di Samuele Prosino
C'è qualcosa di magico che aleggia attorno ai pluricampioni della F1. I loro nomi rimangono scolpiti nell'immaginario collettivo come se fossero dei faraoni, adorati dai tifosi come santini del proprio credo motoristico. Il miglior esempio è, ovviamente, Senna. Su di lui milioni di parole sono state pronunciate e scritte, prima del successo, durante le vittorie, dopo la morte. Chi lo ha vissuto celebra i momenti passati in circuito, ad ammirarne le incredibili doti; chi ne ha sentito parlare va su Youtube a gustarsi scodate, giri veloci e sorpassi, capendo con sapore postumo ciò che aveva rappresentato.
Come Senna, il più magico per antonomasia, anche gli altri grandi portano nella loro scia racconti che nessuno sembra negare. Fangio fu l'eroe capace di staccare gli avversari per sfinimento; Brabham fece scacco matto alle vetture a motore anteriore cancellandole per sempre dalla storia della Formula 1; Clark diede una nuova definizione al concetto di velocità pura.
E poi: Lauda introdusse il concetto di perfezionismo; Stewart incarnò lo spirito del coraggio in un'epoca di tragedie e di imprese epiche; Piquet fu il signore dell'opportunismo, in cerca dell'agguato migliore; Prost mise a frutto la sua grande intelligenza tattica talvolta trasferendola sul piano politico – ne furono testimoni Balestre e Senna, ricordate?
E ancora: il più titolato di tutti, Michael Schumacher, simbolo della pianificazione, con le sue squadre pronte a dare tutto per il suo dominio, e lui fisicamente e tatticamente pronto per ogni confronto; Sebastian Vettel, l'ex giovane prodigio e primo paladino arrivato dagli Junior Team, maestro del ritmo gara e degno successore del Kaiser di Kerpen in quanto a concentrazione e aggressività.
A parte Vettel, tutti i piloti citati sono già stati santificati nell'Olimpo del Motorsport. L'attuale numero 5 della Ferrari è una proposta recente, che ancora deve scrollarsi di dosso anni di ingiuste accuse verso il destriero che lo accompagnava, quella Red Bull di Adrian Newey capace di ammaestrare e rendere armoniosa ogni curva del Mondiale.
Ora, con il terzo titolo conquistato – in anticipo, ad Austin – anche Lewis Hamilton avrà il diritto di entrare nella cerchia degli insuperabili. Hamilton, oltre ad avere – come Vettel – alcune caratteristiche riscontrabili anche negli altri plurititolati colleghi, possiede una dote personale molto forte: la grinta allo stato puro. Raramente si sono visti piloti di Formula 1 aggredire la corsa come Lewis. Il suo istinto è famelico e la voglia di diventare il più grande lo porta a mostrare gli artigli ai record del suo idolo incontrastato Ayrton Senna. Tutte quelle pole position non sono un vezzo qualunque e, segretamente, Lewis vuole raggiungere il mito.
Purtroppo la grandezza del pilota inglese di origini caraibiche non è universalmente riconosciuta. In Italia, ad esempio, pochi si rendono conto di quanto il talento di Hamilton sia assolutamente straordinario. Sostanzialmente per due motivi.
Il primo, più relativo alle vicende sportive, riguarda la sua lontananza verso la Ferrari. Da quando è approdato in F1, nel 2007, Hamilton è sempre stato un avversario della Rossa. A differenza di Vettel, Lewis non ha mai manifestato il desiderio di approdare a Maranello, venendo per altro ricambiato con la stessa indifferente moneta. Inoltre il suo dominio a bordo della Mercedes viene salutato – come spesso accade – come un successo più di vettura che di pilota. Dimenticando però che esiste anche un compagno di squadra da battere, cioè il veloce ma impreciso Nico Rosberg.
Il secondo motivo è – mi duole dirlo in questo modo così terra terra – il razzismo. Hamilton è di origini caraibiche e questo ha sempre generato tra la bassa marea di ferraristi (intendiamoci, non tutti) un sentimento velatamente xenofobo. Un problema, questo, condiviso anche con gli spagnoli – vedasi alcuni Alonsisti rimasti scottati dal 2007 – che gli riservarono bordate di fischi e di striscioni accusatori durante i primi anni di carriera.
