di Michele Serra
Dopo l’incredibile serie tra Thunder e Warriors, decisamente i
playoff NBA non hanno lesinato le sorprese, con la differenza però che, questa
volta, sono stati i Golden State Warriors a trovarsi dalla parte sbagliata del
miracolo. Prima squadra di sempre a perdere le Finals in vantaggio per 3-1, gli
uomini di Steve Kerr hanno assistito da spettatori non paganti ad una delle
pagine più leggendarie delle Finali NBA, starring LeBron James.
Due finali
A maggior ragione alla luce dell’ottimo basket
espresso nei turni precedenti (ok, il livello era inferiore, ma tant’è), ha
sicuramente fatto impressione il modo in cui i Cavs sono scesi in campo nelle
prime due partite della serie, completamente disuniti e disorganizzati su
entrambi i lati del campo, a livello individuale e di squadra. Nonostante gara
1 sia stata incerta fino a metà terzo quarto, Cleveland ha avuto molti passaggi
a vuoto dal punto di vista difensivo e di comunicazione.
Qui vediamo un esempio da gara 1, in situazione di transizione per i
Warriors. I Cavs seguono il movimento di Klay Thompson che, come suo solito,
attira raddoppi e triple marcature, lasciando tutto solo Ezeli per la
schiacciata.
Questo è un esempio estremo, dove ben quattro difensori non
comunicano tra loro, ma ci sono tanti altri esempi più ordinari, dove Klay trae
in inganno due giocatori permettendo il taglio di un compagno, come vediamo ad
esempio qui sotto.
Oltre agli evidenti problemi nella propria metà campo, Cleveland ha
dovuto fare in conti con difficoltà altrettanto palesi in quella di Golden
State. I Cavs sono una squadra che tende ad affidarsi agli isolamenti, grazie
al supremo talento di LeBron e Kyrie (13.8% è la frequenza con cui sono stati
utilizzati gli iso da Cleveland in questi playoff). Anche OKC usava in gran
parte lo stesso gioco - 13% di isolamento in post-season per loro - ma il loro
gioco difensivo era molto più rigoroso.
Nelle prime due partite, James ha fatto
una fatica tremenda ad entrare in ritmo, a causa dei tanti tiri che non
entravano e, forse, dell’eccessivo altruismo quando si trattava di mettere in
moto i compagni. Il 23 spesso è stato usato come portatore di palla nei
pick&roll, spesso coinvolgendo Irving come bloccante, in modo tale avere un
mismatch contro Curry e, nel frattempo, tenere lontano da sé Iguodala, autore
di un’altra magistrale prova difensiva contro di lui, dopo l’eccellente lavoro
contro Durant (ha concesso il 46% dal campo al diretto marcatore, e il 39% da 3
punti). James, però, ha avuto grossi problemi grazie all’ottimo lavoro di altri
giocatori, come Barnes o Thompson, a cui lo scorso anno aveva causato ben più
di un grattacapo quando si trattava di difendere una penetrazione al ferro di
LeBron. Come se non bastasse, il suo jumper, fallato da tutta la stagione, è
stato abbondantemente concesso dagli avversari, comprensibilmente più
preoccupati delle sue eventuali incursioni in area: il 21% dei suoi jumper sono
definiti “open” secondo i criteri di NBA.com, e a ragione: James ha mandato a
bersaglio solo il 25% di quelli.
Gara 3 ha sicuramente visto un’inversione di tendenza dal punto
dell’aggressività difensiva e della comunicazione tra compagni, fondamentale se
si vuole difendere in maniera competente. Molto ha fatto l’ingresso in lineup
di Richard Jefferson, che ha giocato una serie difficilmente immaginabile
soprattutto nella propria metà campo, vista l’assenza per infortunio di uno
spento Love (8.5 punti di media nelle Finali con il 36% dal campo e un
inguardabile 26% da 3). La presenza dell’ex Nets ha permesso a Cleveland di
poter cambiare più agevolmente sui numerosi blocchi che caratterizzano i set
offensivi de Dubs, come vediamo qui sotto.
A questo, va poi aggiunto il grande closeout di Tristan Thompson,
che ha giocato diversi eccellenti possessi difensivi contenendo con il suo
footwork anche le penetrazioni degli esterni, oltre, chiaramente, ad essere un
fattore a rimbalzo, soprattutto offensivo (quasi 4 carambole offensive sulle 10
di media conquistate nelle Finali, con il 38% di rimbalzi contestati presi).
