La morte di Bianchi: 20 anni dopo Senna, che cosa si è inceppato nel
meccanismo della sicurezza nella Formula 1?
di Federico Principi
di Federico Principi
"Ninetta
mia, crepare di maggio
ci vuole
tanto, troppo coraggio.
Ninetta
bella, diritto all'inferno,
avrei
preferito andarci in inverno"
Non è dato sapere se la fidanzata del compianto Jules Bianchi, la francese Camille Marchetti, abbia mai avuto modo di ascoltare "La guerra di Piero" di Fabrizio De André. O magari una versione tradotta nella lingua transalpina. Non farà molta fatica nel riconoscersi in quella "Ninetta" con la quale condivide lo stesso dolore, seppur maturato in modi e condizioni decisamente diverse.
Jules ci ha lasciati il
18 luglio del 2015, dopo l'orrendo schianto di Suzuka del 5 ottobre 2014. Ha
lasciato la sua famiglia, la sua ragazza, la Marussia che ancora oggi corre
grazie al suo nono posto a Montecarlo, l'orbita del team Ferrari. Sarebbe
potuto perire sul colpo, nel plumbeo e piovoso inverno giapponese, quando il
suo casco ha urtato quella specie di maledetto "bobcat" accorso nelle
vie di fuga del curvone "Dunlop" per raccattare la Sauber incidentata
di Sutil. Chissà, forse sia lui che i suoi familiari, amici, avrebbero
preferito così. Piuttosto che spirare a metà luglio, in una splendida e torrida
giornata estiva, nell'ospedale di Nizza, sarebbe stato meglio in un grigio e
tetro pomeriggio invernale giapponese. Come avrebbe voluto il soldato Piero.
La notizia del decesso
del giovane talento francese riporta alle cronache l'annoso dibattito sulla
sicurezza nella categoria più famosa dell'automobilismo. Frettolosamente e
forse crudelmente è stata attribuita la "colpa" al solo pilota da
parte dei vertici della FIA, memori delle migliori vicissitudini bibliche di
Ponzio Pilato. Analizzati i dati telemetrici sarebbe emerso che Bianchi non
avrebbe rallentato a sufficienza nel settore della curva "Dunlop" nel
quale vigeva regime di doppia bandiera gialla, che da regolamento impone ai
piloti di "rallentare
gradualmente ed essere pronti a deviare dalla traiettoria normale ed
eventualmente a fermarsi". La realtà è che il mondo intero ha puntato il
dito proprio nei confronti della commissione di sicurezza e di Charlie Whiting
in persona: la gara era iniziata troppo tardi per favorire l'audience mattutina
nei Paesi occidentali, nelle ultime tornate l'oscurità si faceva sentire. E a
ciò si aggiunge la maledetta Safety Car, tenuta nei box dopo il botto di Sutil,
lasciando intendere che i vertici della Formula 1 si sentissero protetti come
nell'utero materno nei confronti di possibili tragici scenari, non solo nella
specifica fattispecie di Suzuka ma un po' in generale. E vedremo perché.
