Gli Hornets hanno conquistato l'accesso ai Playoff. Ripercorriamo le chiavi di questa stagione positiva.
di Michele Serra
Il 5 ottobre scorso, con la stagione NBA
lontana solo una ventina di giorni, gli Hornets hanno ricevuto una delle
peggiori notizie possibili, a maggior ragione dopo un’annata già di per sé
avara di soddisfazioni: Michael Kidd-Gilchrist avrebbe verosimilmente saltato
tutta la stagione a causa della rottura di un tendine nella spalla, che ha
richiesto un intervento. Non il modo di iniziare bene una stagione
che doveva rappresentare una sorta di riscatto nel terzo anno di coach
Clifford, dopo una insperata qualificazione ai playoff nel 2014 e un’annata da
sole 33 vittorie nella campagna successiva, non esattamente il modo più adatto
per celebrare il ritorno in città degli Hornets, dopo la parentesi decennale -
piuttosto dimenticabile - dei Bobcats (solo due volte ai playoff, mai oltre il
decimo posto nelle altre stagioni).
Nonostante tutto, siccome quando si vuole
costruire qualcosa di importante, in qualunque ambito, in primo luogo si
predica stabilità e pazienza, il GM Rich Cho ha provveduto al rinnovo
contrattuale dell’head coach Steve Clifford, una vita da assistente, per tre
stagioni con opzione sulla quarta. Senza nulla togliere ai giocatori che
scendono in campo, e che sono i principali artefici della stagione da - fin qui
- 41 vittorie, con la possibilità concreta di superare le 44, il massimo da 15
anni ad oggi, Clifford ha enormi meriti, essendo riuscito a modificare
l’identità di gioco di un gruppo che si è trovato privo di uno dei suoi
migliori giocatori (MKG) e con Al Jefferson fuori due mesi, e in comprensibile
ritardo di condizione.
Le scorse edizioni di Charlotte erano
diverse, poiché diversi erano gli interpreti, e qui appunto sta il merito di
Clifford. Sebbene la statistica riguardante il pace non indichi un cambio
radicale nel ritmo con cui la squadra attacca - quest’anno è 16esima, contro il
22esimo e 21esimo posto delle ultime due stagioni - quest’anno l’attacco è
molto più efficace, e gli Hornets segnano più di 104 punti a partita, decimi,
rispetto al 28esimo posto dello scorso anno, pur mantenendo comunque un’ottima
difesa (sono settimi con 101.7 punti a partita subiti). Sicuramente è diverso
il modo di attaccare. Gli scorsi anni, il gioco passava per gran parte dalle
mani di Al Jefferson e dal suo gioco in post, che monopolizzava le azioni
d’attacco dei suoi, basti pensare che il 14% dei suoi tiri arrivava con 7-4
secondi rimasti sul cronometro, in quel periodo dell’azione che NBA.com
definisce come “late” (è il secondo dato più alto tra i suoi indicatori di tiro
che tengono conto del cronometro).
Quest’anno Jefferson ha patito molto dal
punto di vista fisico, ed è rientrato a pieno regime neanche da un paio di
mesi, e solo nelle ultime uscite sta trovando uno stato di forma migliore. É
(dovrebbe essere) nelle corde di un veterano capire cosa è meglio per la
squadra, e lui lo sta facendo, giocando poco più di 20 minuti di media,
decisamente meno di quanto fosse abituato a fare quando, fino allo scorso anno,
era il giocatore più importante degli Hornets. Invece, il suo posto in
quintetto è stato preso da Cody Zeller, terzo anno da Indiana, che quest’anno
ha fatto un deciso passo in avanti aiutato dal gioco più offensivamente
propositivo di Charlotte. In particolare ha grande efficacia in situazioni di
gioco off-the-ball, come P&R e tagli. Nel primo caso è sesto per frequenza
nei blocchi e, in questa situazione, segna ben 1.16 punti di media, ma anche
per quanto riguarda i tagli dimostra di avere un buon tempismo: non è infrequente
vederlo aspettare lungo la linea di fondo in attesa delle penetrazioni di Kemba
e, quando la difesa collassa sul play, eccolo spuntare per un taglio dietro il
canestro, situazione in cui segna 1.19 punti a partita. É inoltre un ottimo
atleta, che sa finire al ferro mettendo palla per terra e un buon rimbalzista
(9 carambole di media per 36 minuti). Qui due esempi del suo utile lavoro
off-the ball.