Curry è stato al centro dei pensieri dei Cavs, che lo hanno attaccato senza
sosta, provandolo molto anche nella propria metà campo. I Cavs hanno tirato con
l 71% dal campo nel primo quarto indirizzando la partita verso il proprio
binario, come fatto anche in gara 6.
Turning point
Gara 3 è stata la partita spartiacque della serie, prima della quale
Cleveland è apparsa letteralmente irriconoscibile, davvero impreparata. Tanti
errori difensivi e percentuali bassissime, con tutto il quintetto
abbondantemente sotto il 50% dal campo.
Se però dovessimo identificare il vero turning point della
serie, quello è arrivato in gara 4, quella del record di squadra stabilito dai
Warriors per triple tentate (36) e segnate (17), e cioè la sospensione di
Draymond Green. L’ennesima manata sotto la cintura, questa volta ai danni di
James, è valsa all’ex Michigan State il quarto fallo tecnico dei playoff, il
che corrisponde ad una squalifica di una partita, quella gara 5 vinta con un
eroico sforzo da parte di James ed irving, autori di 41 punti a testa (prima
volta che accade a livello di Finali con due compagni di squadra a rischio
eliminazione).
Lo stile di gioco offensivo non è cambiato (per dire, Golden
State ha ancora una volta passato molto di più il pallone rispetto agli
avversari, 296 passaggi totali contro 217). Quel che è cambiato rispetto alle
partite precedenti - e che ha portato a farci pensare che fosse solo un exploit - è stata la facilità con cui James ha messo punti su punti grazie ai jumper, che
chiaramente sono stati concessi più che volentieri dalla difesa: basti pensare
che, nelle quattro partite precedenti, LeBron aveva segnato solo 23 tiri fuori
dal pitturato, mentre nella sola gara 5 sono stati 20, come riporta ESPN
Stats&Info. Sia i tiri definiti “open” che quelli “wide open” sono stati
mandati a bersaglio da LeBron con il 50% dal campo: sarà l’ultima volta che i
Warriors accetteranno di farsi battere così dall’ex Heat, i cui tiri aperti
caleranno notevolmente, a favore di quelli contestati (13% contro 19%,
rispettivamente).
Per quanto riguarda Kyrie, beh, lasciamo che siano le
immagini a parlare: il ragazzo da Duke, che lo scorso anno ha dovuto smaltire
la delusione della sconfitta dal letto di ospedale dove recuperava
dall’operazione al ginocchio, ha fatto capire perché grande attacco batte
grande difesa, con una compilation di crossover, pullup e tiri contestati messi
a segno come ben pochi sanno fare. E questa volta, nemmeno il talismano
Iguodala ha funzionato (con lui titolare, i Warriors erano imbattuti negli
ultimi due anni).
Ancora una volta, in gara 6 a fare la differenza è l’approccio iniziale
alla partita, con Cleveland che chiude il primo tempo 31-11 (!), sfruttando i
tanti errori al tiro degli ospiti e giocando bene e libera da condizionamenti
mentali come mai era riuscita in questa serie. Gli Warriors hanno sbagliato
l’impossibile, avendo chiuso con il 40% da 2 e il 38% da 3, frutto però di
un’ottima partita di Curry, l’ultimo ad abbandonare la nave anche quando i buoi
erano già abbondantemente scappati e il più continuo in attacco durante tutta
la partita comunque tutt’altro che perfetta, viste le quattro palle perse (a
fronte di un solo assist) e la sensazione che l’attacco dei Warriors fosse
inceppato: merito spesso dell’eccellente difesa di Cleveland, che ha costretto
gli avversari a tiri forzati e contestati. Non che quelli smarcati siano andati
dentro con frequenza, anzi, visto che la percentuale di questi ultimi dice 48%
(contro però il 33 dei tiri marcati).
Draymond Green, complici i problemi alla
schiena di Iguodala, è stato sulle piste di James per lunghi tratti di partita,
finendo con la lingua per terra nella metà campo offensiva, mentre LeBron
metteva a segno una linea statistica senza precedenti nella storia delle
Finali: 41-8-11-4-3.
