venerdì 24 giugno 2016

Il capolavoro di LeBron

James e i Cavs scrivono una leggendaria pagina delle Finali NBA.

di Michele Serra







Dopo l’incredibile serie tra Thunder e Warriors, decisamente i playoff NBA non hanno lesinato le sorprese, con la differenza però che, questa volta, sono stati i Golden State Warriors a trovarsi dalla parte sbagliata del miracolo. Prima squadra di sempre a perdere le Finals in vantaggio per 3-1, gli uomini di Steve Kerr hanno assistito da spettatori non paganti ad una delle pagine più leggendarie delle Finali NBA, starring LeBron James.

Due finali
A maggior ragione alla luce dell’ottimo basket espresso nei turni precedenti (ok, il livello era inferiore, ma tant’è), ha sicuramente fatto impressione il modo in cui i Cavs sono scesi in campo nelle prime due partite della serie, completamente disuniti e disorganizzati su entrambi i lati del campo, a livello individuale e di squadra. Nonostante gara 1 sia stata incerta fino a metà terzo quarto, Cleveland ha avuto molti passaggi a vuoto dal punto di vista difensivo e di comunicazione.

Qui vediamo un esempio da gara 1, in situazione di transizione per i Warriors. I Cavs seguono il movimento di Klay Thompson che, come suo solito, attira raddoppi e triple marcature, lasciando tutto solo Ezeli per la schiacciata.


Questo è un esempio estremo, dove ben quattro difensori non comunicano tra loro, ma ci sono tanti altri esempi più ordinari, dove Klay trae in inganno due giocatori permettendo il taglio di un compagno, come vediamo ad esempio qui sotto.


Oltre agli evidenti problemi nella propria metà campo, Cleveland ha dovuto fare in conti con difficoltà altrettanto palesi in quella di Golden State. I Cavs sono una squadra che tende ad affidarsi agli isolamenti, grazie al supremo talento di LeBron e Kyrie (13.8% è la frequenza con cui sono stati utilizzati gli iso da Cleveland in questi playoff). Anche OKC usava in gran parte lo stesso gioco - 13% di isolamento in post-season per loro - ma il loro gioco difensivo era molto più rigoroso. 

Nelle prime due partite, James ha fatto una fatica tremenda ad entrare in ritmo, a causa dei tanti tiri che non entravano e, forse, dell’eccessivo altruismo quando si trattava di mettere in moto i compagni. Il 23 spesso è stato usato come portatore di palla nei pick&roll, spesso coinvolgendo Irving come bloccante, in modo tale avere un mismatch contro Curry e, nel frattempo, tenere lontano da sé Iguodala, autore di un’altra magistrale prova difensiva contro di lui, dopo l’eccellente lavoro contro Durant (ha concesso il 46% dal campo al diretto marcatore, e il 39% da 3 punti). James, però, ha avuto grossi problemi grazie all’ottimo lavoro di altri giocatori, come Barnes o Thompson, a cui lo scorso anno aveva causato ben più di un grattacapo quando si trattava di difendere una penetrazione al ferro di LeBron. Come se non bastasse, il suo jumper, fallato da tutta la stagione, è stato abbondantemente concesso dagli avversari, comprensibilmente più preoccupati delle sue eventuali incursioni in area: il 21% dei suoi jumper sono definiti “open” secondo i criteri di NBA.com, e a ragione: James ha mandato a bersaglio solo il 25% di quelli.

Gara 3 ha sicuramente visto un’inversione di tendenza dal punto dell’aggressività difensiva e della comunicazione tra compagni, fondamentale se si vuole difendere in maniera competente. Molto ha fatto l’ingresso in lineup di Richard Jefferson, che ha giocato una serie difficilmente immaginabile soprattutto nella propria metà campo, vista l’assenza per infortunio di uno spento Love (8.5 punti di media nelle Finali con il 36% dal campo e un inguardabile 26% da 3). La presenza dell’ex Nets ha permesso a Cleveland di poter cambiare più agevolmente sui numerosi blocchi che caratterizzano i set offensivi de Dubs, come vediamo qui sotto.


