giovedì 14 settembre 2017

All'alba di un nuovo percorso

Il Barcellona di Valverde sconfigge la Juve e si candida per il primo posto del girone D
di Emanuele Mongiardo




A distanza di cinque mesi dallo zero a zero che aveva schiuso alla Juventus le porte della semifinale di Champions League, gli uomini di Allegri tornano al Camp Nou, stavolta per la prima giornata della fase a gironi di Coppa. Barcellona e Juventus hanno in comune un'estate piuttosto movimentata, destinata probabilmente a segnare un nuovo percorso per entrambe le squadre.

Da una parte la cessione di Bonucci costringe a rivedere parte dei meccanismi di quello che è stato, unitamente a quello dell'Atletico di Simeone, il miglior reparto difensivo degli ultimi anni in Europa, senza considerare l'età di Chiellini e Barzagli che costringerà Allegri a coinvolgere sempre più uomini nella rotazioni difensive.

Il Barcellona invece deve ancora assimilare l'addio a Neymar, desideroso di svincolarsi dal cono d'ombra di Messi e per questo migrato ai piedi della Tou Eiffel. Il mercato ha portato in dote Dembele, talento potenzialmente sconfinato ma ancora da sgrezzare. Soprattutto però è cambiata la guida tecnica: dopo il triennio di Luis Enrique, in cui i risultati gravavano sulle spalle della MSN, è stato scelto come nuovo allenatore Ernesto Valverde: l'ex Athletic ha il compito di ricostruire meccanismi di gioco che possano innanzitutto esaltare il talento di Messi e quindi portare alla vittoria in Liga e in Champions.

Barcellona e Juventus arrivano allo scontro di martedì entrambe con un percorso netto di tre vittorie in campionato. Ragionevolmente nel gruppo D sono loro le squadre favorite per la qualificazione, ecco perché il match del Camp Nou può essere rivelatore per quanto riguarda le gerarchie del girone.

Allegri, orfano di Mandzukic. Chiellini, Cuadrado e Khedira, punta su quasi tutti i nuovi arrivati, proponendo un 4-4-2 pronto a trasformarsi in un 4-3-3 asimmetrico in fase offensiva. Davanti a Buffon agiscono Barzagli e Benatia, i centrali con maggior esperienza a disposizione, mentre il terzino destro scelto per l'occasione è De Sciglio; a sinistra, ovviamente, Alex Sandro. In mezzo al campo Pjanic e Matuidi sono i due mediani; alla loro destra prende posto il giovane uruguayano Bentancur, col compito di accentrarsi in fase di non possesso e creare un centrocampo a tre; l'esterno opposto è invece Douglas Costa, chiamato ad ambientarsi il prima possibile nell'undici titolare. Le punte sono Higuain e Dybala.

Valverde invece conferma le scelte delle prime giornate di Liga; unica novità è Dembele al posto di Deulofeu. Perciò i quattro davanti a Ter Stegen sono Semedo, Pique, Umtiti e Alba. Busquets è il mediano davanti a cui si muovono Rakitic e Iniesta. Davanti, oltre all'ex ala del Dortmund, ci sono Leo Messi da falso 9 e Suarez nell'inedita posizione di ala sinistra.

La strategia di Max
Già dal fischio iniziale è chiaro quale sarà lo spartito della gara: Barcellona in controllo del pallone e Juve attenta a negare ogni spazio tra le linee per recuperare palla e attaccare in transizione.

La Juve invece parte con un 4-4-2 che preferisce coprire il centro del campo mantenendo soprattutto una distanza minima tra difesa e centrocampo, comprimendo quindi quegli spazi vitali per giocatori come Messi e Iniesta. In questo modo si riescono anche a recuperare palloni utili per ripartire in transizione. Ovviemente il 4-4-2 prevede scivolamenti da un lato all'altro del campo che portano Costa o Bentancur a uscire in pressione sul terzino del lato palla, con l'esterno del lato opposto che stringe in modo da poter controllare i movimenti della mezzala sul lato debole. Nella linea di centrocampo Allegri concede a Matuidi licenza di staccarsi per aggredire il centrocampista più vicino, a patto però di essere coperto alle spalle da Pjanic.


Il 4-4-2 juventino con l'esterno del lato palla (Bentancur) che esce sul terzino (Jordi Alba)






Le uniche occasioni in cui la Juve prova a pressare più in alto sono le rimesse dal fondo, durante le quali Dybala e Higuain schermano il lato destro del Barcellona in modo da lasciare libera solo la linea di passaggio su Umtiti sul centro sinistra, costringendo quindi i padroni di casa ad affidare il possesso al centrale di difesa meno dotato tecnicamente (e comunque Umtiti ha degli ottimi piedi) e soprattutto invitando i blaugrana a sviluppare l'azione sul loro lato meno creativo.






Per quanto riguarda invece la fase offensiva, Allegri sa di non potersi affidare solamente alle transizioni. Durante la scorsa stagione, nel doppio confronto, aveva approfittato a pieno della tecnica di due difensori come Bonucci e Dani Alves per risalire il campo palleggiando, aiutato anche dal pressing approssimativo del Barcellona di Luis Enrique. Stavolta l'intenzione è attirare il pressing del Barcellona sulla propria destra, il lato per intenderci dove ama spaziare Dybala, per poi cambiare velocemente gioco sulla fascia di Alex Sandro e Douglas Costa, sorprendendo così gli avversari sul loro lato debole. E' un piano che necessita innanzitutto di moovimenti coordinati tra Dybala e Higuain, col primo che spesso muovendosi verso la fascia apre corridoi interessanti per il passaggio del terzino sul Pipita. Questi può decidere di proteggere palla e cambiare gioco in prima persona o, come avvenuto molto raramente, appoggiarsi su Bentancur, rimandando al giovane ex Boca la responsabilità del cambio gioco. In alternativa, il giocatore più cercato quando la Juve porta molti uomini in fascia è Pjanic, sicuramente il più adatto a innescare i due esterni brasiliani sul lato debole.









due occasioni in cui il movimento verso l'esterno di Dybala libera il passaggio su Higuain. Nel primo caso il Pipita appoggia a Bentancur che però sbaglia la misura del lancio, nel secondo si mette in proprio e col sinistro attiva la conduzione di Alex Sandro










La mano di Valverde









E' un piano che non riesce del tutto perché Valverde sembra aver capito che uno dei più grandi problemi dell'ultimo Barcellona di Luis Enrique era proprio la riconquista della palla. Per contrastare il palleggio bianconero l'ex allenatore dell'Athletic, quando la sua squadra è in pressione alta, vuole pareggiare il numero di uomini adottati dalla Juve in impostazione. Perciò, anche sulle rimesse dal fondo, spesso si ritrovano alcuni accoppiamenti fissi: Suarez e Messi gravitano nella zona dei centrali di difesa, Iniesta si alza su Pjanic e Rakitic va su Umtiti. Sfruttando l'asimmetria di entrambi gli schieramenti Jordi Alba si alza su De Sciglio.









