martedì 17 febbraio 2015

I leoni a strisce bianche e verdi




L'Inter al Celtic e ai suoi tifosi rievoca momenti magici. La vittoria della Coppa dei Campioni (prima squadra britannica e nord-europea a riuscirci) è stata una tappa ed un evento troppo importante nella storia del Celtic, una storia ricca di orgoglio e di senso di appartenenza, per non considerare la sera del 25 maggio 1967 indimenticabile. 
Dall'Estadio Nacional di Lisbona fino alla chiesa cattolica di Santa Maria ad East Rose Street (oggi Forbes Street), dove Fratello Walfrid fondò il Celtic nel 1888, i “Bhoys” avevano conquistato l'Europa.




I protagonisti di quella vittoria furono i giocatori, chiamati da allora “Lisbon Lions”, tutti scozzesi, tutti nati entro 30 miglia (48 km) da Glasgow e tutti provenienti dal vivaio biancoverde, ma soprattutto Jock Stein, inserito nella top ten dei più grandi allenatori di tutti i tempi, che a fine partita disse:”Abbiamo vinto meritatamente, ce l'abbiamo fatta giocando a calcio. Puro, bello, calcio fantasioso.” Eh si, un calcio rivoluzionario: immaginate il calcio totale olandese ma interpretato con maggiore velocità e con la grande aggressività del calcio britanico. In quella stagione, tra l'altro, i Bhoys biancoverdi vinsero anche campionato, coppa nazionale e coppa di lega nazionale, realizzando il cosiddetto quadruple, per il quale l'annata fu poi soprannominata “Year of Triumph”.
Non a caso ai Lisbon Lions e a Jock Stein sono intitolate rispettivamente le gradinate est ed ovest del glorioso Celtic Park, “The Paradise” per i tifosi.




Avrete capito o semplicemente immaginato quanto sia imponente la storia di questo club e quanto sia difficile parlarne senza rischiare di essere banali o di tralasciare aspetti importanti perchè questa è una storia che va al di là del semplice susseguirsi degli eventi.
La storia del Celtic è una storia di coraggio, di sofferenza, di orgoglio, di malinconia.
È la storia di una squadra che fino al 1994 non aveva i numeri stampati sulle maglie ma solo sui pantaloncini.


È la storia di Jock Stein, come abbiamo detto prima.

È la storia di James McGrory, per tutti semplicemente Jimmy. Era soprannominato Mermaid (Sirena) per la sua abilità di testa, nonostante i soli 168 cm d'altezza ed è ricordato come il più prolifico marcatore europeo della storia. 
Numeri alla mano, siamo di fronte a un fenomeno: 550 reti segnate in carriera, 472 delle quali con la maglia del Celtic tra League e Coppa di Scozia (per un totale di 445 incontri); in campionato, 396 reti in 375 partite, con una media stratosferica di 1,056 a partita.
“Il gol che preferisco? Il prossimo” era il suo motto.

È la storia di John Thomson, portiere di soli 175 cm ma dal talento immenso. Il 5 settembre del 1931 durante un Old Firm ad  Ibrox, su una palla bassa, si scontrò fortuitamente in uscita con  Sam English, attaccante dei Rangers, fratturandosi il cranio e  rimanendo inerme a terra. Thomson, entrato in coma, non si  riprese e morì quella sera stessa a soli 21 anni. Il presidente del  Celtic di allora disse di lui: ”Aveva l'abilità di librarsi nell'aria con  l'abilità e l'agilità di un ballerino”. 
 Lo ricordava così il giornalista sportivo John Arlott: “Un grande  giocatore, che arrivò da ragazzo e se ne andò quando ancora era  una ragazzo. Non ebbe predecessori, né eredi. Era unico.”

È la storia di Billy McNeill, capitano dei Lisbon Lions e soprannominato “Cesar” per la sua imperiosità. Una vita dedicata ai biancoverdi, prima da difensore centrale e capitano, successivamente da allenatore e adesso da ambasciatore.


