giovedì 2 giugno 2016

Recap Finali Conference

Spunti di riflessione sul penultimo capitolo della stagione NBA.

di Michele Serra






Il penultimo atto della stagione NBA, le finali di Conference, si è concluso, decretando le vittorie di Cavs e Warriors. Vediamo dunque come le due squadre sono arrivate al capitolo conclusivo, partendo da quella che per prima si è guadagnata il pass per le Finals, Cleveland.


Ancora tu?
Ormai vedere LeBron alle Finali è diventata una consuetudine, essendo questa la sua sesta partecipazione consecutiva, prima volta negli ultimi 50 anni e primo non-Celtic a riuscirci, e nessuno si stupisce più. Rispetto allo scorso anno, la squadra di Tyronn Lue ha dovuto impiegare più tempo per sbarazzarsi della propria avversaria, con Toronto che ha posto più resistenza degli Hawks edizione ’14-’15 equilibrando la serie 2-2 dopo lo svantaggio iniziale di 2-0. Il colpo di coda dei Raptors è stato assolutamente da apprezzare e rappresenta la degna conclusione di una stagione oltre le aspettative, chiusasi con la prima finale di Conference della (breve) storia della franchigia, ma tifosi dei Cavs e non sapevano che la loro squadra fosse ben più equipaggiata dell’avversario dal punto di vista tecnico e mentale - a.k.a. esperienza - e le quattro vittorie di Cleveland ne hanno dato ampia dimostrazione, arrivate con un minimo di 18 e un massimo di 38 punti di scarto dopo un dominio su tutti i fronti abbastanza netto.

La differenza principale è sicuramente stata il tiro da 3, che Cleveland ha mandato a bersaglio con quasi il 39% di realizzazione e Toronto solo il 29%, con grande differenza in particolare tra vittorie e sconfitte (36% nelle W e solo 21% nelle L, con l’eccezione del 32% di gara 6, in cui però pesa molto il 6-12 di Lowry, l’ultimo ad arrendersi). Mentre in regular season i canadesi sono stati una delle migliori squadre per percentuale da 3, con il 37%, nelle finali di Conference hanno spesso sparacchiato dall’arco, non trovando credibili alternative a Lowry; Patrick Patterson, che ha iniziato la serie in quintetto salvo poi tornare a partire dalla panchina, ruolo che gli è più congeniale, ha tirato col 32% dalla lunga distanza ma con un inguardabile 17% quando lasciato libero di tirare - e cioè con almeno 1.80 m di spazio secondo i criteri di NBA.com - e tutti gli altri, da Joseph a Carroll, sono abbondantemente tutti sotto il 30%.

Dall’altra parte, la musica cambia drasticamente, vuoi per la qualità tecnica più elevata, vuoi per le soluzioni migliori trovate. Cleveland è una squadra che ama passarsi il pallone, e vi riesce ancora meglio con LeBron in cabina di regia, a svolgere il ruolo di facilitatore permettendo alle varie bocche da fuoco di disporsi lungo il campo per sfruttare i suoi assist (terzo in tutti i playoff per punti di squadra creati dai assist, con 18.9 di media: neanche a dirlo, Kyrie, Love e JR Smith i più serviti, ma è Channing Frye il più preciso a trasformare i suoi assist in canestri, con il 57% da tre. Ma su di lui torneremo tra poco).

LeBron ha dominato in vernice, segnando 14,3 punti di media ed evitando per quanto possibile di esporsi dalla media o da tre, visto che la stagione in corso è nettamente la sua peggiore. Per questo, Toronto si è organizzata di conseguenza dopo le prime due batoste.


Questa immagine tratta da gara 3 lo dimostra. LBJ in isolamento spalle a canestro contro Demarre Carroll che però viene mandato via da Biyombo, il quale si sistema con James in difesa per aumentare la pressione e costringerlo col fisico ad allontanarsi dall’area e a prendersi un jumper. Nelle ultime, decisive, due partite, comunque, il due volte campione NBA ha messo una pezza alle sue mancanze al tiro, finendo con 5-10 da oltre l’arco.