L'unico dubbio riguarda la marcatura di Bentancur, che probabilmente Valverde non immaginava mezzala destra ma trequartista nel classico 4-2-3-1 bianconero. Il Barcellona allora si adatta alla posizione dell'uruguayano alzando anche Busquets in pressing, pareggiando numericamente il centrocampo a tre della Juve e affidando la marcatura di Dybala al talento difensivo di Umtiti, autorizzato anche ad uscite in zone rischiose sulla Joya. E' un tipo di pressione alta che necessita ancora di miglioramenti nella tempistica, ma che porta spesso i bianconeri a commettere errori tecnici che riconsegnano il possesso al Barcellona. Quando invece la pressione viene elusa e bisogna difendere più bassi Valverde adotta un classico 4-4-2, in cui Dembelè e Iniesta sono gli esterni col compito di attivare gli scivolamenti sul lato palla, con conseguenti scalate dei compagni.











Pressione alta del Barcellona, con il tre contro tre a centrocampo. Qui Rakitic scala e si occupa di Dybala che si muove alle sue spalle, lasciando la marcatura di Matuidi a Dembele che stringe. Da notare Jordi Alba che si alza su De Sciglio









L'influenza di Valverde però, è percettibile soprattutto per quanto riguarda la fase di costruzione. Il primo aspetto che salta all'occhio è l'asimmetria tra il lato sinistro e il lato destro del campo. Detto della posizione da finto centravanti di Messi, che secondo le proprie inclinazioni naturali gravita sul centro destra, è da notare come sulla destra l'ampiezza sia garantita da Dembele, con Semedo che quindi resta alle spalle del talento francese. Sul lato opposto invece tocca a Jordi Alba restare largo per smagliare la linea difensiva avversaria; quando il terzino ex Valencia sale allora Suarez può accentrarsi e agire in una zona a lui più consona.











L'asimmetria del 4-3-3 del Barcellona evidenziata dalla posizione dei suoi tre attaccanti, con Suarez che viene dentro e Alba che si alza






Nonostante il Barcellona nel primo tempo non riesca quasi mai a giungere dalle parti di Buffon per via delle distanze serrate tra centrocampo e difesa, vi sono alcuni aspetti incoraggianti del nuovo corso catalano. Innanzitutto Messi e Iniesta ritornano ad essere le pietre angolari della squadra: dai loro movimenti e dalle loro interazioni, reciproche e coi compagni, nascono le migliori trame culé.






Don Andres talvolta si muove verso la fascia sinistra, quella di Umtiti a cui la Juve spesso e volentieri concede il possesso. In questo caso è evidente come Valverde stia cercando di coordinare soprattutto i movimenti del Manchego, di Suarez e di Jordi Alba, in modo da non fossilizzare la costruzione solo sul lato destro. Qui una combinazione spesso provata, ma praticamente mai andata a buon fine anche per l'attenzione di De Sciglio e Sturaro, è lo scatto dell'ex valenciano non appena Suarez entra dentro il campo e libera la fascia, con conseguente filtrante alle spalle della difesa di Iniesta; ma come detto, la Juve è stata brava a disinnescare questo tipo di giocata, che comunque potrà essere riprovata e affinata nel corso della stagione.






Nella maggior parte dei casi però ama muoversi verso il centro, avvicinandosi a Messi e alla zona con più uomini blaugrana per condurre palla e creare triangoli che permettono alla squadra di occupare in blocco la trequarti avversaria.





Lezione di geometria spiegata dal professor Iniesta: prima triangola con Messi per raggiungere il centro destra. Quando poi Dembele gli restituisce palla forma un triangolo con Rakitic e Semedo, poi ne forma un altro con Messi e Suarez, con il suo movimento che apre il passaggio dalla pulce all'uruguayano. Infine ne forma un ultimo con Busquets e Suarez al termine del quale prova l'imbucata verso Rakitic che con fiducia cieca nel suo capitano si era inserito in area






La presenza massiccia di così tanti uomini sulla propria destra ha dei risvolti anche sulla fase difensiva: Valverde vuole invitare i suoi a una riconquista di palla immediata, con l'aggressione sugli avversari appena perso il possesso. Situazione non così frequente nel corso della sfida alla Juve, essendo un meccanismo ancora da collaudare, ma che comunque sarà importante riproporre per recuperare palla in zone pericolose e moltiplicare quindi le occasioni da gol.









Qui la pressione costringe De Sciglio a buttare via il pallone






Messi invece molto spesso rientra fino al centrocampo per aiutare la costruzione, favorendo così il ritorno di Suarez verso il centro. Soprattutto Messi in zona centrale leggermente arretrato può essere esiziale se si aprono varchi tra difesa e centrocampo; come in occasione del gol dell'uno a zero, quando il Barcellona con pazienza riesce a sviluppare un'azione palla a terra a partire da Ter Stegen. Il portiere tedesco, approfittando di una copertura della linea di passaggio non ottimale da parte di Higuain, serve Pique che, pressato, innesca Dembele, che con un controllo orientato elude l'aggressione di Alex Sandro. A quel punto, con la Juve riversata in avanti per via della precedente pressione, il talento francese può servire Messi alle spalle del centrocampo bianconero. In questo caso Pjanic e Bentancur riescono a rientrare su diez, ma Leo dà un saggio della sua incisività da falso nueve: nonostante il rientro dei centrocampisti, gli basta usare Suarez come parete per oltrepassare la mediana avversaria e bucare Buffon con controllo e tiro eseguiti praticamente in un millisecondo.










L'importanza di Ter Stegen






Ma il primo gol offre ulteriori spunti di riflessione, sul lavoro di Valverde e sulle qualità dei singoli. E' evidente come il nuovo allenatore punti molto sulla costruzione dal basso che sembra essere l'aspetto del gioco meglio sviluppato fino ad ora dai blaugrana. Il Barcellona non esita a portare un gran numero di uomini a ridosso della propria area per favorire un'uscita pulita della palla; spesso gli unici a non essere coinvolti nella prima costruzione sono i soli Dembelè e Suarez, su cui comunque in casi di emergenza si può cercare la palla lunga per saltare il pressing. I catalani in prima costruzione allargano i centrali di difesa, con Busquets che quindi può decidere se restare a centrocampo o abbassarsi tra di loro in salida lavolpiana. Rakitic e iniesta si avvicinano alla difesa e spesso anche Messi, seppur più avanzato, viene incontro appena dietro ai centrocampisti. Soprattutto però, i terzini si alzano e si mettono con i piedi sulla linea del fallo laterale: è il dettaglio più importante perché permette da sfruttare i lanci millimetrici Ter Stegen, probabilmente il miglior portiere al mondo nell'impostazione insieme a Neuer e Reina.