È la storia di John Doyle, detto Johnny. Negli anni '80 al Celtic Park sull’ala giocava questo giocatore che sprizzava coraggio da tutte le parti. Una scarica elettrica se l’è portato via un 19 di ottobre del 1981 a casa sua, mentre stava armeggiando con un apparecchiatura elettrica.

È la storia di Jimmy Johnstone. Se chiedete a un tifoso del Celtic chi è stato il più grande giocatore della storia del calcio, la sua risposta vi lascerà sbigottiti: “Jimmy Johnstone”. Fece impazzire la difesa dell'Inter nella finale del '67.
Jinky, così era soprannominato, odiava volare. Prima di un doppio confronto con la Stella Rossa, Stein promise a Johnstone che lo avrebbe esentato dal viaggio a Belgrado, se avesse provveduto a sistemare le cose già nella gara di andata a Glasgow: finì 5-0, con due gol e tre assist del folletto della fascia. Nel ritorno, però, dovette scendere regolarmente in campo: “Non vorrai mica privare i tifosi slavi della visione del tuo talento?”, gli disse Stein.





Ala straordinaria: tutto genialità, agilità e dribbling ubriacanti. Un giocatore fisicamente contemporaneo, un rivoluzionario del ruolo. Era alto 155 cm ma aveva uno stacco poderoso, impensabile per un fisico del genere.
Cercò di dribblare la sorte non arrendendosi alla SLA che se lo portò via nel 2006. Il suo funerale, celebrato nel giorno di San Patrizio, festa nazionale irlandese, ha visto migliaia di tifosi di Celtic e Rangers sfilare fianco a fianco, pacificamente. E’ stata l’ultima magia del folletto che, con i suoi numeri, sapeva incendiare la notte.

È la storia di Henrik Larsson, attaccante svedese. Nel 1999, in coppa Uefa contro il Lione, si frattura la gamba in due punti, riportando la rottura di tibia e perone. Questo infortunio, normalmente preclude una carriera agonista ad alto livello invece Henrik nella stagione successiva conquista la Scarpa d'oro segnando 35 gol in 37 partite.
La figura di Henrik Larsson è legata a quella che rimarrà nella storia del Celtic come una delle serate che portano con sè più rimpianti.
Nella stagione 2002-2003 il Celtic ancora una volta retrocede dalla Champions League alla Coppa Uefa ma la musica stavolta cambia. Gli scozzesi eliminano con dieci reti i lituani del Suduva, con una doppia vittoria in casa e in trasferta il Blackburn, il Celta Vigo, lo Stoccarda in una pirotecnica sfida, il Liverpool grazie allo storico successo per 2-0 ad Anfield Road, il Boavista e in finale si ritrovano contro il Porto allenato da un giovane Josè Mourinho.




La finale dello stadio Olimpico di Siviglia è bellissima. L'atmosfera è caldissima, l'aria è torbida e le due squadre sognano un trionfo europeo che manca da tanto tempo. Il Porto guidato da Mourinho è trascinato dal genio sconfinato di Deco, vero protagonista di quel Porto e di quella cavalcata trionfale che si concluderà l'anno successivo contro il Monaco. Nella sfida tra le due squadre emerge anche quella tra Larsson e Derlei, attaccanti delle due squadre e protagonisti della finale. Lo stesso Derlei nell’ultimo minuto del primo tempo porta in vantaggio il Porto ma Larsson ancora una volta trascina per mano la sua squadra e con una doppietta recupera l’iniziale rete di Derlei e quella del provvisorio 2-1 siglata da Alenichev che mette il pallone in rete dopo una giocata straordinaria di Deco. Le due squadre vanno ai supplementari e una rete ancora una volta di Derlei al decimo minuto del secondo tempo supplementare condanna definitivamente il Celtic e consegna il titolo al Porto che l'anno successivo vincerà anche la Champions.
Larsson a fine match viene eletto uomo partita ma questo non basta a consolare le sue lacrime, in campo, e quelle dei suoi tifosi, sugli spalti.