Non è tuttavia possibile gettare ulteriore benzina sul
fuoco, giungendo alla conclusione che la fatalità occorsa al francese della
Marussia sia la prova di una sicurezza che in Formula 1 cammina al passo del
gambero. La cosiddetta "sicurezza passiva" è negli anni progredita in
maniera esponenziale, trasformando violenti e spettacolari botti in semplici
spaventi, con conseguenze fisiche ridotte al minimo se non nulle. In questo
processo evolutivo, grande ruolo ha purtroppo rivestito la duplice sciagura abbattutasi
su Ratzenberger e Senna durante il weekend di Imola nel 1994. Pochi ricordano
che nelle prove libere della successiva tappa a Montecarlo sarà anche il
talentuosissimo Karl Wendlinger a rischiare grosso: finito in coma dopo uno
spaventoso incidente all'uscita del tunnel, si salverà ma semplicemente non
sarà più quello di prima. Niki Lauda decide di averne abbastanza: prende in
mano la situazione dopo il monegasco incidente del giovane tedesco, annunciando
una dura battaglia per il miglioramento delle condizioni di sicurezza dei
piloti. Saranno modificati i caschi, realizzati in fibra di carbonio, kevlar e
polietilene, sottoposti a rigidissimi crash test dopo l'uccisione del grande
Ayrton causata da un braccetto della sospensione penetrato proprio all'interno
dell'indimenticabile casco verde-oro del campione brasiliano. E ancora nel 2003
saranno installati i "collari HANS" (Head And Neck Support),
destinati a proteggere il collo dei piloti di fronte a urti con forze G
decisamente rilevanti. Le cellule di sopravvivenza che circondano i piloti saranno
realizzate in fibre di carbonio sempre più leggere ma estremamente resistenti,
capaci di neutralizzare anche eventuali penetrazioni di detriti provenienti
dalla stessa ma anche da altre vetture. Le ruote verranno collegate attraverso
cavi che impediscono il loro distacco dal telaio nonostante ipotetici cedimenti
delle sospensioni, proteggendo piloti, commissari e spettatori da imprevedibili
(ed ora per fortuna difficilmente ipotizzabili) oggetti volanti impazziti. Con
il contemporaneo progressivo miglioramento delle vie di fuga e delle protezioni
a bordo pista, nessun pilota ha più subito il più tragico dei destini nei quali
ognuno di loro oggettivamente sa di poter incappare. Nessuno da Ayrton Senna,
per più di vent'anni. Fino a Jules Bianchi.
"L'incidente di Wendlinger e le contromisure annunciate da Niki Lauda e Max Mosley, allora presidente della FIA"
Non sono ovviamente
mancati episodi che hanno messo a dura prova questa sorta di immunità, della
quale sembrava potessero baldanzosamente fregiarsi le nuove generazioni di
piloti di Formula 1. Alcune fotografie sono tuttora stampate nelle pupille
degli appassionati, i più attempati dei quali (abituati in gioventù a ricevere
notizie tragiche dai circuiti) saranno sicuramente rimasti più scioccati
rispetto ad un pubblico più giovane, cresciuto in una bolla di vetro. Tanto
nell'impatto di Michael Schumacher contro le barriere di pneumatici all'esterno della "Stowe" (Silverstone 1999), quanto nel meno famoso
ma perfino più pericoloso incidente di McNish contro il guard-rail all'uscita
della velocissima "130R" durante le qualifiche di Suzuka 2002. Fino
ad arrivare al più celebre, simbolico, episodio che ammutolì l'intero paddock
del Gran Premio di Montreal nel 2007. Kubica a 300 all'ora sul muro prima del
tornantino: vettura disintegrata, piedi che si intravedono nella parte
anteriore dell'abitacolo. Prognosi: leggera distorsione alla caviglia ed una
settimana di stop precauzionale. Tredici anni dopo Ratzenberger e Senna il
mondo della Formula 1 poté felicemente constatare sul campo gli step effettuati
e positivamente riusciti. Del fatto che poi al posto di Kubica ad Indianapolis
sette giorni più tardi si sia seduto il debuttante Vettel (subito a punti)
potremmo parlarne in un altro articolo...