La Juventus cerca di ostacolare l'impostazione con le due punte orientate sui centrali di difesa, Matuidi che si alza su Busquets e gli esterni che stringono nella zona delle mezzali, pronti a uscire in pressione sul terzino in possesso attivando le scalate da un lato all'altro se la palla dovesse arrivare sulle fasce. In tutto ciò, con i centrocampisti e i difensori bloccati, Ter Stegen è quasi sempre perfetto a lanciare sui terzini, soprattutto Jordi Alba, che a quel punto può appoggiare su Suarez e permettere al Barcellona di palleggiare con calma o, nel migliore dei casi, avanzare in conduzione.









ecco i vantaggi che garantisce un portiere forte coi piedi










Fine delle ostilità






Nel secondo tempo poi c'è l'episodio che chiude del tutto la partita, con Benatia che esce in anticipo su un'imbucata di Rakitic per Dembele; il marocchino però sbaglia il controllo e regala palla a Suarez che può allargare per Messi; Leo coglie la difesa avversaria impreparata, punta il fondo e determina la deviazione di Sturaro che propizia il 2 a 0 di Rakitic. Dopo la rete del Croato la Juventus difatti esce lentamente dalla partita, forse anche per la consapevolezza di affrontare un girone che difficilmente non riuscirà a superare. Ne è la prova il gol del 3 a 0, timbrato da Messi e nato da un contropiede condotto da Iniesta.






La Juventus, seppur priva di diversi titolari, ha giocato un primo tempo di grande equilibrio, in cui è anche riuscita ad impensierire Ter Stegen. Cercare analogie tra il crollo di Cardiff e questa sconfitta mi sembra fuorviante, innanzitutto per le diverse motivazioni in campo e poi per svariate situazioni contingenti, tra cui il periodo della stagione, il valore complessivo del girone e le già citate assenze. La prima parte di stagione è sempre un periodo di assestamento per Allegri che deve innanzitutto trovare il modo di mettere a proprio agio un talento come Douglas Costa che potrebbe mettere a ferro e fuoco la Serie A e garantire quell'upgrade offensivo che Cuadrado non offre. De Sciglio nella mezz'ora abbondante in cui ha giocato si è dimostrato affidabile difensivamente e ha giocato anche dei buoni palloni verso Higuain, segno che con un'organizzazione solida e un parco giocatori diverso alle proprie spalle può essere uno dei migliori terzini italiani; forse il primo tempo del Camp Nou è troppo poco, ma l'inizio lascia ben sperare. Il più pronto dei nuovi acquisti è sembrato Matuidi, che ha scelto oculatamente quando restare nella linea dei quattro centrocampisti e quando invece uscire in pressione sull'uomo più vicino. In ogni caso il rientro di Khedira, Mandzukic e Chiellini aiuterà Allegri a decidere in che grado essere conservatore, per creare il giusto mix tra la solidità granitica dello scorso anno e le caratteristiche dei nuovi arrivati e per scendere a patti col talento di Douglas Costa e, perché no, Bernardeschi.









Valverde, pur all'inizio del suo percorso, ha messo in chiaro alcuni principi cardine, tra cui la costruzione bassa ragionata a partire dal portiere, la centralità di Messi e Iniesta e le riaggressioni in zone alte del campo appena perso il possesso. Spetta a lui cesellare al meglio due diamanti grezzi come Semedo e Dembele. Il primo è sembrato subito pronto alla titolarità, con una struttura fisica che gli ha permesso di reggere l'urto di Douglas Costa e di mettere in difficoltà in fase offensiva un mostro di atletismo come Alex Sandro. Dembelé invece è un talento dai confini inesplorati e, al momento, non individuabili. Sarà importante migliorarne il tratto associativo, già presente in lui ma ancora in fase germinale, per combinarlo con una tecnica in velocità più unica che rara. Dovrà inoltre imparare a tagliare senza palla alle spalle della difesa per sfruttare gli spazi aperti da Messi; un compito che potrebbe attagliarsi alle caratteristiche di Suarez, in difficoltà per via della forma fisica non ottimale (prima partita giocata solo settimana scorsa contro l'Espanyol), ma che con i suoi movimenti potrebbe trarre grandi vantaggi dai movimenti a rientrare di Messi. Solo così il Barcellona potrà ritrovare la via della gloria in patria e in Europa, invertendo le gerarchie con quel Real Madrid che, a detta di Piqué, per la prima volta negli ultimi anni sembra essergli davanti.














di Emanuele Mongiardo

lunedì 26 giugno 2017

Scampato pericolo

L'Italia di Di Biagio supera la Germania e centra le semifinali

di Emanuele Mongiardo




La partita con la Germania rappresenta per l'Italia di Di Biagio l'ultima spiaggia per evitare di abbandonare anzitempo la Polonia. Un destino beffardo per il CT romano, messo spalle al muro da una sconfitta inaspettata proprio come due anni fa: allora era stata la Svezia a infliggere un sorprendente K.O. agli azzurrini, stavolta è toccato alla Repubblica Ceca. Così come nel 2015 dunque il destino dell'Italia è nelle mani di un'altra squadra: un'eventuale vittoria di Schick e compagni contro la Danimarca costringerebbe la nazionale a superare la Germania con almeno due gol di scarto.

L'Italia insomma è sull'orlo del baratro, vittima di un format estremamente elitario che sembra essere una reazione uguale e contraria (e dunque parimenti sbagliata) alle formule iper inclusive adottate da UEFA e FIFA a partire dagli scorsi Europei di Francia. Di Biagio in conferenza stampa aveva manifestato comunque una certa fiducia nel contesto tattico di Repubblica Ceca-Danimarca, in cui gli uomini di Lavicka avrebbero avuto per la prima volta nel corso del torneo il controllo di pallone e ritmi di gioco.

L'obiettivo degli azzurri dunque è vincere contro i tedeschi, quantomeno per raggiungere la soglia minima di sopravvivenza. Per farlo Di Biagio punta tutto sulla batteria di trequartisti e ali a sua disposizione, sacrificando Petagna che diventa ufficialmente il Thiago Motta della nazionale under 21 in quanto bersaglio numero uno di critica e tifosi. Per il resto giocano i titolarissimi nel consueto 4-3-3, con Gagliardini forse un po' snaturato nel ruolo di vertice basso di centrocampo.

La Germania invece, forte di due sonore vittorie contro Repubblica Ceca e Danimarca, vive una situazione di classifica piuttosto ambigua: rischia l'eliminazione in caso di vittoria dei cechi e contemporanea sconfitta con due gol di scarto, ma in caso di vittoria è certa di incontrare la Spagna di Saul e Asensio. Con la vittoria della Danimarca potrebbe però permettersi un passo falso con gli azzurri, assicurandosi la semifinale contro la meno temibile Inghilterra.

Nel dubbio il CT tedesco Kuntz si affida al suo undici di riferimento: Pollersbeck tra i pali, difesa a quattro con Kempf e Stark centrali di difesa e Gerhardt e Toljan terzini rispettivamente a sinistra e a destra. Dahoud e capitan Arnold compongono il doble pivote in mediana davanti a cui giostrano i trequartisti Gnabry, Meyer e Weiser. La punta è Selke, tecnico e creativo nonostante la stazza imponente alla Mario Gomez.

Si tratta la classica partita in cui entrambe le squadre puntano gli occhi sul campo e le orecchie sulla radiolina o sulle informazioni degli inviati Rai a bordocampo.