Ci sarebbero altri due argomenti da trattare: calore dei tifosi e “old firm”. Ritengo che sia più giusto, però, leggere cosa ha scritto Paolo Di Canio nella sua autobiografia su questi due argomenti. Non conosco la considerazione attuale che i tifosi del Celtic hanno di Paolo Di Canio però ripongo molte speranze nel fatto che possiate entrare ancora di più nell'universo biancoverde leggendo le sue impressioni, le sue sensazioni e le sue riflessioni.




Riguardo ai tifosi, Paolo Di Canio ha scritto:
“La città a prima vista non mi fece una bella impressione. Era fredda e piovosa, le strade erano vuote, sembrava un panorama post nucleare. Ma poi arrivammo al Celtic Park e tutto cambiò. Sembrava il tipo di campo che avevi sempre sognato da bambino. Era bello, si poteva annusare la storia e la tradizione. Mi diedero una sciarpa e qualche video […] . Tornammo indietro il pomeriggio stesso e quella sera rimasi alzato fino a tardi a guardare le videocassette del Celtic. Ero incantato. Non potevo credere a quanto fosse intensa la passione, a come si infiammasse la folla.”
“Una settimana dopo ritornai a Glasgow e incontrai Tommy Burns. Passammo tutta la giornata insieme; Tommy mi mostrò ogni angolino del Celtic Park e mi sentivo sempre più coinvolto. Vidi la foto di Brother Wilfrid, il prete che fondò il club nel 1888, i ritratti dei capitani della squadra, gli spogliatoi e le tribune. […] Lui puntava il dito verso le tribune e poi si batteva la mano sul petto, ripetendo <<Cuore! Cuore!>>. Penso fosse il suo modo per dirmi che i tifosi del Celtic hanno molto cuore. Io gli rispondevo indicando me stesso e battendomi allo stesso modo la mano sul petto, per portare a fargli capire che anch’io avevo parecchio cuore. “
“Mi portarono fuori per la presentazione ufficiale ai tifosi. Era incredibile, qualcosa che non avevo mai vissuto in precedenza. Il sole splendeva, sembrava Napoli. Ero sui gradini del Celtic Park e tutt’attorno a me, almeno fino dove la vista poteva arrivare, c’erano i tifosi del Celtic con le striscie bianche e verdi. Ci dovevano essere dozzine di fotografi e di telecamere, mentre il servizio di sicurezza teneva la gente a distanza. Per un secondo pensai tra me e me: <<Non può essere tutto per me. Devono avere firmato qualcun altro, una stella da grande nome>>. Poi iniziai a comprendere cosa fosse il leggero boato che proveniva dalla folla: <<Paolo! Paolo, Paolo!>>. Stavano cantanto il mio nome al ritmo delle campane di Pompei! Ero sbalordito, era come a Napoli quando venne firmato Diego Maradona. Amai ogni singolo attimo di quel momento. L’addetto stampa del Celtic mi disse di dire alla folla: <<Il Celtic è una grande squadra per la quale giocare>>. Non capivo davvero quello che stavo dicendo, ma quando le parole uscirono dalla mia bocca, la folla impazzi. Voglio dire che erano entusiasti. A quel punto mi innamorai cosi come avevo fatto con Tommy Burns. “

Se le parole di Di Canio non vi sono bastate potete provare a guardare questo:




Oppure questo:





Per Old Firm, come immagino sapete, si intendono le partite tra i Celtics e i Rangers.

Calcio, lotta di classe, politica, tifo, violenza e religione: questo è l’Old Firm, il leggendario derby di Glasgow tra Rangers e Celtic, e molto altro.