"Spaventoso botto di Robert Kubica a Montreal"
Si diceva
dell'irrobustimento dei caschi e del collegamento delle ruote alla scocca
attraverso cavi pressoché impossibili da disarcionare. Due episodi potremmo
citare a riguardo rispettivamente, che hanno visto coinvolti piloti per anni
sotto l'ala protettiva degli appassionati della Ferrari. Felipe Massa,
brasiliano come Ayrton Senna, ha corso un rischio non molto dissimile ma per
sua fortuna con quindici anni di ritardo e di ulteriore sviluppo nella ricerca
sulle protezioni per la testa. Un braccetto della sospensione aveva perforato
il casco ed ucciso Ayrton, una molla sganciatasi dalla Brawn GP di un
incolpevole Barrichello, e danzante lungo la discesa del rettilineo successivo
alla "curva 3" del circuito di Budapest, ha colpito in pieno la zona
limitrofa all'occhio sinistro di Felipe. Fortuna volle che Massa,
immediatamente privo di conoscenza, irrigidisse entrambe le gambe, premendo con
grande forza contemporaneamente sia freno che acceleratore e provocando una
sorta di "effetto ABS" che rallentò decisamente il suo successivo
impatto con le protezioni. Immaginando un suo stile di guida con entrambi i
pedali sotto il comando del piede destro, quest'ultimo (in quel momento
impegnato sull'acceleratore, perché in rettilineo) avrebbe notevolmente alzato
la velocità dell'impatto con le barriere di un Massa incosciente, e quindi
incapace di frenare. Con conseguenze potenzialmente devastanti.
"Si vedono le luci rossa del freno e verde dell'acceleratore completamente accese: Massa ha disteso entrambe le gambe inconsapevolmente. Questo movimento in stato di incoscienza gli ha probabilmente salvato la vita"
Meno celebre dal punto
di vista della sicurezza, decisamente di più sotto il profilo sportivo, il
disarcionamento della ruota anteriore destra nella McLaren di Kimi Raikkonen,
al comando della corsa, nella prima curva dell'ultimo giro al Nürburgring nel
2005. Il Mondiale che sarà ricordato per il primo storico successo di Alonso
con la sua Renault, ma che mille sfortune riservò al finlandese ora in Ferrari.
Tra frequenti sostituzioni di un propulsore Mercedes decisamente inaffidabile,
con continue penalizzazioni di dieci posizioni sulla griglia di partenza,
Raikkonen non si fece mancare neanche questo episodio. Causato da un gigantesco
spiattellamento (flatspot) dello pneumatico anteriore destro in una stagione
dove i cambi-gomme erano da regolamento vietati, con le eccezioni delle
forature e dei cambiamenti climatici. Non pochi in quell'occasione avranno
tuttavia notato, oltre al rischio di speronare la BAR di Button sventato per
pochi centimetri, proprio la ruota anteriore destra danzare con grande
insistenza intorno alla testa dello stesso Raikkonen. Saranno proprio quei cavi
di cui abbiamo parlato in precedenza ad impedire un possibile urto tra
pneumatico e casco, che a una velocità che anche in questo caso si aggira
intorno ai 300 km/h sarebbe stato decisamente rischioso per l'incolumità del
pilota.
"La ruota divelta gli fa perdere la gara ma non l'integrità fisica"
Ci siamo fin qui
soffermati sui miglioramenti effettuati nell'ambito della cosiddetta
"sicurezza passiva", la cui definizione generale ci dice che si
tratta di dispositivi che hanno lo scopo di diminuire le conseguenze di un
incidente. Ma come è coordinata la struttura dei commissari che in ogni
appuntamento (ma anche nei test, inesistente invece ai tempi del fatale errore
del povero De Angelis nel 1986) garantiscono la "sicurezza attiva"?
Purtroppo il circus
della Formula 1 non ha un'equipe fissa di commissari di sicurezza che segue il
carrozzone di Ecclestone per tutto l'arco del Campionato Mondiale. In molti
hanno invocato proprio questa soluzione, magari ingaggiando una schiera fissa
di professionisti: problemi di costi, risponderebbe sicuramente qualcuno dai
piani alti. Taccagno. Perché quando si tratta di sicurezza si è sempre pronti a
riempirsi la bocca di magniloquenti parole, però a volte i quattrini sono
destinati diversamente. Christian, commissario di Monza ospitato sul blog "Profondo Rosso" di Leo
Turrini, ci dice che "buona parte del personale a bordo pista è volontario". Non solo, aggiungendo che
"noi a Monza ci alleniamo con le
gare extra-F1, durante l'anno siamo impegnati in pista con almeno altri 6-7
weekend di gare. Non so come si allenino in Giappone, dove comunque esistono
campionati professionistici locali, ma ho il terrore a pensare alla
preparazione in altre Nazioni dove non c'è cultura di motorsport".