German style

Nonostante la posta in palio entrambe le squadre continuano a seguire il proprio spartito. La Germania cerca costantemente di creare superiorità numerica attorno al pallone, risalendo il campo coinvolgendo più uomini possibile nel palleggio. L'Italia invece è meno legata a un gioco di tipo posizionale e prova a sviluppare soprattutto sulle fasce con le combinazioni terzino-mezzala-ala.

Uno dei pochi punti di contatto tra le due squadre è la scelta di pressare alto.

Di Biagio in fase di non possesso sistema i suoi in un 4-1-4-1 con Bernardeschi prima punta. Inizialmente il trequartista della Fiorentina copre il centro per intervenire su un eventuale passaggio a Dahoud o Arnold. Sui mediani tedeschi si orientano le mezzali azzurre. Chiesa e Berardi devono invece attaccare il terzino di riferimento quando in possesso. Il passaggio da centrale a terzino rappresenta nelle prime fasi di gioco il momento in cui l'Italia scatena il pressing. L'ala del lato palla attacca il terzino mentre Bernardeschi si fionda sul centrale più vicino per escluderlo dal possesso. Contemporaneamente Pellegrini e Benassi attaccano il doble pivote avversario.

le linee azzurre indicano le direttrici del pressing italiano

Può accadere però che il pressing non sia eseguito con tempi perfetti e allora Bernardeschi resti tagliato fuori perché c'è stato il passaggio da un difensore all'altro. E' una situazione pericolosa perché sia Stark che Kempf, come quasi tutti i centrali tedeschi di ultima generazione d'altronde, sono dotati di ottimi piedi e visione di gioco e possono innescare Meyer o una delle due ali rientranti verso il centro. Di Biagio rimedia autorizzando una delle due mezzali a seconda del lato palla ad abbandonare il mediano di riferimento per uscire in pressione sul difensore in possesso, sempre cercando di oscurare la traccia verso i due centrocampisti avversari.



Dahoud e Arnold provano a uscire dalla zona d'ombra disponendosi in verticale o in diagonale l'uno rispetto all'altro. Il primo in particolare riesce quasi sempre a creare col movimento una linea di passaggio pulita per il difensore, eseguendo nei casi più estremi anche la salida lavolpiana. Quando il centrocampista del Moenchengladbach entra in possesso la prima opzione è la sventagliata su una delle due ali, di solito Gnabry, con licenza di puntare il terzino.

Si tratta di uno sviluppo estremamente diretto che confida innanzitutto nel talento sopra la media dei suoi interpreti, ma è comunque di un piano B da adottare quando ogni linea di passaggio verso il centro è otturata. Il vero intento della Germania è infatti occupare gli half space ai lati di Gagliardini per poi attaccare frontalmente la porta di Donnarumma. In questo senso è fondamentale il contributo di Meyer, una minaccia costante col suo movimento orizzontale ai fianchi del centrocampista dell'Inter.

Meyer e Selke tra l'altro tornano spesso utili in fase di possesso quando l'Italia indirizza la prima costruzione della difesa sulla fascia. A quel punto i due si allargano con movimenti incontro interno-esterno verso il lato palla, raggiungendo zone basse di campo in cui Caldara e Rugani preferiscono non addentrarsi. Rappresentano quindi un'opzione di passaggio libera: i difensori centrali non vogliono seguirli, i terzini sono impegnati con le ali, gli uomini in pressing hanno ciascuno un avversario di riferimento.


Barreca controlla Weiser, Pellegrini e Chiesa seguono Dahoud e Toljan. Bernardeschi esce in pressione su Stark. Selke viene incontro, riceve il lancio e appoggia per Dahoud che cambia gioco su Gnabry come se fosse la giocata più semplice del mondo

Per raggiungere la trequarti palla a terra e costringere l'Italia a difendere all'indietro la Germania sfrutta anche i movimenti dei due mediani. Si è detto di come Dahoud e Arnold si dispongano in maniera asimmetrica per cercare una zona di luce in cui offrire un appoggio ai compagni. Di solito il primo si propone ai difensori, mentre il centrocampista del Wolfsburg si alza. Può capitare che questi decida di andare oltre allineandosi con Meyer e determinando il passaggio momentaneo dal 4-2-3-1 al 4-3-3. Le due mezzali allora occupano lo spazio ai lati di Gagliardini dietro Pellegrini e Benassi, che devono restare più avanzati per poter eventualmente uscire in pressione sui difensori. Stark e Kempf però, come detto, hanno buone doti di distribuzione e riescono spesso a innescare Meyer e Arnold. A quel punto però la Germania non riesce a sfondare perché l'Italia è brava a ricompattarsi e a difendere la propria area di rigore.

il triangolo di centrocampo tedesco con Meyer e Arnold alle spalle delle mezzali avversarie e ai lati di Gagliardini. Qui Dahoud raggiunge Meyer con un laser pass

Oltre i limiti

Sin dal percorso di qualificazione, passando per l'esordio vincente con la Danimarca, l'Italia di Di Biagio non ha mai entusiasmato per fluidità nella costruzione e nella definizione. Non è casuale che il gol non sia figlio di un possesso ragionato o di una rapida combinazione tra gli attaccanti, bensì di una fase di pressione alta molto ben applicata. Alla mezz'ora del primo tempo gli azzurri ostacolano una rimessa dal fondo tedesca: Bernardeschi copre Dahoud che si propone, Chiesa e Berardi controllano i terzini. Le mezzali partono più arretrate, pronte poi come al solito a scattare sui mediani. Stark riceve dal portiere, allora Chiesa abbandona Toljan per pressare il centrale che a quel punto va da Dahoud; il giocatore di origine Siriana è pressato da Bernardeschi e alle sue spalle da Pellegrini che in tackle recupera palla e spalanca la porta al proprio numero dieci. Col gol dell'uno a zero l'Italia viene a capo di una situazione estremamente complicata, grazie anche alla contemporanea vittoria danese.



Difatti l'Italia, così come la Germania, con le proprie trame non riesce a impensierire Pollersbeck. Da allievo di Zeman Di Biagio vuole costruire principalmente sulle fasce, coinvolgendo terzino, mezzala e ala. I tre giocatori sono in continua rotazione e si scambiano spesso la posizione. Il miglior interprete di queste giocate, forse anche perché abituato ad eseguirne di simili con Di Francesco, è Berardi: l'ala di Cariati legge bene i movimenti di mezzala e terzino ed è eccellente nella protezione di palla spalle alla porta. La sua assenza potrebbe essere più pesante del previsto contro i terzini della Rojita, non proprio irreprensibili quando si tratta di orientarsi sull'uomo.

Esistono dunque degli schemi creati per le catene laterali che però vengono eseguiti in maniera acritica dai giocatori, senza capire quando è conveniente provarli e quando occorre invece tornare indietro e avanzare in un altro modo. Un'interpretazione che li rende ripetitivi e per questo facili da leggere per gli avversari.