La competizione tra le due squadre affonda le sue radici in più di una semplice rivalità sportiva. È infarcita di una serie di complesse dispute incentrate sulla religione (cattolica e protestante) e sulla politica (indipendentisti e unionisti).
Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, scrisse Pasolini e l’Old Firm ne è la sua sublimazione, fin dalle origini nel lontano diciannovesimo secolo.  
I Gers sono la squadra della borghesia scozzese: ricca, protestante e unionista (favorevole a rimanere nel Regno Unito). I Bhoys figli degli immigrati irlandesi sfruttati nell’industria marittima: socialisti, cattolici e repubblicani. Per un secolo religione e politica in Scozia si sono identificate nelle bandiere biancoblu dei Rangers o in quelle biancoverdi dei Celtic, negli stadi come nelle strade di Glasgow. 
Per darvi un'idea di quanto sia alta la rivalità tra le due squadre basta un dato: nel dopoguerra solo cinque giocatori hanno vestito le maglie dell'una e dell'altra squadra. Alfie Conn (Rangers 1968–1974, Celtic 1977–1979), Mo Johnston (Celtic 1984–1987, Rangers 1989–1991), Kenny Miller (Rangers 2000–2001, Celtic 2006–2007, Rangers 2008–2011, Rangers 2014–oggi), Steven Pressley (Rangers 1990–1994, Celtic 2006–2008) e Mark Brown (Rangers 1999–2001, Celtic 2007–2010). Non chiedete loro dove si sono trovati meglio: non vi risponderanno.




Ecco le parole di Di Canio:
Da quel momento, la rivalità con i Rangers divenne ovvia, ma non avevo idea di cosa ci fosse in programma per me al mio primo Old Firm derby. Era il 28 Settembre 1996, stavamo per affrontare i Rangers a Ibrox e io stavo per entrare in un nuovo mondo. Non c’è niente di cosi. Io sono laziale e sono cresciuto respirando, mangiando e bevendo la nostra rivalità con la Roma. Ho sempre sinceramente pensato che il derby di Roma fosse la più grande partita della storia. Fu cosi finchè non andai al Celtic e non vissi in prima persona l’Old Firm derby. Potete prendere tutti i derby del mondo, metterli tutti insieme e ancora non raggiungereste un milionesimo dell’Old Firm. Lo stato d’animo era differente nel tunnel dei giocatori. Normalmente ci si stringe le mani, si fanno quattro chiacchiere, almeno si conosce il proprio avversario. Quel giorno, invece, nessuno disse una parola. Stavamo solo in piedi uno in fronte all’altro. Nessuno ringhiava, ma questo era l’andazzo. Eravamo come cani rabbiosi, che scrutano i propri antagonisti, pronti per essere liberati. Sul campo il rumore era quasi intollerabile. Conosco molti giocatori, soprattutto stranieri, che si potrebbero perdere nell’intensità e nell’ostilità che c’è in una partita del genere. Può intimidire, e non mi riferisco solo ai tifosi avversari. Guardi i tuoi tifosi e vedi la loro passione, la loro rabbia, le loro facce sconvolte dall’emozione e può fare paura. Ma non a me. La pressione era la mia linfa vitale. Mi cibavo di essa. Mi sentivo seriamente più forte, fisicamente e mentalmente, mentre sentivo i tifosi cantare. Mi sentivo come se li avessi potuti sentire individualmente, uno per uno, voci separate che si uniscono per incitarmi.”

“Non fu prima del 6 marzo, nei quarti di finale di coppa di Scozia, che provai la gioia di battere per la prima volta i Rangers. Il fatto che ciò avvenne a Celtic Park, lo rese ancora più dolce. Andammo avanti all’11 minuto con Malky Mackay e io raddopiai dal dischetto al 19′. Quando la palla toccò il fondo della rete, sentii 50.000 voci che cantavano il mio nome. Era irreale. Giocammo bene, creammo più occasioni e portammo a casa la vittoria. Alla fine, ogni volta che toccavamo il pallone, anche se si trattava solo di una rimessa in gioco, c’era un rumore fortissimo, sembrava che lo stadio tremasse. Era assordante, il rumore più forte che abbia mai sentito e ogni volta sembrava aumentare sempre di più. Quello è di gran lunga il ricordo più bello che ho dell’Old Firm.”

