lunedì 11 aprile 2016

In crescita


Gli Hornets hanno conquistato l'accesso ai Playoff. Ripercorriamo le chiavi di questa stagione positiva.

di Michele Serra






Il 5 ottobre scorso, con la stagione NBA lontana solo una ventina di giorni, gli Hornets hanno ricevuto una delle peggiori notizie possibili, a maggior ragione dopo un’annata già di per sé avara di soddisfazioni: Michael Kidd-Gilchrist avrebbe verosimilmente saltato tutta la stagione a causa della rottura di un tendine nella spalla, che ha richiesto un intervento. Non il modo di iniziare bene una stagione che doveva rappresentare una sorta di riscatto nel terzo anno di coach Clifford, dopo una insperata qualificazione ai playoff nel 2014 e un’annata da sole 33 vittorie nella campagna successiva, non esattamente il modo più adatto per celebrare il ritorno in città degli Hornets, dopo la parentesi decennale - piuttosto dimenticabile - dei Bobcats (solo due volte ai playoff, mai oltre il decimo posto nelle altre stagioni).

Nonostante tutto, siccome quando si vuole costruire qualcosa di importante, in qualunque ambito, in primo luogo si predica stabilità e pazienza, il GM Rich Cho ha provveduto al rinnovo contrattuale dell’head coach Steve Clifford, una vita da assistente, per tre stagioni con opzione sulla quarta. Senza nulla togliere ai giocatori che scendono in campo, e che sono i principali artefici della stagione da - fin qui - 41 vittorie, con la possibilità concreta di superare le 44, il massimo da 15 anni ad oggi, Clifford ha enormi meriti, essendo riuscito a modificare l’identità di gioco di un gruppo che si è trovato privo di uno dei suoi migliori giocatori (MKG) e con Al Jefferson fuori due mesi, e in comprensibile ritardo di condizione.

Le scorse edizioni di Charlotte erano diverse, poiché diversi erano gli interpreti, e qui appunto sta il merito di Clifford. Sebbene la statistica riguardante il pace non indichi un cambio radicale nel ritmo con cui la squadra attacca - quest’anno è 16esima, contro il 22esimo e 21esimo posto delle ultime due stagioni - quest’anno l’attacco è molto più efficace, e gli Hornets segnano più di 104 punti a partita, decimi, rispetto al 28esimo posto dello scorso anno, pur mantenendo comunque un’ottima difesa (sono settimi con 101.7 punti a partita subiti). Sicuramente è diverso il modo di attaccare. Gli scorsi anni, il gioco passava per gran parte dalle mani di Al Jefferson e dal suo gioco in post, che monopolizzava le azioni d’attacco dei suoi, basti pensare che il 14% dei suoi tiri arrivava con 7-4 secondi rimasti sul cronometro, in quel periodo dell’azione che NBA.com definisce come “late” (è il secondo dato più alto tra i suoi indicatori di tiro che tengono conto del cronometro).

Quest’anno Jefferson ha patito molto dal punto di vista fisico, ed è rientrato a pieno regime neanche da un paio di mesi, e solo nelle ultime uscite sta trovando uno stato di forma migliore. É (dovrebbe essere) nelle corde di un veterano capire cosa è meglio per la squadra, e lui lo sta facendo, giocando poco più di 20 minuti di media, decisamente meno di quanto fosse abituato a fare quando, fino allo scorso anno, era il giocatore più importante degli Hornets. Invece, il suo posto in quintetto è stato preso da Cody Zeller, terzo anno da Indiana, che quest’anno ha fatto un deciso passo in avanti aiutato dal gioco più offensivamente propositivo di Charlotte. In particolare ha grande efficacia in situazioni di gioco off-the-ball, come P&R e tagli. Nel primo caso è sesto per frequenza nei blocchi e, in questa situazione, segna ben 1.16 punti di media, ma anche per quanto riguarda i tagli dimostra di avere un buon tempismo: non è infrequente vederlo aspettare lungo la linea di fondo in attesa delle penetrazioni di Kemba e, quando la difesa collassa sul play, eccolo spuntare per un taglio dietro il canestro, situazione in cui segna 1.19 punti a partita. É inoltre un ottimo atleta, che sa finire al ferro mettendo palla per terra e un buon rimbalzista (9 carambole di media per 36 minuti). Qui due esempi del suo utile lavoro off-the ball.