A questo, va poi aggiunto il grande closeout di Tristan Thompson, che ha giocato diversi eccellenti possessi difensivi contenendo con il suo footwork anche le penetrazioni degli esterni, oltre, chiaramente, ad essere un fattore a rimbalzo, soprattutto offensivo (quasi 4 carambole offensive sulle 10 di media conquistate nelle Finali, con il 38% di rimbalzi contestati presi). Curry è stato al centro dei pensieri dei Cavs, che lo hanno attaccato senza sosta, provandolo molto anche nella propria metà campo. I Cavs hanno tirato con l 71% dal campo nel primo quarto indirizzando la partita verso il proprio binario, come fatto anche in gara 6.

Turning point
Gara 3 è stata la partita spartiacque della serie, prima della quale Cleveland è apparsa letteralmente irriconoscibile, davvero impreparata. Tanti errori difensivi e percentuali bassissime, con tutto il quintetto abbondantemente sotto il 50% dal campo.

Se però dovessimo identificare il vero turning point della serie, quello è arrivato in gara 4, quella del record di squadra stabilito dai Warriors per triple tentate (36) e segnate (17), e cioè la sospensione di Draymond Green. L’ennesima manata sotto la cintura, questa volta ai danni di James, è valsa all’ex Michigan State il quarto fallo tecnico dei playoff, il che corrisponde ad una squalifica di una partita, quella gara 5 vinta con un eroico sforzo da parte di James ed irving, autori di 41 punti a testa (prima volta che accade a livello di Finali con due compagni di squadra a rischio eliminazione). 

Lo stile di gioco offensivo non è cambiato (per dire, Golden State ha ancora una volta passato molto di più il pallone rispetto agli avversari, 296 passaggi totali contro 217). Quel che è cambiato rispetto alle partite precedenti - e che ha portato a farci pensare che fosse solo un exploit - è stata la facilità con cui James ha messo punti su punti grazie ai jumper, che chiaramente sono stati concessi più che volentieri dalla difesa: basti pensare che, nelle quattro partite precedenti, LeBron aveva segnato solo 23 tiri fuori dal pitturato, mentre nella sola gara 5 sono stati 20, come riporta ESPN Stats&Info. Sia i tiri definiti “open” che quelli “wide open” sono stati mandati a bersaglio da LeBron con il 50% dal campo: sarà l’ultima volta che i Warriors accetteranno di farsi battere così dall’ex Heat, i cui tiri aperti caleranno notevolmente, a favore di quelli contestati (13% contro 19%, rispettivamente). 

Per quanto riguarda Kyrie, beh, lasciamo che siano le immagini a parlare: il ragazzo da Duke, che lo scorso anno ha dovuto smaltire la delusione della sconfitta dal letto di ospedale dove recuperava dall’operazione al ginocchio, ha fatto capire perché grande attacco batte grande difesa, con una compilation di crossover, pullup e tiri contestati messi a segno come ben pochi sanno fare. E questa volta, nemmeno il talismano Iguodala ha funzionato (con lui titolare, i Warriors erano imbattuti negli ultimi due anni).


Ancora una volta, in gara 6 a fare la differenza è l’approccio iniziale alla partita, con Cleveland che chiude il primo tempo 31-11 (!), sfruttando i tanti errori al tiro degli ospiti e giocando bene e libera da condizionamenti mentali come mai era riuscita in questa serie. Gli Warriors hanno sbagliato l’impossibile, avendo chiuso con il 40% da 2 e il 38% da 3, frutto però di un’ottima partita di Curry, l’ultimo ad abbandonare la nave anche quando i buoi erano già abbondantemente scappati e il più continuo in attacco durante tutta la partita comunque tutt’altro che perfetta, viste le quattro palle perse (a fronte di un solo assist) e la sensazione che l’attacco dei Warriors fosse inceppato: merito spesso dell’eccellente difesa di Cleveland, che ha costretto gli avversari a tiri forzati e contestati. Non che quelli smarcati siano andati dentro con frequenza, anzi, visto che la percentuale di questi ultimi dice 48% (contro però il 33 dei tiri marcati). 

Draymond Green, complici i problemi alla schiena di Iguodala, è stato sulle piste di James per lunghi tratti di partita, finendo con la lingua per terra nella metà campo offensiva, mentre LeBron metteva a segno una linea statistica senza precedenti nella storia delle Finali: 41-8-11-4-3.