Se si riesce a mantenere il possesso in fascia un'opzione importante è lo scarico su Gagliardini che cambia gioco sul lato debole, sfruttando le scalate del 4-4-2 tedesco in fase di non possesso. A questo punto l'ala che riceve può decidere di puntare il diretto marcatore o premiare la sovrapposizione del terzino.

Anche quando con un passaggio dalla difesa (ottima prestazione di Rugani e Caldara anche in fase di costruzione) si innescano centralmente le mezzali, si cerca subito l'appoggio su Berardi e Chiesa che possono, ancora una volta, rientrare o servire i terzini sulla corsa.

Spesso l'Italia giunge al cross, portando in area stabilmente Pellegrini, Benassi e l'ala del lato debole. In questo contesto l'impatto di Bernardeschi sulla fase di possesso purtroppo è minimo. Innanzitutto perché la ricezione tra le linee è diversa da quella tipica della Fiorentina di Sousa: con i viola Federico rientra dalla fascia e riceve spesso in movimento, orientando con lo stop conduzione e posizione del corpo; qui invece deve abbassarsi e giocare spalle alla porta, situazione in cui può migliorare sensibilmente ma che spesso lo porta a commettere errori tecnici per via della pressione e dell'impatto fisico del difensore. In più giocando da attaccante centrale non viene coinvolto nelle interazioni laterali che caratterizzano il gioco dell'Italia. Certo, l'ex crotonese ha pressato per tutta la partita e ha siglato il gol vittoria, ma il suo schieramento da prima punta in luogo di Petagna non ha garantito alcun vantaggio tattico.

Verosimilmente contro la Spagna il nove atalantino tornerà titolare, con Bernardeschi dirottato nella sua comfort zone. L'ingresso di Petagna permetterà di appoggiarsi a lui anche con i lanci, situazione alle volte utile per una squadra con difficoltà nella risalita palleggiata del campo. Senza dimenticare che nel contesto delle nazionali under 21 il centravanti orobico ha dimostrato di saper sfruttare a proprio vantaggio il contatto con difensori acerbi che si lasciano aggirare dal suo uso del fisico.


pensateci due volte prima di dire che Petagna è scarso


La Rojita è la nazionale con più talento in questo Europeo. Tuttavia è una squadra che talvota preferisce lasciare il pallone tra i piedi di avversari anche inferiori come la Macedonia. Proprio il match con la nazionale slava ha palesato le difficoltà della Spagna nel difendere posizionalmente; i macedoni hanno raggiunto più volte la trequarti col possesso palla e la difesa ha sofferto particolarmente i tagli delle ali tra terzino e centrale. Se l'Italia non ama sviluppare il possesso palla per attaccare gli spazi di mezzo, può comunque contare sui movimenti in profondità dei propri esterni.

Dal punto di vista difensivo sarà importante non lasciare troppo solo Gagliardini a centrocampo; contro la Germania le corse all'indietro hanno permesso di isterilire le ricezioni di Meyer di fianco al nostro numero diciotto, ma contro Asensio potrebbe non bastare. Per non rinunciare alla pressione delle mezzali, si potrebbero invitare Caldara o Rugani a uscire in maniera aggressiva, quando possibile, sull'avversario tra le linee.


Sarà bene concentrare la produzione sulla fascia destra, anche perché a sinistra un giocatore che punta molto sull'atletismo in conduzione come Chiesa potrebbe andare in difficoltà con un difensore altrettanto rapido quale Bellerin. Da tenere d'occhio il duello tra Bernardeschi e uno tra Jonny Castro e Gaya, spesso lacunosi dal punto di vista difensivo. Sulla nostra destra tra l'altro agisce di solito anche un centrocampista poco propenso a difendere come Suarez senza dimenticare che Asensio potrebbe essere sgravato di qualche compito difensivo. Attaccare con costanza la loro catena sinistra potrebbe essere un dettaglio decisivo, in una partita in cui piccoli accorgimenti potrebbero fare la differenza.



di Emanuele Mongiardo

venerdì 16 giugno 2017

Assistere alla storia

Qualche considerazione sulla serie finale tra Warriors e Cavs.

di Michele Serra (
@ElTrenza93)






Le Finali NBA 2017 tra Cavs e Warriors dovevano servire per consolare gli appassionati del Gioco rimasti delusi da questi playoff, senza molte partite davvero divertenti e, soprattutto, nessuna sorpresa: si può dire che siano riuscite nel loro intento. Il risultato finale di 4-1 da parte di Golden State, che vince il suo secondo titolo in tre stagioni, dopo la cocente delusione dello scorso anno, racconta solo in parte il film di queste Finals. Il livello del basket giocato è stato davvero alto, il migliore che la NBA attuale potesse offrire, e a giocarsi l’anello sono state le due squadre che ci si attendeva ad inizio stagione, quando non si aspettava altro che di capire chi sarebbe uscita vincitrice dal terzo capitolo di questa saga che, ancora una volta, non ha deluso le aspettative.

Un inizio traumatico
Le prime due gare della serie sono state un bagno di sangue per i Cavs, che hanno sbattuto la faccia contro Golden State come se non avessero nemmeno avuto modo di studiare i loro avversari. Benché si potesse, a buon diritto, pensare il contrario, i Cavs hanno deciso di giocare allo stesso gioco dei californiani, cercando di correre e di attaccare a ritmo alto, colpendo con le transizioni offensive. 

Quello che però contraddistingue i Warriors dalle altre squadre è il saper giocare a ritmo alto (quasi 103 di pace nei playoff, secondi solo ai Blazers), senza perdere troppi palloni (13.6 palle perse nei playoff: 11esimi, ma imparagonabili a squadre come Utah, Memphis e Milwaukee che giocano a ritmi molto più lenti). Da questo punto di vista, gara 1 è stato un massacro, con i Cavs che commesso ben 20 turnover a fronte dei 4 (record all-time in una gara di finale) di Golden State. I palloni persi da Cleveland hanno fruttato agli avversari ben 21 punti, arrivati anche a causa di una difesa Cavs tragica in transizione (la squadra di Lue è quarta nei playoff per punti subiti da questa situazione di gioco, e prima per punti totali concessi). Quello che si è visto è la totale mancanza di comunicazione tra i giocatori, una mancanza di urgenza, in un certo senso (colmata, sì, con l’avanzare della serie, ma mai sparita del tutto), e, soprattutto, il terrore a concedere un centimetro di spazio ai tiratori Warriors.


Questo è il caso più lampante, ma ce ne sono anche altri, soprattutto nelle prime due gare. Durant cattura il rimbalzo difensivo, Supera la metà campo e davanti si trova Irving che fa segno a LeBron di rimanere su Curry, salvo poi finire anch’egli per spostarsi, forse per raddoppiare Curry, forse perchè temeva ci fosse qualcun altro tiratore appostato, o forse non sa nemmeno lui il perchè: fatto sta che viene concessa un’autostrada per il canestro a KD. Cose come questa si sono viste sempre più raramente, non fosse altro perchè Cleveland ha tagliato il numero di palle perse, che invece è salito tra i giocatori di Golden State, che a volte ha il difetto di piacersi troppo e di tentare giocate ad effetto quando non ce ne sarebbe il bisogno. In gara 2, i Cavs hanno sfruttato alla grande le palle perse di Golden State - 20 - fino a che sono rimasti in partita. Di queste 20, però, solo 7 sono arrivate nel secondo tempo, quando i Warriors hanno preso il largo.