In generale, la difesa di Toronto è stata decisamente ondivaga, soprattutto nelle prime due partite, in cui i Cavs hanno potuto fare qualunque cosa dal p&r, non lesinando penetrazioni per via di un sistema di aiuti totalmente mancante, soprattutto quando Biyombo era in panchina.

In gara 3 e 4, perlomeno, hanno cambiato registro intasando l’area impedendo a LeBron di colpirli spalle a canestro e forzando Irving a batterli dalla lunga anziché in penetrazione. Mossa che ha decisamente pagato, visto che Cleveland, che nei playoff sta tirando con un fantastico 43.4% di squadra, nelle due sconfitte ha chiuso con un complessivo 27-82.


Qui sopra si vede chiaramente l’idea dei Raptors in difesa: area piena in stile CSI e closeout su chiunque, James a parte, che viene lasciato solo nell’angolo da Carroll per contestare il tiro a Kyrie che serve il 23 nell’angolo, completamente libero. Il tiro è a segno ma, come detto, non è stata certo una costante della serie per l’ex Heat.

Chi invece è stato una sentenza in questi playoff col suo tiro da tre è Channing Frye. Il veterano ex Suns e Magic è stato portato ai Cavs a stagione in corso, e nessuno si aspettava che potesse portare un contributo del genere, nonostante le sue qualità come stretch big fossero conosciute (ancorché appannate dopo la poco brillante parentesi a Orlando). In questa post-season, Frye è il migliore tra tutti i suoi compagni con almeno 14 minuti di media - cioè quelli stabilmente in rotazione - per % da 3, quasi 58, e da 2, 62. Ma anche per defensive rating, 98, e net rating, +17. È un’arma tattica di cui ormai Cleveland non può fare a meno per come tiene a bada le difese, spaventate dalla sua eccezionale mira da oltre l’arco, come vediamo in questi due esempi qui sotto.


In entrambi i casi abbiamo un p&r tra Delly e LeBron. Nel primo caso, Patterson si avvicina a James per chiudergli la strada verso il canestro, lasciando però il suo diretto marcatore - Frye - appunto - che colpisce da 3. Nel secondo caso, l’ex Kings e Rockets non si fida a difendere come in precedenza, lasciando strada libera a LeBron verso il canestro per la schiacciata. Arrivato in silenzio, Frye si è ora ritagliato un ruolo chiave in questi Cavs.

Parlando un attimo degli sconfitti, come già anticipato, è mancata un’alternativa al duo Lowry-DeRozan, che hanno cominciato i playoff decisamente a rilento salvo poi riprendersi, e alternare ottime prestazioni ad altre pessime. Nelle sconfitte, DDR ha quasi dimezzato i suoi punti (da 32 a 18,5), mentre anche peggio ha fatto Lowry, che è passato dai 27 punti delle vittorie con il 62% dal campo ai 16 delle sconfitte con il 38% al tiro. Più che lieta sorpresa è stato invece Bismarck Biyombo, che ha sostituito come meglio non poteva l’acciaccato Valanciunas, dominando sotto i tabelloni (10,3 rimbalzi di media, di cui quasi la metà contestati, 4,5) e concedendo il 50% dal campo al diretto marcatore (e neanche il 45 n tutti i playoff): non numeri da rim protector d’élite, ma il congolese è andato decisamente oltre le più rosee aspettative. Considerando il suo status da free agent e l’aumento del cap, le offerte in estate non gli mancheranno.

Complessivamente, Toronto può ritenersi molto soddisfatta della stagione e del cammino nei playoff. É vero che ci sono scelte da fare - lo stesso Biyombo, DeRozan - in termini di contratti da rinnovare, ma la squadra sembrerebbe essersi definitivamente scrollata di dosso l’etichetta di eterna incompiuta. Considerando l’età dei componenti principali del roster, potremmo rivederli su questi palcoscenici anche il prossimo anno e non solo.

Un altro capitolo
Quanto fatto dai Warriors in questa serie non è altro che l’ennesimo capitolo della storia della NBA scritta da questa squadra, la decima nella storia del gioco a rimontare uno svantaggio da 3-1 in una serie al meglio delle 7. Chiaramente, la vittoria in gara 6 ha certificato il ritorno in pompa magna della squadra di Kerr, di cui quasi tutti i componenti erano apparsi sottotono nelle partite precedenti, per demeriti propri ma, soprattutto, per i meriti di OKC. In realtà, la squadra di Billy Donovan ha giocato una serie magistrale, e anche negli ultimi due atti della stessa hanno messo in mostra un basket efficace, affidandosi al piano partita stabilito fin da gara 1. 