La squadra del Celtic attuale non è quella del '67, ma non è nemmeno quella del 2003. È una squadra che paga il gap fisiologico del calcio scozzese rispetto a quello dei grandi campionati europei e l'assenza di una competitività più profonda nel campionato nazionale.
L'allenatore è il norvegese Ronny Deila che dopo le vittorie in patria con lo Strømsgodset cerca di ripetersi in Scozia e, perchè no, di provare a mettere in mostra le proprie qualità. 
Dalla Norvegia e dal suo club precedente Delia ha portato con sè Stefan Johansen, uno dei volti più noti e più promettenti del Celtic. Nato come attaccante e schierato su una delle due fasce, fu l'allenatore Ronny Deila a trasformarlo in un centrocampista centrale, cambiandone la carriera da quella di un'anonima ala a quella di un centrocampista molto interessante.





Johansen è uno degli elementi di spicco di una squadra molto giovane e con ampi margini di crescita.
Insieme a lui, il giocatore simbolo è senza dubbio John Guidetti, arrivato a settembre del 2014 in prestito dal Manchester City. Guidetti, svedese come Larsson ma di evidenti origini italiane, ha avuto un ottimo impatto nonostante venisse da un periodo molto travagliato. John Guidetti è uno che dalla battaglia non si è mai tirato indietro ed oggi, con la maglia del Celtic, si sta togliendo diverse soddisfazioni. Le stesse soddisfazioni che la sfortuna ha provato a negargli a più riprese, soprattutto durante le due stagioni scorse, passate a lottare contro un maledetto virus intestinale che sembrava poterlo mandare per sempre lontano dai campi da calcio. Come tipologia di calciatore, sia fisicamente che tatticamente, ha numerosi tratti di somiglianza con il nostro Pellè e mi permetto di dire che anche essere sbocciati entrambi nell'Eredivisie rappresenta un dato che interpretato nel modo giusto può essere indicativo per analizzare il tipo di giocatore che è Guidetti. Tecnicamente Guidetti si discosta da Pellè ma rappresenta comunque la rivisitazione in chiave moderna e la rivalutazione del vecchio numero 9 classico. 






"Rivisitazione in chiave moderna e rivalutazione", un classico dalle parti di Parkhead. Ho sempre amato le atmosfere del calcio britannico e soprattutto l'atmosfera del Celtic Park proprio per quella sua delicatezza e quell'eleganza che conserva nonostante il rumore, nonostante il tifo sfrenato e viscerale. Anche una rissa tra giocatori o un brutto passaggio sbagliato o una papera di un portiere sarebbero "giustificati", avrebbero un significato diverso e sarebbero accompagnati da un'aura di raffinatezza quasi irreale. 
Ricordate la sceneggiata di Dida al Celtic Park? Riguardando quelle immagini a distanza di anni e nella cornice drammatica e commovente di quello stadio e di quei tifosi viene quasi da pensare che sia una scena di un film o di uno spettacolo teatrale e che la figura di quel portiere, che prima era diventato il portiere più forte al mondo e poi era tornato a commettere errori su errori con la stessa velocità (altissima) e con la stessa consapevolezza (nulla), diventa meno pesante. Nonostante il senso tragico del dramma che sta vivendo il personaggio Dida, il Celtic Park riesce a fargli mantenere una dignità residua che lo accompagna nonostante la comicità della sua azione.




Come se il Celtic e tutto quello che gira intorno a questa leggendaria squadra non avessero confini precisi e lineari ma invece quelle righe bianche e verdi riuscissero a inondare emozionalmente ed emotivamente tutto quello che trovano sulla propria strada circondandolo di un alone magico. Il Celtic riesce ad essere sempre il Celtic, riesce a rimanere fedele a quello che è e a quello che rappresenta. Anche il suo calcio. in un certo senso, rimane ancorato alle tradizioni e in alcuni aspetti è ancora molto simile a quel "calcio totale olandese ma a velocità doppia" proposto da Jock Stein e che stregò l'Europa e annichilì la Grande Inter, quel calcio che sfugge dai margini di quelle foto "seppiate" datate 1967 e arriva fino ad oggi attraverso gli occhi di chi c'era o attraverso le orecchie di chi ha sentito i racconti sui Leoni di Lisbona e che guardando il Celtic sfidare l'Inter sarà percorso un brivido lungo la schiena. Un brivido piccolo come Jimmy Johnstone, leggero come i suoi movimenti ma meraviglioso come i suoi dribbling.

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