In gara 1 abbiamo assistito ad un vero e proprio show difensivo di Klay Thompson e Draymond Green che, pur avendo combinato un tragico 6-28 dal campo, hanno giocato una magistrale partita difensiva. Thompson ha concesso un solo canestro - su 12 tentativi - ai giocatori che si è trovato a marcare. Nonostante il rendimento sotto la media messo in mostra nei playoff, Thompson attira sempre le attenzioni delle difese con i suoi movimenti senza palla: stiamo parlando pur sempre di uno dei migliori tiratori NBA, che ha finito la serie con il 42.5% da 3. Qui un esempio di quanto appena detto:


sul taglio del numero 11, LeBron e JR Smith non comunicano, non sarà l’ultima volta, e si mettono sulle sue tracce, lasciando però Durant indisturbato a ricevere e a tirare, per un gioco da quattro punti.

Green, invece, ha messo in mostra le sue qualità da safety NFL gravitando al centro dell’area e spostandosi, con velocità e abilità nelle letture, nel punto in cui si muoveva il pallone.


Qui l’ex Michgan State è fermo in mezzo all’area in attesa dell’entrata di LeBron. L’aiuto di Green sulla penetrazione sconsiglia a James di attaccare il ferro, preferendo scaricare sul perimetro, dove però c’è appostato Thompson, che recupera il pallone e fa ripartire il contropiede, finito senza alcun disturbo della difesa. In gara 1, Green si è permesso più volte di lasciare anche il proprio marcatore designato, molto spesso Love, per pattugliare l’area. Se la difesa di Green è stata all’altezza del giocatore, lo stesso non si può dire dell’apporto offensivo, che si è rivelato spesso un punto a favore per gli avversari. Cleveland non ha mai rispettato il tiro di Dray, che lo ha mandato a bersaglio nella serie con un misero 28% (7-25), e solo il 30% nelle triple non contestate (esattamente 4 a partita). Il numero 23 dei Dubs ha dato l’impressione di essere anche molto nervoso; ha commesso 4.4 falli a partita rimanendo in campo per 35 minuti di media, e limitando allo stesso tempo la presenza in campo della Super Death Lineup, cioè il quintetto senza centri dei Warriors. Questo anche per i problemi al tiro di un altro Warrior, cioè Iguodala, che, con alle spalle anche un problema fisico patito contro gli Spurs in finale di Conference, ha mandato a bersaglio il tiro da 3 con il 33% (su 3 tentativi a partita), pur mettendo in mostra la solita, eccellente difesa su LeBron, che marcava per esonerare Durant da compiti difensivi quando in campo assieme, ma anche su Kyrie.

MVP 
Ad uccidere le velleità di vittoria dei Cavs in gara 2 è stato Kevin Durant, schierato in un’inedita posizione di centro (ruolo che in stagione aveva coperto solo per 8 minuti). L’MVP delle Finali ha la stazza per poter giocare da 5; ma se in stagione regolare si preferisce evitargli il logorio fisico che battagliare contro uomini di 130 chili comporta, in Finale, vuoi per la frequente mancanza di centri in campo, Kerr ha deciso di dargli una chance, con risultati eccellenti. Durant ha finito la serie con 35.2 punti, 8.2 rimbalzi, 5.4 assist con il 64% di effective field goal (la statistica che tiene conto del maggior valore del tiro da tre punti), finendo per essere anche il quarto giocatore di sempre a segnare almeno 30 punti nelle prime cinque gare di una Finale (dopo Elgin Baylor, Rick Barry, Jordan e Shaq). Cleveland gli ha alternato tre giocatori in marcatura. LeBron se n’è preso carico in tutta gara 1, mentre nelle successive uscite si è deciso di dargli un po’ di riposo delegando la marcatura anche a Shumpert e Richard Jefferson. L’ex Knicks ha atletismo e fisico, ma rende all’avversario quasi 15 cm, e in attacco è stato tragico, costantemente ignorato dalla difesa (che infatti metteva Curry sulle sue tracce). Jefferson, invece, merita due parole più avanti.

Quando si vede KD giocare, l’occhio si sofferma chiaramente sulla bellezza del suo gioco offensivo, così naturale ed efficace. Ma la verità è che l’ex OKC è anche un eccellente difensore in grado di marcare praticamente tutti e 5 i ruoli, accompagnando gli esterni al ferro, curandosi del miglior giocatore avversario o fungendo da rim protector con le sue lunghissime braccia. Ecco un paio di esempi da gara 2.


Qui Cleveland cerca il mismatch con Curry su un p&r, cosa che ha fatto durante tutto l’arco della serie (ed anche nelle scorse Finals). McGee è costretto a passare su LeBron lasciando il proprio marcatore, Frye, che taglia a canestro, dove però trova Durant, che lo stoppa e guadagna il possesso del pallone.


In quest’altro caso, invece, stoppa Love in un 1-contro-1 spalle a canestro, si catapulta in attacco, dove supera James in palleggio e conclude con un circus shot nonostante la difesa di Love e il ritorno di James. Per l’impatto avuto su entrambe le metà campo e l’efficienza del suo gioco, Durant è, meritatamente, l’MVP delle Finals 2017.

Senza voler nulla togliere a Curry, però, che ha giocato una serie strepitosa, dopo quella, sottotono, dello scorso anno. Steph, finalmente sano dopo i guai al ginocchio dello scorso anno, ha giocato playoff e Finali strepitose, terminando queste ultime con medie di quasi 27 punti, 8 rimbalzi e 9.4 assist, steccando solo una gara, la quarta, guarda caso persa da Golden State. I Cavs sono “storicamente” una squadra contro cui il due volte MVP faticava parecchio, per via dell’incredibile dispendio fisico su entrambi i lati del campo. In attacco, i difensori avversari hanno cercato in tutti i modi di rendergli difficile ogni singola ricezione mettendogli le mani addosso e raddoppiandolo sui p&r alti (mossa, questa, che si è vista meno rispetto allo scorso anno, e comunque soprattutto nell’ultimo capitolo della serie, quando Golden State ha deciso di affidarsi soprattutto alle capacità di Steph di giocarlo). Anche in difesa è stato inserito in qualsiasi pick and roll, sia che a portare palla fosse Kyrie o LeBron, per cercare di creare mismatch favorevoli. Solo la presenza di Durant, di questo Durant, gli ha tolto un premio di MVP che avrebbe certamente meritato. Chi aveva sminuito lui e il suo gioco dopo gli scorsi playoff, dovrebbe avere avuto svariati argomenti per rivedere la propria tesi (che comunque era errata di partenza, chiariamo).