Quello che ha fatto la differenza nelle prime 4 gare (quelle in cui OKC sembrava aver messo una seria ipoteca sulla serie) è la difesa, sebbene i Thunder fossero 15esimi in stagione regolare per punti a partita concessi agli avversari. Nelle tre partite vinte, i Thunder hanno subito 100 punti a partita contro i 110 delle sconfitte, utilizzando la stessa tattica dei Warriors, i cambi sistematici, in maniera uguale e contraria. 

Come sappiamo, Golden State ha fatto dello small ball il suo credo, e ciò ritorna molto utile in particolare in difesa quando i cambi sui blocchi non portano alcun tipo di vantaggio all’avversario, che si trova di fronte giocatori in grado di marcare con successo tutti i ruoli. Anche i Thunder possiedono queste caratteristiche, ma in maniera differente, anche se con due lunghi di ruolo come Ibaka e Adams (il quintetto titolare dei Thunder è uno dei più alti e più pesanti della NBA). 

Fin dall’inizio, l’obiettivo di Donovan è stato quello di non concedere alcun vantaggio ai Warriors, in particolare bloccando il p&r tra Curry e Green, che dallo scorso anno ha effetti devastanti. Per questo sull’ex Michigan State è stato accoppiato spesso e volentieri Durant, in modo tale da averlo contro Curry nei cambi su blocchi: KD ha la stazza di un centro e l’agilità di una guardia, e per quasi tutta la serie è stata l’arma tattica in grado di limitare il duo Curry-Green. In stagione regolare, tra i giocatori con almeno 100 possessi in questa situazione, Curry è stato il migliore in NBA, con 1,11 punti per possesso, cifra che nei playoff è calata a 0,90, tra i giocatori con almeno 20 possessi. Determinanti sono stati anche Ibaka e Adams, che in genere rimanevano un passo indietro a Curry, pronti a contestargli il tiro (Curry ha subito due stoppate da Adams nella serie e 0 in regular season) evitando però di farsi battere dal palleggio. Qui sotto, un esempio della reattività della difesa di OKC, soprattutto in termini di aiuti e comunicazione (basta vedere l’aiuto di Durant per contestare la conclusione al ferro e la rotazione di Roberson pronto a negare un eventuale scarico a Barnes fuori dalla linea dei tre punti).


A proposito di Roberson, è stato un giocatore molto atteso alla vigilia, per capire quanto avrebbe tolto nella metà campo offensiva a quello che avrebbe dato nella propria. L’ex Università di Colorado ha subito, come prevedibile, il trattamento Tony Allen, ossia “marcato” da un lungo - il più delle volte Draymond Green - con l’obiettivo di sfidarlo al tiro e nel frattempo chiudere l’area in caso di penetrazione. Il risultato è che Roberson ha avuto un ottimo impatto come tagliante alle spalle del marcatore, situazione in cui si è trovato nel 21% dei casi finendo con 1,25 punti per possesso, ma anche e soprattutto a rimbalzo offensivo, una delle chiavi di lettura che ha permesso ad OKC di scavare il divario nella serie prima, e di mantenersi in vita poi. 

In realtà, anche il tiro è andato sorprendentemente bene, avendo convertito le triple con il 44% nella serie (contro il 37% nei playoff). Il 30% di questi tiri è arrivato con molto spazio (quelli che NBA.com definisce “open”), andati a bersaglio però con il 46%. I limiti sono comunque evidenti, tanto è vero che nel finale di gara 7, con la partita in bilico ma pendente dalla parte dei padroni di casa, Roberson ha rifiutato un tiro completamente aperto, scegliendo lo scarico per Waiters che se lo è dovuto prendere, contestato. Il timore di Roberson è comprensibile, ma è anche vero che quel tiro, in cima all’arco, è quello che il giocatore probabilmente sente meglio, avendolo mandato a segno nei playoff con il 75% - pur se con un sample size molto piccolo, di soli 8 tiri.