A proposito delle fatiche offensive dei Warriors, questo mi sembra il canestro più esemplificativo della serata (dei problemi al tiro, e del talento di Steph)


Nell’ultimo episodio della serie, entrambe le squadre hanno certamente risentito della fatica fisica e mentale, quella per una stagione di quasi 100 partite e delle aspettative dall’una e dall’altra parte: quella delle 73 vittorie e del primo titolo professionistico a Cleveland dal titolo NFL dei Browns nel 1964. La partita ha avuto un ritmo abbastanza lento (93 di pace), sicuramente più congeniale allo stile dei Cavs (proprio 93 di pace nei playoff), che a quello di GS (oltre 100), e negli ultimi minuti entrambe le squadre hanno fatto sciopero di canestri, finendo con un 1-17 complessivo. L’unico tiro mandato a bersaglio è stato quello, decisivo, di Kyrie Irving, dal palleggio con la mano di Curry in faccia, e che passerà alla storia come una delle icone di queste imprevedibili Finals.


Rigorosamente dietro la stoppata di LeBron sul tentativo di layup di Iguodala, LeBron che delle chasedown blocks è il precursore: un gesto tecnico e atletico fuori dalla norma, che può essere interpretato come la rappresentazione concreta di non voler lasciare andare via questo titolo che era perso, ed ora sembrava così vicino.


Ma come non parlare anche della splendida difesa di Love nel penultimo possesso di Golden State, in cui l’ex T’Wolves si è trovato sul cambio contro Curry, riuscendo a rimanere su di lui e contestandogli il tiro, altra azione chiave della partita.

Per quanto riguarda LeBron, chiude con quasi 30 punti, 9 assist e oltre 11 rimbalzi, più 2.6 rubate e 2.3 stoppate, finendo come primo giocatore di squadra in tutte queste categorie statistiche - nonché primo della storia a riuscirci. Se gli hater di LeBron avevano bisogno di qualcosa di grande per essere smentiti, lo hanno decisamente avuto.

Sulle gambe
Così come è stato per Cleveland lo scorso anno, è Golden State che deve leccarsi le ferite pensando agli infortuni patiti nel corso dei playoff, ben sapendo che nello sport è qualcosa con cui, volenti o nolenti, bisogna convivere. In gara 5 Bogut è stato costretto a dire addio al resto delle finali per colpa di un serio infortunio al ginocchio, anche se la sua performance fin lì è stata rivedibile, così come anche quella di Ezeli, detentore del peggior net rating dei suoi nelle 7 partite di finale (oltre il -19).

Kerr però non si è fatto scrupoli e, a differenza di quanto si è soliti fare nei playoff, accorciando le rotazioni, ha pescato a piene mani dalla sua panchina, finendo per dare minuti a James McAdoo, che si è visto raramente nei suoi due anni di militanza NBA, e anche Anderson Varejao, il grande ex, che comunque ha saputo dare una mano quando chiamato in causa, soprattutto coi rimbalzi offensivi, catturando il 16% di quelli disponibili, il migliore della squadra. Iguodala ha avuto problemi alla schiena nelle ultime due partite, Curry ha sicuramente risentito del problema al ginocchio e Green ha trovato il modo di consegnare l’inerzia ai Cavs con la sua stupida espulsione. 

L’attacco pian piano ha perso colpi, finendo col mettere a segno 97.3 punti di media su 100 possessi nelle ultime tre gare della serie (e con una percentuale da 3 non più alta del 38 in questo arco di tempo). Lo slump al tiro di Barnes ha poi reso le cose più difficili. Alla ricerca di un contratto più ricco in quanto free agent, Barnes si presenta ai nastri di partenza del mercato con il fardello di queste pessime Finals, in cui, nelle ultime 3 partite, ha tirato 5-32 dal campo, con 4-20 nei tiri non contestati, il che ha portato Cleveland a nascondere su di lui Tristan Thompson, per lasciargli spazio al tiro e intasare l’area (il famoso trattamento Tony Allen), risultato che ha decisamente pagato. In generale, Golden State è apparsa molto frettolosa nell’esecuzione offensiva, accontentandosi spesso di tiri da tre fuori ritmo e/o contestati e in molti frangenti poco attenta col pallone in mano, problema che i Cavs hanno limato con il passare della serie.

Quel che è certo è che la stagione storica degli Warriors non può essere sminuita né ridotta ad una partita persa, specie contro avversari di questo calibro. E se è vero che per vincere bisogna prima cadere, e tanti sono gli esempi a favore di questa tesi, questa sconfitta è bruciante abbastanza da essere la benzina che alimenterà il fuoco di Golden State nella prossima stagione. 


Articolo a cura di Michele Serra

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