Troppo tardi
Dopo la vittoria in gara 4, sul web si è tornato a scherzare sul famigerato “Warriors blew a 3-1 lead”, ignorando il fatto che questa volta il vantaggio era arrivato fino al 3-0, che mai nessuna squadra è stata capace di rimontare un deficit simile in Finale NBA e che sì, questi Warriors sono decisamente più forti di quelli dello scorso anno, con KD e Steph sano.

Va dato merito alla squadra di Lue di essersela giocata a viso aperto, di aver tenuto la serie competitiva più di quanto dica il risultato e di aver fatto aggiustamenti per raddrizzarla dopo le prime due, disastrose uscite. Come era ampiamente prevedibile, la difesa di Cleveland ha faticato terribilmente, soprattutto lontano dalla palla e nella comunicazione dei blocchi e dei cambi da effettuare. Cose come quelle di gara 1, che abbiamo visto sopra, non sono più capitate (o comunque in maniera molto più sporadica), ma le amnesie difensive non sono mai mancate. I Warriors hanno ripagato Cleveland della stessa moneta, individuando Kevin Love come anello debole della loro difesa, attaccandolo ripetutamente. L’ex Minnesota ha avuto un atteggiamento troppo passivo, in alcuni casi, rimanendo troppo basso (come a difendere l’area da una penetrazione) e lasciando spazio al tiratore. In altri casi, si decideva per non intrappolare Curry sul p&r, lasciando il numero 30 faccia a faccia con Love, che veniva sistematicamente portato al ferro per un canestro facile.


Qui un esempio di mancanza di comunicazione, con Love e Shumpert protagonisti. I due Cavs raddoppiano Durant su un pick and roll dimenticandosi completamente Green: nessuno dei loro compagni ruota in mezzo all’area e il 23 schiaccia comodamente. Come detto, questi episodi si sono verificati varie volte, nella serie, a maggior ragione quando non c’era James sul terreno di gioco. LeBron ha avuto, com’era prevedibile, un minutaggio altissimo, e ogni qual volta si prendeva un minuto di pausa, Cleveland era totalmente incapace di tener testa ai Dubs. Con il Prescelto in panchina, Cleveland ha avuto un net rating di -13.8, nettamente il peggiore di squadra. Richard Jefferson, che lo generalmente prendeva il sui posto, è totalmente incapace di prendersi un tiro da solo, e in generale ha faticato terribilmente a trovare il canestro: tutti i suo tiri sono stati open o wide open secondo i criteri di NBA.com, e di questi ultimi non ne ha mandato a bersaglio neppure uno (su 0.8 tentativi a partita). Al contrario, l’ex università di Arizona si è ritagliato un ruolo come passatore sui pick and roll, in cui è stato particolarmente coinvolto sopratutto in gara 4, quando marcato da JaVale McGee (altro giocatore spesso inserito su pick and roll per la sua incapacità a tenere le penetrazioni uno-contro-uno).


Quando gli è stato chiesto quando avesse sviluppato questa caratteristica del suo gioco, Jefferson è stato molto onesto, rispondendo “in realtà ho iniziato a farlo solo da un paio di giorni”.

Avere LeBron in forma è l’unico modo che hanno i Cavs di giocarsela davvero, e non è un caso che, nei secondi tempi delle prime tre gare, il 23 abbia tirato meno o peggio rispetto al primo tempo, magari tentando maggiormente il tiro da fuori anziché andare a canestro per punti più facili, sperando di riempire di falli i giocatori di Golden State. In gara 3 LeBron e Kyrie si sono accesi per 78 punti combinati, mentre Love ha chiuso con soli 9 punti e un -11 di plus/minus. Peccato che il minutaggio dei due (45 e 44 minuti, rispettivamente) li abbia fatti arrivare in apnea a fine partita. Negli ultimi tre minuti, complice una buona difesa dei Warriors, i Cavs hanno subito un parziale di 11-0, tra distrazioni e semplice bravura degli avversari, condensata nel canestro del sorpasso da parte di Durant in faccia a James. Per Cleveland ci sono stati 16 punti di JR Smith, che ha cominciato le Finali con due partite di ritardo. Nelle ultime tre gare ha tirato 17/27 da 3 (63%) contro il 25% delle prime due (1/4). Love, come detto, ha chiuso con soli nove punti ma anche 13 rimbalzi e 6 palle rubate. La serie di Love è stata in chiaroscuro. Offensivamente, non è mai riuscito a mettere insieme due partite buone consecutive (in gara 5 ha giocato poco per problemi di falli, in una partita in cui gli arbitri non facevano passare il minimo contatto). In difesa, i suoi difetti nella marcatura del pick and roll sono stati spesso esposti, ma ha avuto modo di rendersi utile in altri modi. Coi rimbalzi, ad esempio, uno dei suoi punti di forza. La sua rebounding% è la più alta tra i Cavs (18.9), e dei suoi 10.4 rimbalzi di media, il 32% è contestato. Ha anche fatto registrare 2.8 deviazioni e 2.4 palle vaganti catturate a partita, mostrando voglia di lottare su ogni pallone.

Chi invece ha deluso parecchio è stato senza dubbio Tristan Thompson, vero e proprio fattore X nella vittoria dell’anello lo scorso anno, fantasma in questa serie, perlomeno nelle prime tre gare. Bisogna dire che Pachulia, nei minuti in cui è rimasto in campo, ha svolto un ottimo lavoro contro di lui nel tagliafuori, ma non si può spiegare solo con questo il rendimento insufficiente del lungo canadese. Thompson (che ha fatto registrare nemmeno 6 rimbalzi di media a partita) è entrato nella serie nelle ultime due gare, dando ai Cavs possessi extra con la sua presenza a rimbalzo offensivo e anche una inaspettata mano come scorer (15 punti in gara 5): pochissime volte abbiamo visto TT attaccare il tabellone con questa aggressività, regalando nuove opportunità offensive ai suoi.


Ultimo, ma non meno importante, Kyrie Irving. L’ex Duke ha subito per tutta la serie l’eccellente difesa di Klay Thompson, a cui a preso le misure dopo averlo sofferto particolarmente nelle prime due gare, segnando 38, 40 e 26 punti nelle ultime tre partite della serie in tutti i modi possibili: in acrobazia al ferro, dal mid-range e anche da 3 (ma solo 2-13 in gara 2 e 3, per una percentuale complessiva nella serie del 42%).


Difficile rimproverare qualcosa ai Cavs. Certo, gli errori difensivi ci sono stati, e anche parecchi, come si era già notato nelle altre serie playoff della Eastern Conference. Se LeBron è il giocatore più forte del mondo, Durant ha giocato esattamente al suo livello, e la potenza di fuoco dell’attacco di Golden State non ha lasciato a Cleveland la possibilità di giocarsela  (con armi che, peraltro, né i Cavs né nessun altra squadra attualmente in NBA possono dire di avere). Difficile prevedere se i Warriors domineranno la Lega senza possibilità di appello nei prossimi 4-5 anni - in fondo pensiamo a quanto i campioni 2016 siano andati vicini a pareggiare la serie, non fosse stato per gli ultimi tre minuti di gara 3.