A proposito di Kemba, il vero uomo copertina di questa squadra è proprio il ragazzo dal Bronx, artefice della miglior stagione nella sua pur breve carriera, con i suoi 21 punti, 5 assist e oltre 4 rimbalzi di media ottenuti con il 46% dal campo e il 37% da 3, ben oltre le sue medie carriera. Il duro lavoro estivo ha pagato, grazie agli insegnamenti di Bruce Kreutzer, shooting coach, e di Steve Heizel, assistente di Clifford con cui invece ha sviluppato il suo gioco sul P&R, situazione in cui Kemba opera per il 46.4% dei casi con 0.89 punti per possesso, sesto tra i play. Questa improvvisa crescita al tiro ha colto di sorpresa gli avversari, con i diretti marcatori che passavano regolarmente sotto ai blocchi, e i lunghi che si abbassavano per non concedergli una penetrazione facile. Nelle ultime otto partite, invece, si nota un’inversione di tendenza, con le difesa avversarie che - alla buon ora - sembrano aver preso le misure a Kemba, che sta tirando con il 38% dal campo e il 30% da tre. Non appena parte il gioco a due, ecco lo show forte del lungo, ed in generale il diretto marcatore di Kemba presta molto meno il fianco ai suoi tiri, come si vede qui sotto: dalla partita contro i Pistons, infatti (le otto gare a cui ho accennato prima), la percentuale di tiri definiti “open” da NBA.com, quelli con il difensore a 4-6 piedi di distanza (circa 180 cm) è passata dal 30 al 21%, segno che ormai Walker non è più un’incognita per nessuno.


La grande abbondanza di talento nel ruolo di PG e il fatto di giocare in un mercato mediaticamente poco esposto come è Charlotte rendono difficile una ipotetica chiamata dell’ex UConn all’All Star Game, convocazione che non è appunto arrivata, ma la sua stagione, stats alla mano, è molto simile a quella di giocatori come Lillard e Isaiah Thomas, che nella partita domenicale della kermesse ospitata quest’anno a Toronto hanno giocato. Kemba ha dichiarato di non essere interessato al riconoscimento di media e tifosi, ma è certo che, continuando così, non potrà nascondersi dagli apprezzamenti degli addetti ai lavori.

Peraltro, in quel campione di partite, gli Hornets hanno finito con un record di 6-2, con vittorie illustri ai danni di Heat e Spurs e una, che può rivelarsi fondamentale in ottica playoff, contro i Pistons. Questo perché sono vari gli uomini su cui coach Clifford può fare affidamento. Uno su tutti è arrivato in estate via trade con Portland: in Oregon sono stati spediti Gerald Henderson e Noah Vonleh - che tra infortuni e altro ha visto pochissimo campo durante la sua annata da rookie - e dentro Nicolas Batum, con un solo anno di contratto. Il francese, reduce da un’annata decisamente sottotono ai Blazers, si è rimesso in carreggiata con una stagione da 15 punti, 6.2 rimbalzi e quasi 6 assist di media, con il 42% dal campo, il 35% da 3 e una buona difesa. Si muove molto per il campo, sia se c’è da tagliare, portare blocchi o uscirne, situazione in cui è uno dei migliori in NBA: tra tutti i giocatori con almeno il 10% di conclusioni tentate off-screen, Batum è quinto con 1.15 punti per possesso  e il  57.4% di efg (davanti a giocatori come JJ Redick, JR Smith e Klay Thompson).


A proposito di free agent, in estate anche Marvin Williams sarà libero di testare il mercato dopo quella che può essere considerata la sua migliore stagione NBA. Gli 11.5 punti di media sono il massimo dalla stagione 2008-09, i 6.6 rimbalzi un career high così come la percentuale da 3, un ottimo 40%, un’arma che l’ex Hawks ha affinato con l’arrivo della maturità cestistica e che ora fa ampiamente parte del suo arsenale, oltre a buone letture difensive lodate anche dal suo allenatore. Per non parlare di Jeremy Lin che, dopo l’annata disgraziata in quel di LA, ha trovato un ambiente in cui mettere in mostra le sue qualità come scorer e come atleta, che gli permettono di avere un impatto anche in difesa, soprattutto nelle palle rubate, o i giovani Lamb e Kaminsky. Il primo, dopo essere finito nel dimenticatoio tra Rockets e Thunder è ripartito dal basso per cercare di trovare fiducia in un ambiente con meno pressioni, e l’ex Wisconsin che, dopo una prima parte di stagione difficile, tra panchina e prestazioni opache, sta fornendo un’ottima soluzione come stretch four.

C’è però un’incognita, che riguarda il futuro prossimo della franchigia, la quale in estate dovrà fare i conti con la scadenza dei contratti di Al Jefferson, Batum, Marvin Williams, Courtney Lee - arrivato via trade alla deadline via Memphis e che si sta rivelando una buona acquisizione, con il suo tiro da tre e la sua difesa sugli esterni - oltre alla player option di Lin, che verosimilmente uscirà dal contratto per guadagnare più dei due milioni e spicci attuali, e al dimenticato Tyler Hansbrough. Con l’aumento del cap, l’ottima stagione della franchigia ha dato loro grande visibilità e la possibilità di racimolare parecchi soldi, sia nel North Carolina, sia altrove. Sarebbe un peccato che una squadra che sta sorprendendo così nonostante le ultime recenti avversità, tra campo ed infermeria, venisse smantellata. Quel che è certo, però, è che coaching staff e dirigenza hanno saputo dare buonissime risposte, in termini di scelte di campo e mercato. Decisamente, l’epoca dei disastrati Bobcats pare lontana e ormai alle spalle. 


Articolo a cura di Michele Serra

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