A proposito di Kemba, il vero uomo
copertina di questa squadra è proprio il ragazzo dal Bronx, artefice della
miglior stagione nella sua pur breve carriera, con i suoi 21 punti, 5 assist e
oltre 4 rimbalzi di media ottenuti con il 46% dal campo e il 37% da 3, ben
oltre le sue medie carriera. Il duro lavoro estivo ha pagato, grazie agli insegnamenti
di Bruce Kreutzer, shooting coach, e di Steve Heizel, assistente di
Clifford con cui invece ha sviluppato il suo gioco sul P&R, situazione in
cui Kemba opera per il 46.4% dei casi con 0.89 punti per possesso, sesto tra i
play. Questa improvvisa crescita al tiro ha colto di sorpresa gli avversari,
con i diretti marcatori che passavano regolarmente sotto ai blocchi, e i lunghi
che si abbassavano per non concedergli una penetrazione facile. Nelle ultime
otto partite, invece, si nota un’inversione di tendenza, con le difesa
avversarie che - alla buon ora - sembrano aver preso le misure a Kemba, che sta
tirando con il 38% dal campo e il 30% da tre. Non appena parte il gioco a due,
ecco lo show forte del lungo, ed in generale il diretto marcatore di Kemba
presta molto meno il fianco ai suoi tiri, come si vede qui sotto: dalla partita
contro i Pistons, infatti (le otto gare a cui ho accennato prima), la
percentuale di tiri definiti “open” da NBA.com, quelli con il difensore a 4-6
piedi di distanza (circa 180 cm) è passata dal 30 al 21%, segno che ormai
Walker non è più un’incognita per nessuno.
La grande abbondanza di talento nel ruolo
di PG e il fatto di giocare in un mercato mediaticamente poco esposto come è
Charlotte rendono difficile una ipotetica chiamata dell’ex UConn all’All Star
Game, convocazione che non è appunto arrivata, ma la sua stagione, stats alla
mano, è molto simile a quella di giocatori come Lillard e Isaiah Thomas, che
nella partita domenicale della kermesse ospitata quest’anno a Toronto hanno
giocato. Kemba ha dichiarato di non essere interessato al riconoscimento di
media e tifosi, ma è certo che, continuando così, non potrà nascondersi dagli
apprezzamenti degli addetti ai lavori.
Peraltro, in quel campione di partite,
gli Hornets hanno finito con un record di 6-2, con vittorie illustri ai danni
di Heat e Spurs e una, che può rivelarsi fondamentale in ottica playoff, contro
i Pistons. Questo perché sono vari gli uomini su cui coach Clifford può fare
affidamento. Uno su tutti è arrivato in estate via
trade con Portland: in Oregon sono stati spediti Gerald Henderson e Noah Vonleh
- che tra infortuni e altro ha visto pochissimo campo durante la sua annata da
rookie - e dentro Nicolas Batum, con un solo anno di contratto. Il francese,
reduce da un’annata decisamente sottotono ai Blazers, si è rimesso in
carreggiata con una stagione da 15 punti, 6.2 rimbalzi e quasi 6 assist di
media, con il 42% dal campo, il 35% da 3 e una buona difesa. Si muove molto per
il campo, sia se c’è da tagliare, portare blocchi o uscirne, situazione in cui
è uno dei migliori in NBA: tra tutti i giocatori con almeno il 10% di
conclusioni tentate off-screen, Batum è quinto con 1.15 punti per
possesso e il 57.4% di efg (davanti a giocatori come
JJ Redick, JR Smith e Klay Thompson).
A proposito di free agent, in estate
anche Marvin Williams sarà libero di testare il mercato dopo quella che può
essere considerata la sua migliore stagione NBA. Gli 11.5 punti di media sono
il massimo dalla stagione 2008-09, i 6.6 rimbalzi un career high così come la
percentuale da 3, un ottimo 40%, un’arma che l’ex Hawks ha affinato con
l’arrivo della maturità cestistica e che ora fa ampiamente parte del suo
arsenale, oltre a buone letture difensive lodate anche dal suo allenatore. Per
non parlare di Jeremy Lin che, dopo l’annata disgraziata in quel di LA, ha
trovato un ambiente in cui mettere in mostra le sue qualità come scorer e come
atleta, che gli permettono di avere un impatto anche in difesa, soprattutto
nelle palle rubate, o i giovani Lamb e Kaminsky. Il primo, dopo essere finito
nel dimenticatoio tra Rockets e Thunder è ripartito dal basso per cercare di
trovare fiducia in un ambiente con meno pressioni, e l’ex Wisconsin che, dopo
una prima parte di stagione difficile, tra panchina e prestazioni opache, sta
fornendo un’ottima soluzione come stretch four.
C’è però un’incognita, che riguarda il
futuro prossimo della franchigia, la quale in estate dovrà fare i conti con la
scadenza dei contratti di Al Jefferson, Batum, Marvin Williams, Courtney Lee -
arrivato via trade alla deadline via Memphis e che si sta rivelando una buona
acquisizione, con il suo tiro da tre e la sua difesa sugli esterni - oltre alla
player option di Lin, che verosimilmente uscirà dal contratto per guadagnare
più dei due milioni e spicci attuali, e al dimenticato Tyler Hansbrough. Con
l’aumento del cap, l’ottima stagione della franchigia ha dato loro grande
visibilità e la possibilità di racimolare parecchi soldi, sia nel North
Carolina, sia altrove. Sarebbe un peccato che una squadra che sta sorprendendo
così nonostante le ultime recenti avversità, tra campo ed infermeria, venisse
smantellata. Quel che è certo, però, è che coaching staff e dirigenza hanno
saputo dare buonissime risposte, in termini di scelte di campo e mercato.
Decisamente, l’epoca dei disastrati Bobcats pare lontana e ormai alle spalle.
Articolo a cura di Michele Serra
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