Di contro, la difesa è stata eccellente, avendo tenuto il diretto marcatore al 43% al tiro e al 32% scarso da 3 (senza contare tutti i tiri contestati che Thompson, suo riferimento principale, ha segnato).
Gli Warriors, invece, hanno dato un’ulteriore dimostrazione del proprio valore, dopo che in tanti erano già arrivati a chiedersi se le 73 vittorie non li avessero provati da un punto di vista fisico e mentale. Le vittorie di Golden State nella serie, gara due a parte, sono arrivate con fatica. In gara 6 e 7 abbiamo assistito allo show degli Splash Brothers abbattersi imponente contro dei Thunder che hanno affrontato la serie in maniera assolutamente preparata dal punto di vista tattico e mentale, ma quando davanti ti trovi la squadra più vincente di sempre in regular season, tutto quello che hai fatto bene potrebbe non bastarti. 

In gara 2 ci ha pensato Curry ad indirizzare la partita sui binari dei suoi con 17 punti nel solo terzo periodo, il suo quarto più prolifico in stagione per punti segnati di media, con due minuti di assoluta onnipotenza cestistica, in cui non c’è stato cambio o difensore che tenesse. Perché è vero che “la difesa vince le partite”, ma è anche vero che “grande attacco batte grande difesa”, e questo spiega come Thompson quasi da solo abbia vinto gara 6 (con 11 triple mandate a bersaglio, record all time nei playoff) e Curry gara 7. Seriamente, quando entrano tiri come questo, senza ritmo e ben oltre la linea da tre punti, puoi solo complimentarti.


I Thunder hanno sbagliato ben poco in questa serie, ma quando lo hanno fatto, ecco che i Warriors subito ne hanno approfittato. L’unico vero momento di smarrimento, a parte gara 2 che è stata un massacro, sono stati gli ultimi 5 minuti di gara 6, quando l’attacco Warriors ha segnato solo 19 punti contro i 5 degli avversari, e soprattutto non ha perso un solo pallone contro i 6 di OKC. 

In quei momenti si è visto il “bad Westbrook” quello che forza conclusioni e si butta a capofitto in area senza avere idea di cosa fare, vuoi per stanchezza, vuoi per la fretta di combinare qualcosa di buono, vuoi perché Russ è anche questo. Ma per gran parte della serie abbiamo visto un giocatore capace di mettersi la squadra sulle spalle quando c’era bisogno (quasi 9 liberi tentati a partita) pur coinvolgendo molto i compagni (25,6 i punti a partita creati da RW per gli altri nella serie), il tutto chiudendo con 26,7 punti, 7 rimbalzi e 11,3 assist di media, anche se con percentuali rivedibili (poco sotto il 40% dal campo e 31% da tre). 

Durant invece ha avuto l’attenuante di essere spesso marcato da quel fenomenale giocatore che è Andre Iguodala, che Kerr ha saggiamente inserito in quintetto ad inizio terzo quarto di gara 6 al posto di Harrison Barnes non togliendolo più. Guardando le percentuali concesse al suo avversario (50% dal campo e 46% da 3) non si ha l’idea dell’impatto avuto da Iguodala sull’attacco di OKC. 

Un paio di sequenze sono abbastanza esplicative, comunque, entrambe relative al finale di gara 6:


Certamente, la fatica ha giocato la sua parte, viste le rotazioni cortissime di Donovan: solo sei giocatori hanno avuto a disposizione almeno 28 minuti (il quintetto più il sorprendente Waiters), mentre tutti gli altri non più di 12 (Kanter è apparso in gara 1, salvo mostrare tutte le sue lacune difensive e venire panchinato per buona parte della serie; Foye e Morrow impalpabili). Ad ogni modo, i Thunder hanno giocato una serie encomiabile, come già detto, e per gran parte della stessa sono stati la squadra migliore. Durant ha detto però che “non esistono vittorie morali”. Opinione condivisibile, ma forse, contro questi Warriors, è l’unica cosa a cui gli avversari possono puntare. Adesso tocca ai Cavs dimostrare il contrario. 


Articolo a cura di Michele Serra

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