Analizzando quindi l'incidente di Bianchi, la procedura
effettuata non sembrerebbe essere differente da quella che ci racconta proprio
Christian in occasione dell'ultima edizione del Gran Premio di Monza: "Durante il GP d'Italia l'ho fatto
insieme ai miei compagni di postazione in seconda variante per rimuovere la
Marussia di Chilton. Pannello giallo acceso ai 300 metri e poi doppia gialla
alla staccata della Roggia, noi con un trattore e una macchina appesa a bordo
pista.". Come per Jules Bianchi, né più né meno. La grande differenza
sta però nel fatto che la gara di Suzuka si è interamente svolta sotto l'acqua,
e che negli ultimi giri la pioggia stava aumentando tanto da costringere tutti
i piloti a fermarsi per sostituire le gomme intermedie con le "wet". E
poi c'è l'orario di partenza: in Italia i semafori rossi sono stati spenti alle
ore 8, le 15 del Giappone, salvo poi fermarsi ed aspettare per lungo tempo che
l'intensità della pioggia calasse, prima di ripartire di nuovo con la Safety
Car. Il risultato è che, come affermato praticamente all'unanimità dai piloti,
negli ultimi giri la visibilità era scarsissima e la pista molto difficile da
percorrere, per via anche del diluvio che stava progressivamente aumentando.
Conclusione del ragionamento: la direzione di gara e Charlie Whiting in persona
avrebbero dovuto far uscire dai box la Safety Car dopo l'incidente di Sutil.
Non serve dunque uno scienziato per capire che, più che
da incidenti "normali", nei quali i piloti sono ormai immuni da
conseguenze (escludendo i casi simili a Raikkonen-Alonso nello scorso GP di
Austria dove il finlandese se l'è probabilmente fatta sotto e non poco,
vedendosi la McLaren dello spagnolo salita letteralmente sopra la propria
Ferrari a pochi centimetri dal proprio corpo), i maggiori rischi provengano
ormai da episodi analoghi al clamoroso infortunio occorso a Bianchi, nei quali
è proprio il sistema dei commissari e della direzione gara a non essere ben
coordinato.
È dunque ovvio, aggiungendo una nota polemica, che solo
di fronte ad un episodio scioccante o ad una morte emergono le leggerezze
compiute da chi non potrebbe permettersele. Come accadde per esempio nel Gran
Premio del Brasile del 2003, nel quale assistemmo a scene piuttosto simili a
quelle di Suzuka: Michael Schumacher a muro, non molto lontano da una gru che
stava togliendo dalla via di fuga le vetture di Montoya e Pizzonia, incidentate
nella stessa curva. Il tutto ovviamente in mancanza di regime di Safety Car.
Non troppo diverso il copione al Nürburgring nel 2007, con la vettura di
sicurezza chiamata prima dell'ingresso della gru ma molto in ritardo rispetto
all'uscita di pista di ben cinque vetture una in fila all'altra nel primo
tornantino, allagato. Poteva finire diversamente.
"Dal minuto 11:25 (qui) in poi si può constatare come Schumi sia andato vicino a generare, involontariamente, un disastro"
Così come l'episodio avvenuto al Gran Premio di Corea
del 2013, con la Jeep dei pompieri entrata in pista in pieno rettilineo prima
della Safety Car (chiamata solo di fronte all'evidente imbarazzante malinteso)
dimostra esattamente che il timore del commissario Christian sia tutto fuorché
infondato. L'episodio fu forse decisivo (nel dubbio) per la cancellazione del
(brutto) circuito asiatico, ma non fu mai sufficientemente sbandierato,
archiviato anzi quasi con una risata. Difficile immaginare cosa sarebbe potuto
succedere se Vettel si fosse ritrovato davanti la Jeep a pochi metri anziché a
metà rettilineo: le vetture erano appena uscite da una finestra di Safety Car
ed erano incolonnate. Se ci fosse stato un "effetto domino" le
conseguenze avrebbero potuto essere estremamente pesanti.