Di sicuro, le altre 29 squadre dovranno escogitare qualcosa di nuovo e finora imprevedibile, o affidarsi unicamente alla fortuna. 



Articolo a cura di Michele Serra

giovedì 4 maggio 2017

Cambio di marcia

Qualche osservazione sulla vittoria degli Spurs in gara 2.

di Michele Serra (
@ElTrenza93)








Gara 2 tra San Antonio e Houston era un misto di curiosità e attesa per capire se, e come, gli Spurs si sarebbero rialzati dopo la batosta di gara 1, in cui hanno dato l’impressione di non potersela giocare con i loro avversari. Houston è squadra che corre e che produce tanto da situazioni di pick and roll (0.93 punti per possesso in questa situazione per il portatore di palla in regular season, addirittura 1 nei playoff), e ciò sulla carta non si sposa bene contro questi Spurs: la squadra di Pop non ha un rim protector - per la verità nemmeno lunghi in grado di rimanere incollati alla guardia su un cambio, ad eccezione di Aldridge, forse, che però non vive un gran momento di forma - e, tolto Leonard, nessun giocatore in grado di rispondere colpo su colpo all’attacco dei Rockets. Gara 1 è stata un massacro, con gli Spurs precipitati a meno 30 senza riuscire a giocare il loro basket fatto di movimento di palla alla ricerca del tiro migliore (solo 19 assist contro i 30 di Houston). All'intervallo, Kawhi aveva segnato 21 punti su 19 possessi, mentre i suoi compagni erano rimasti a guardare: i titolari solo 27 punti su 42 possessi giocati.

Gara 2 è stata decisamente diversa, fin dall’inizio. Tanti Spurs sono riusciti a trovare il canestro, da Danny Green (4-4 nel primo quarto, con anche 3 assist) a Tony Parker e anche Aldridge. L’ex Blazers ha giocato una gara complessivamente sufficiente, con 15 punti (6-14 al tiro) e 8 rimbalzi. Il tiro dalla media fatica ad entrare, ma almeno è migliorato nelle letture e nella velocità di esecuzione rispetto al primo episodio della serie, evitando di attirare i raddoppi spalle a canestro, concludendo prima o servendo i compagni sul perimetro.

 

Un grosso problema per gli Spurs, in gara 1, sono state le palle perse, 15, che hanno scatenato i Rockets in transizione. La squadra di D’Antoni non è necessariamente elite, in questa situazione di gioco, anzi: in stagione regolare era seconda per la frequenza con cui questa arma veniva utilizzata (18% a partita), ma solo nel 45esimo percentile, nella metà bassa. I tiratori però non mancano, ai Rockets, e disporsi male in transizione può voler dire lasciare spazio dall’arco ad una delle tante armi a loro disposizione. Ieri notte sono riusciti ad evitarlo, soprattutto nel primo tempo: all’intervallo, gli Spurs avevano perso solo un pallone, che però era risultato in una tripla comoda per Anderson (che nelle ultime 3 gare sta tirando da tre con il 44%).

 

Popovich ha fatto anche qualche aggiustamento, ad esempio spostando Danny Green su Ryan Anderson e Leonard su Harden; l’ex San Diego State è rimasto il più possibile su di lui anche attraverso i blocchi, evitando mismatch favorevoli a Houston, che in gara 1 avevano creato non pochi problemi alla squadra di casa, soprattutto quando veniva coinvolto nel pick and roll l’uomo marcato da David Lee.

 

Qui Leonard passa sopra due blocchi, evitando di cambiare e lasciare Aldridge o, ancora peggio, Lee contro Harden, arrivando a contestare il tiro al Barba. Harden che ha tirato solo 3-17 e solo a tratti è riuscito a mettere in ritmo i compagni: ha finito la partita con 10 assist (5 solo nel terzo quarto quando Houston è arrivata anche a -3). Nel secondo tempo, l’impatto della panchina è calato drasticamente, con Eric Gordon che ha messo a segno solo 3 punti nel secondo periodo (sui 15 totali), mentre Lou Williams ha litigato col canestro tutta la sera (2-7 e 2 palle perse) e Nenè non ha dato l’impatto avuto nelle precedenti gare di playoff.

Particolarmente rilevante ai fini del risultato è stata la scelta di Popovich di far entrare dalla panchina David Lee, il bersaglio preferito dei suoi strali in gara 1, per la sua difesa passiva sui pick and roll e in situazioni di aiuto sulle penetrazioni. Al suo posto in quintetto Pau Gasol, che in attacco ha tirato molto male (3-11) soffrendo la fisicità di Capela sotto canestro, ma che ha dato una enorme mano nella propria metà campo, con 13 rimbalzi catturati e ben 4 stoppate, sfruttando la sua lunghezza di braccia e la sua difesa posizionale che è ancora sufficiente. Qui lo vediamo stoppare un tentativo a canestro di Harden e far ripartire il contropiede, ultimato da Parker con un canestro da tre.

 

Per quanto riguarda invece Leonard, Kawhi è stato ancora una volta mostruoso, il migliore dei suoi, finendo con 34 punti, 8 assist, 3 palle rubate con 13-16 dal campo (e un irreale 91% di effective fg). Il numero 2 degli Spurs sta diventando pian piano un eccellente giocatore in isolamento e chiaramente nei playoff gli Spurs lo stanno cavalcando ancora di più per sopperire alla mancanza di ulteriori creatori di gioco dal nulla (la sua percentuale di isolamenti è passata dal 12.6 della regular season a oltre il 21%, con un leggero calo dei punti per possesso: da 0.94 a 0.88). Ciò in cui si sta specializzando è mettere in ritmo i compagni, e in gara 2 abbiamo visto i miglioramenti che ha compiuto fin qui sotto questo punto di vista.


Di sicuro, anche gli altri giocatori gli hanno dato una mano, come detto, in particolare Tony Parker, che, nonostante l’età, ha ancora al proprio arco partite in cui alza il rendimento offensivo, rivelandosi la seconda opzione per gli Spurs, adesso che Aldridge sta attraversando il momento peggiore della sua avventura in Texas. Purtroppo le notizie arrivate non sono buone: l’infortunio, che è al quadricipite e non al ginocchio, come inizialmente pareva, lo costringerà a guardare dalla panchina il resto dei playoff. Dopo l’uscita del franco-belga, gli Spurs hanno messo a segno un parziale di 14-5 chiudendo definitivamente i conti, ma è innegabile che la sua assenza peserà tantissimo, specie se il suo rendimento fosse stato (vicino a) quello fatto vedere ieri notte. Miglior realizzatore dalla panchina è stato Jonathan Simmons, che finalmente ha avuto un minutaggio consistente (20 minuti), dando freschezza su entrambi i lati del campo. Il suo atletismo e la giovane età possono essere un fattore in difesa, per marcare una delle guardie della second unit dei Rockets, così come la capacità di muoversi lontano dalla palla e di finire al ferro. Gli ampi differenziali delle prime due gare raccontano solo una parte della storia: abbiamo a tutti gli effetti una serie, e sarà molto divertente.



Articolo a cura di Michele Serra