martedì 8 marzo 2016

Variazioni Jazz

A Utah sanno cosa significhi costruire il futuro. Ecco perché i tifosi sono tornati a sperare.

di Michele Serra







Degli Utah Jazz che, sotto la guida di Tyrone Corbin, hanno fatto i playoff per l’ultima volta nella storia della franchigia - stagione 2011-12, quella del lockout - sono rimasti ben pochi giocatori, solo Gordon Hayward (all’epoca un sophomore), Alec Burks (rookie) e Derrick Favors, arrivato l’anno prima via trade dai Nets, da cui era stato scelto con la terza chiamata assoluta al draft 2010, e ancora ben lontano dall’essere quello che è oggi, un ottimo titolare NBA. In quell’estate si era insediato il nuovo GM della squadra, Dennis Lindsey, proveniente, neanche a dirlo, dai San Antonio Spurs, squadra a cui si guarda sempre con un occhio di riguardo quando si tratta di prendere decisioni sulla scelta di GM, soprattutto, e allenatori.

Dopo il secondo anno consecutivo senza playoff, nonostante un record di 43-39, ecco le pulizie generali operate dal nuovo GM, intenzionato a modificare il core della squadra abbandonando i veterani, lasciando andare i vari Al Jefferson e Paul Millsap, troppo buoni per poter ricostruire ma non abbastanza per puntare in alto, e ricominciando da capo.

Il processo di ricostruzione è arrivato ad una svolta nella trade deadline dello scorso anno, quando Enes Kanter è stato spedito ad Oklahoma City, cambio che ha privato i Jazz di un ottimo scorer in post ma anche di un pessimo difensore, e che ha favorito l’ingresso in lineup di Rudy Gobert, che ha caratteristiche totalmente opposte: con il focus ora sulla difesa, la squadra - dopo le 19 W in 55 partite pre ASG - ne ha vinte 19 delle successive 27 finendo con un record più che decoroso di 38-44.

Da qui sono ripartiti i Jazz di coach Quin Snyder, ex assistente di Messina al CSKA Mosca, pur con qualche difficoltà. La cosa che più salta all’occhio, soprattutto in questa epoca di basket NBA, è la statistica riguardante il pace, ossia il numero di possessi per 48 minuti, in cui Utah è ampiamente ultima con 93.2 possessi a partita, a due punti dalla coppia Miami-Cleveland. Mentre tutti cercano di spingere sull’acceleratore, Utah abbassa il ritmo, il che non vuol certo dire che sia un male: si fa con quello che si ha a disposizione, e comunque i Jazz sono in buona compagnia, visto che tra le squadre “più lente” ci sono anche Spurs e Cavs. La squadra di Snyder ha tutto l’interesse a tenere un ritmo basso, essendo priva di un go-to-guy in grado di trasformare ogni partita in uno scontro a fuoco, ma all’occorrenza ha due/tre giocatori in grado di rivestirne il ruolo, pur non essendo certo stelle di prima grandezza per età o semplicemente valore tecnico.

Questo è anche dovuto ad un quintetto che, pur risultando efficace nella somma delle sue parti, cozza un po’ con quella che è l’idea generale del basket NBA moderno, cioè campo aperto, spaziature e tiri da tre (e i Jazz sono 19esimi per conclusioni tentate da oltre l’arco, con 23 a partita). Certamente molto dipende dal fatto di avere due giocatori interni come Favors e Gobert, con quest’ultimo in particolare che non ha ancora sviluppato un credibile gioco offensivo, venendo le sue conclusioni quasi esclusivamente nel pitturato (o schiacciando o con un movimento in semigancio con cui sta prendendo confidenza), Questo chiaramente limita il gioco offensivo di Utah in generale, come possiamo vedere ad esempio nella foto qui sotto, relativa alla partita con Portland: Ed Davis - e Miles Plumlee prima di lui - sta a debita distanza dal francese intasando l’area e impedendo tagli o conclusioni facili vicine a canestro.


Quel che toglie nella propria metà offensiva, però, Gobert lo restituisce con gli interessi nella propria: cifre alla mano è il migliore in NBA per percentuale concessa al ferro agli avversari, con solo il 40%. Chiaramente, la sua altezza e l’apertura alare da pterodattilo sconsigliano la conclusione agli avversari e in generale facilitano la stoppata (2.4 di media in stagione, secondo in NBA dietro - con buon margine - al solo Whiteside). Qui sotto, un esempio del perché Gobert è così efficace: contesta la penetrazione a Lillard, che cerca all’ultimo uno scarico per evitare la stoppata, che poi puntualmente arriva, su Plumlee.