A proposito delle fatiche offensive dei Warriors, questo mi sembra
il canestro più esemplificativo della serata (dei problemi al tiro, e del
talento di Steph)
Nell’ultimo episodio della serie, entrambe le squadre hanno
certamente risentito della fatica fisica e mentale, quella per una stagione di
quasi 100 partite e delle aspettative dall’una e dall’altra parte: quella delle
73 vittorie e del primo titolo professionistico a Cleveland dal titolo NFL dei
Browns nel 1964. La partita ha avuto un ritmo abbastanza lento (93 di pace),
sicuramente più congeniale allo stile dei Cavs (proprio 93 di pace nei
playoff), che a quello di GS (oltre 100), e negli ultimi minuti entrambe le
squadre hanno fatto sciopero di canestri, finendo con un 1-17 complessivo.
L’unico tiro mandato a bersaglio è stato quello, decisivo, di Kyrie Irving, dal
palleggio con la mano di Curry in faccia, e che passerà alla storia come una
delle icone di queste imprevedibili Finals.
Rigorosamente dietro la stoppata di LeBron sul tentativo di layup di
Iguodala, LeBron che delle chasedown blocks è il precursore: un gesto
tecnico e atletico fuori dalla norma, che può essere interpretato come la
rappresentazione concreta di non voler lasciare andare via questo titolo che
era perso, ed ora sembrava così vicino.
Ma come non parlare anche della splendida difesa di Love nel
penultimo possesso di Golden State, in cui l’ex T’Wolves si è trovato sul
cambio contro Curry, riuscendo a rimanere su di lui e contestandogli il tiro,
altra azione chiave della partita.
Per quanto riguarda LeBron, chiude con quasi 30 punti, 9 assist e
oltre 11 rimbalzi, più 2.6 rubate e 2.3 stoppate, finendo come primo giocatore
di squadra in tutte queste categorie statistiche - nonché primo della storia a
riuscirci. Se gli hater di LeBron avevano bisogno di qualcosa di grande per
essere smentiti, lo hanno decisamente avuto.
Sulle gambe
Così come è
stato per Cleveland lo scorso anno, è Golden State che deve leccarsi le ferite
pensando agli infortuni patiti nel corso dei playoff, ben sapendo che nello
sport è qualcosa con cui, volenti o nolenti, bisogna convivere. In gara 5 Bogut
è stato costretto a dire addio al resto delle finali per colpa di un serio
infortunio al ginocchio, anche se la sua performance fin lì è stata rivedibile,
così come anche quella di Ezeli, detentore del peggior net rating dei suoi
nelle 7 partite di finale (oltre il -19).
Kerr però non si è fatto scrupoli e,
a differenza di quanto si è soliti fare nei playoff, accorciando le rotazioni,
ha pescato a piene mani dalla sua panchina, finendo per dare minuti a James
McAdoo, che si è visto raramente nei suoi due anni di militanza NBA, e anche
Anderson Varejao, il grande ex, che comunque ha saputo dare una mano quando
chiamato in causa, soprattutto coi rimbalzi offensivi, catturando il 16% di
quelli disponibili, il migliore della squadra. Iguodala ha avuto problemi alla
schiena nelle ultime due partite, Curry ha sicuramente risentito del problema
al ginocchio e Green ha trovato il modo di consegnare l’inerzia ai Cavs con la
sua stupida espulsione.
L’attacco pian piano ha perso colpi, finendo col
mettere a segno 97.3 punti di media su 100 possessi nelle ultime tre gare della
serie (e con una percentuale da 3 non più alta del 38 in questo arco di tempo).
Lo slump al tiro di Barnes ha poi reso le cose più difficili. Alla ricerca di un
contratto più ricco in quanto free agent, Barnes si presenta ai nastri di
partenza del mercato con il fardello di queste pessime Finals, in cui, nelle
ultime 3 partite, ha tirato 5-32 dal campo, con 4-20 nei tiri non contestati,
il che ha portato Cleveland a nascondere su di lui Tristan Thompson, per
lasciargli spazio al tiro e intasare l’area (il famoso trattamento Tony Allen),
risultato che ha decisamente pagato. In generale, Golden State è apparsa molto
frettolosa nell’esecuzione offensiva, accontentandosi spesso di tiri da tre
fuori ritmo e/o contestati e in molti frangenti poco attenta col pallone in
mano, problema che i Cavs hanno limato con il passare della serie.
Quel che è certo è che la stagione storica degli Warriors non può
essere sminuita né ridotta ad una partita persa, specie contro avversari di
questo calibro. E se è vero che per vincere bisogna prima cadere, e tanti sono
gli esempi a favore di questa tesi, questa sconfitta è bruciante abbastanza da
essere la benzina che alimenterà il fuoco di Golden State nella prossima
stagione.
Articolo a cura di Michele Serra
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