"La Jeep attraversa clamorosamente la pista"
Già prima del botto di Bianchi, nel 2014 in almeno un paio di circostanze Charlie Whiting aveva mostrato i muscoli, ritenendo superfluo l'ingresso della Mercedes di sicurezza di fronte a fattispecie che francamente hanno suscitato non poche perplessità. A Hockenheim delirio di onnipotenza, quando i commissari sono stati costretti a spostare a mano, attraversando la pista, la vettura di Sutil (ancora), seppur fuori traiettoria ma decisamente in mezzo al tracciato, all'uscita dell'ultima curva. E ovviamente hanno dovuto farlo in semplice regime di bandiere gialle, senza Safety Car. In Belgio Hamilton, dopo la celebre foratura causata dal compagno-rivale, riempie di pezzi di carcassa di pneumatico il rettilineo in prossimità del velocissimo curvone Blanchimont. Ancora una volta i commissari, passata l'intera carovana di vetture, saranno costretti a sgomberare la pista in condizioni pericolose. Ciò non impedirà a Rosberg di farsi buona parte della prima metà di gara con un lungo pezzo attaccato all'antenna della telemetria, che poteva tranquillamente toccare con le mani e quindi decisamente fastidioso per la guida, e a Felipe Massa di raccoglierne uno che danneggerà irrimediabilmente il fondo della sua Williams e conseguentemente la sua gara. "Mi hanno tolto quel pezzo al secondo pit stop, e da lì in poi il mio ritmo è migliorato di circa due secondi al giro, ma la gara era già compromessa" dirà il brasiliano al termine della corsa.
Come in seguito ai fatali avvenimenti del weekend di
Imola 1994, la Formula 1 ha nuovamente fatto tesoro dell'esperienza purtroppo
accaduta. Ha fatto quasi tenerezza vedere la bandiera rossa sventolata nelle
libere di Sochi, una settimana dopo il fattaccio del pilota della Marussia, per
un banalissimo stop di Ricciardo lungo la pista causato da un semplice guasto
meccanico. È forse anche "grazie" al botto di Bianchi se Vettel con
la Ferrari ha interrotto un dominio Mercedes vincendo in Malesia in questa
stagione: l'uscita di pista di Ericsson ha costretto la gru a fare il suo
ingresso nella via di fuga e, pur essendo essa amplissima, Charlie Whiting non
se l'è sentita stavolta di lasciare la Safety Car ai box. Con Hamilton e
Rosberg a rifornire e Vettel rimasto in pista, il tedesco della rossa ha potuto
scavare un gap impossibile da colmare per i presuntuosi argentati.
Nell'ultima gara di Silverstone abbiamo finalmente
visto la cosiddetta "virtual Safety Car", una sorta di "slow
zone" di stampo Le Mans, ma presente in tutto il circuito. I piloti
rallentano rispettando un tempo, molto alto, tale da toglierli da possibili
situazioni pericolose e contemporaneamente lasciare i distacchi invariati,
differentemente dalla Safety reale. Sistema collaudato in maniera perfino più
efficace nella GP2, la Serie B della Formula 1, nella quale i piloti attivano obbligatoriamente
un limitatore di 80 km/h lungo il tracciato normale: auspicabile trapiantare
questa soluzione anche nella massima categoria.
Ma tutto ciò non sarà sufficiente a ridarci indietro
un'altra vittima del tritacarne del motorsport. Un talento di guida che sarebbe
verosimilmente approdato in Ferrari: probabilmente più valido di un insipido
Bottas, o di un demotivato Raikkonen, e di cui stiamo invece celebrando il
funerale.
Articolo a cura di Federico Principi
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