di aiuto sulle penetrazioni. Al suo posto in quintetto Pau Gasol, che in attacco ha tirato molto male (3-11) soffrendo la fisicità di Capela sotto canestro, ma che ha dato una enorme mano nella propria metà campo, con 13 rimbalzi catturati e ben 4 stoppate, sfruttando la sua lunghezza di braccia e la sua difesa posizionale che è ancora sufficiente. Qui lo vediamo stoppare un tentativo a canestro di Harden e far ripartire il contropiede, ultimato da Parker con un canestro da tre.
Per quanto riguarda invece Leonard, Kawhi è stato
ancora una volta mostruoso, il migliore dei suoi, finendo con 34 punti, 8
assist, 3 palle rubate con 13-16 dal campo (e un irreale 91% di effective fg).
Il numero 2 degli Spurs sta diventando pian piano un eccellente giocatore in
isolamento e chiaramente nei playoff gli Spurs lo stanno cavalcando ancora di
più per sopperire alla mancanza di ulteriori creatori di gioco dal nulla (la
sua percentuale di isolamenti è passata dal 12.6 della regular season a oltre
il 21%, con un leggero calo dei punti per possesso: da 0.94 a 0.88). Ciò in cui
si sta specializzando è mettere in ritmo i compagni, e in gara 2 abbiamo visto
i miglioramenti che ha compiuto fin qui sotto questo punto di vista.
Di sicuro, anche gli altri giocatori gli hanno dato
una mano, come detto, in particolare Tony Parker, che, nonostante l’età, ha
ancora al proprio arco partite in cui alza il rendimento offensivo, rivelandosi
la seconda opzione per gli Spurs, adesso che Aldridge sta attraversando il
momento peggiore della sua avventura in Texas. Purtroppo le notizie arrivate
non sono buone: l’infortunio, che è al quadricipite e non al ginocchio, come
inizialmente pareva, lo costringerà a guardare dalla panchina il resto dei
playoff. Dopo l’uscita del franco-belga, gli Spurs hanno messo a segno un
parziale di 14-5 chiudendo definitivamente i conti, ma è innegabile che la sua
assenza peserà tantissimo, specie se il suo rendimento fosse stato (vicino a)
quello fatto vedere ieri notte. Miglior realizzatore dalla panchina è stato
Jonathan Simmons, che finalmente ha avuto un minutaggio consistente (20
minuti), dando freschezza su entrambi i lati del campo. Il suo atletismo e la
giovane età possono essere un fattore in difesa, per marcare una delle guardie
della second unit dei Rockets, così come la capacità di muoversi lontano dalla
palla e di finire al ferro. Gli ampi differenziali delle prime due gare
raccontano solo una parte della storia: abbiamo a tutti gli effetti una serie,
e sarà molto divertente.
Articolo a cura di Michele Serra
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