Dicevamo che Gobert e Favors sono due lunghi molto interni: il primo deve ancora modellare del tutto il suo gioco, mentre il secondo, pur essendosi preso 182 tiri dal mid-range in stagione, li ha convertiti solo con il 37%. Ecco quindi che nell’economia della squadra risulta importantissimo lo sviluppo di un giocatore come Trey Lyles. Il rookie da Kentucky sta vivendo una stagione da sali-scendi dal punto di vista del minutaggio, che si chiaramente alzato nel periodo in cui Utah era priva di Gobert prima e Favors poi. Il suo mese migliore dal punto di vista delle cifre è stato gennaio, quando è rimasto in campo per 25 minuti di media segnando 9 punti - con 5 rimbalzi - con il 47.5% dal campo, il 46% ma solo il 54% ai liberi (nonostante abbia picchi vicini al 90% a dicembre e febbraio). Vista la direzione che ormai ha preso la lega, e viste le caratteristiche del front court di Utah, Lyles può essere fondamentale per la squadra di Snyder, essendo un “2.08” per più di 100 kg capace di allargare il campo con il tiro da 3, andare a rimbalzo, mettere palla per terra e con un IQ cestistico elevato, e quindi un giocatore perfetto per stare in campo con uno tra Gobert e Favors da un punto di vista offensivo e soprattutto difensivo, elemento del gioco di Lyles che ancora decisamente manca.

Chi invece sta decisamente sorprendendo è Rodney Hood, secondo anno da Duke. L’assenza di Exum e Burks gli ha garantito un minutaggio decisamente ampio, oltre 31 minuti di media a partita, che sta sfruttando alla grande. Se il premio di MIP non fosse già prenotato (vedi alla voce “McCollum, CJ”), Hood sarebbe sicuramente un candidato più che credibile, con i suoi 15 punti ottenuti con il 42% dal campo, il 37% da 3 e l’87% abbondante ai liberi, tutte voci statistiche migliorate rispetto a quelle dello scorso anno.


Si sono già sprecati i paragoni con lui, uno dei più frequenti dei quali è quello con Harden, anche se decisamente prematuro. Un po’ perché Harden è ancora di un altro pianeta, un po’ perché, all’età di Hood (23 anni), Harden era già stato selezionato per l’All Star Game al suo quarto anno nella lega, mentre per Hood è ancora il secondo, e di chiamate per la partita delle stelle ancora neanche l’ombra. Non si può comunque fare a meno di notare uno skill-set molto interessante e simile, in un qualche modo, a quello del suo illustre collega, a partire dalla mano prediletta, quella mancina, per continuare con una buona abilità a finire al ferro - con il 63%, attualmente migliore di quella del Barba, 60% - e soprattutto il jumper, dalla media o da tre, visto che i tiri definiti “pull up” costituiscono il 40% del suo gioco offensivo. Qui, ad esempio, vediamo la facilità con cui manda al bar Danny Green, difensore nettamente sopra la media, concludendo poi con la tripla.

Stupisce di più, probabilmente, la sua abilità nel pick and roll, fondamentale in cui Harden dimostra grande creatività ed efficacia. Il giocatore dei Jazz è quindicesimo in NBA per punti segnati da p&r tra i giocatori con almeno 200 possessi giocati in questa situazione, con 0.90, davanti, tra gli altri, ai vari Westbrook, Lowry e Conley. Qui, ad esempio, lo vediamo concludere magistralmente un p&r con Trevor Booker con un passaggio schiacciato a terra a due mani. Tutto questo anche quando condivide il campo con Raul Neto e Trey Burke, rispettivamente titolare e backup nel ruolo di PG, in attesa di riavere indietro Exum. Hood mette a segno 5.4 potenziali assist a partita, secondo solo a Gordon Hayward e davanti ai sopracitati compagni.



Attualmente, infatti, è proprio questo il ruolo in cui Utah appare più vulnerabile, tra l’infortunio occorso all’australiano e le opzione non esattamente esaltanti. Burke non sta mantenendo le promesse dopo una eccellente carriera collegiale, e oggi è un attaccante che non eccelle in nulla, ma che almeno pare aver trovato una propria dimensione come sesto uomo, visto che un terzo dei punti della second unit viene proprio da lui (Utah 21esima per punti segnati dalla panchina, con 33.6). Neto, invece, pur non rappresentando una soluzione a lungo termine, sta pian piano inserendosi nel contesto NBA, come dimostrano la sua media punti - raddoppiata da ottobre/novembre ad oggi - e anche la sua percentuale da 3 punti, salita al 56% nel mese di febbraio. Adesso anche lui ha fatto un passo indietro per lasciare spazio a Shelvin Mack, che ha avuto un buon inizio in maglia Jazz dopo essere arrivato da Atlanta alla deadline, ma la sensazione è che almeno uno - probabilmente Burke - possa essere ceduto durante la off-season una volta rientrato Exum. Certo, ci vorrà cautela vista la serietà dell’infortunio, ma l’età è dalla sua, e lo staff punta molto su questo ragazzo estremamente grezzo ma dalle doti fisiche interessantissime, dall’alto dei suoi 198 cm e della sua abilità difensiva (lo scorso anno, con lui in campo i Jazz subivano 5 punti in meno rispetto a quando sedeva in panchina), che potrà tornare particolarmente utile contro le grandi PG che popolano la lega. Dopo alcuni anni nel limbo, i Jazz pare abbiano trovato il coach e il core giusto per poter tornare ad essere rilevanti.


Articolo a cura di Michele Serra

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