Un altro razzismo di stampo globale, stavolta riguardante la sfera comportamentale, viene tirato fuori tutte le volte che Lewis svolge attività ludiche di diverso genere. Viene definito “tamarro” e “festaiolo”, ma la sua vita privata non sembra abbia nulla di particolarmente differente rispetto alle vite dei suoi coetanei. La sua esposizione mediatica dimostra più che altro che la personalità di Lewis è unica nel suo genere, e quindi da apprezzare in un'epoca storica nella quale esperti e commentatori lamentano una mancanza di personaggi.
Lewis Hamilton – come pilota
La grandezza di Hamilton non è nei titoli conquistati con la Mercedes, anche se le cifre sembrano dimostrarlo. Lewis è stato rivalutato da molti critici soprattutto per alcune gare disputate quando non aveva la vettura migliore. Il termine “campione” viene scomodato non solo quando qualcuno vince una coppa, ma anche quando vengono mostrate delle stupefacenti doti in assenza della vittoria finale.
Cominciamo con la comparazione rispetto ai suoi compagni di squadra. Hamilton, avendo corso per due scuderie blasonate, ha avuto in casa propria delle ottime pietre di paragone. Il dato che salta all'occhio è che Lewis ha praticamente sempre vinto il confronto interno.
Solo nel 2011 Hamilton ha concluso la stagione da numero 2, per via della maggior presenza sul podio di Jenson Button. Anche se, a guardare bene, i due alfieri della Mclaren dell'epoca si equivalsero per tutta la stagione. Oltre allo stesso Button, Hamilton ha messo alle sue spalle Alonso, Kovalainen e Rosberg – tutti piloti con un discreto pedigree.
Alonso – con due titoli all'attivo – è il pilota più vincente con il quale Hamilton si è misurato. Nel 2007, anno più travagliato della storia della Mclaren per via della Spy Story, i due piloti si beccarono per tutta la stagione arrivando anche a ostacolarsi direttamente ai box e in pista. Persero poi entrambi il mondiale per un soffio, grazie all'impresa finale a Interlagos di Kimi Raikkonen. Aver battuto Alonso, reduce da due mondiali conquistati con la Renault, con la qualifica di rookie rese Hamilton orgoglioso del proprio debutto e ancora più convinto dei propri mezzi. Infatti l'anno dopo vinse il titolo, seppur in un finale da infarto con il celebre sorpasso a Glock e la festa bruscamente interrotta al box Ferrari, svegliati dal sogno del Mondiale con Felipe Massa.
Lewis Hamilton, nonostante non abbia talvolta guidato delle auto di primissima fascia, ha ogni anno conquistato almeno una vittoria. Nel 2013, ad esempio, ha trionfato in Ungheria – oltre ad aver siglato cinque pole position. A quell'epoca la Mercedes era ancora una “bella di sabato”, cioè efficientissima nel giro secco ma tremendamente incostante nel passo gara. Rosberg quell'anno vinse una gara in più ma concluse comunque dietro in classifica, mentre Lewis metteva in pratica un difficile processo di distaccamento dalla mamma Mclaren, lasciata a fine 2012 per cercare una nuova competitività e un nuovo ambiente.
Che dire, invece, del 2009? Dopo una prima parte di stagione incredibilmente deludente, con la Mclaren completamente azzoppata dai nuovi regolamenti, Hamilton tirò fuori dal cilindro due prestazioni monstre in Ungheria e a Singapore. Gare guidate in testa praticamente dall'inizio alla fine, a dimostrazione della presenza di spirito in un campionato dove sarebbe stato facile perdere la motivazione.
La motivazione è infatti una componente fondamentale per Lewis Hamilton.
Anche senza essere in lizza per il Mondiale, il pilota inglese vuole sempre dare spettacolo e migliorare le proprie statistiche. Ma l'incantesimo non sempre riesce, e allora ecco uscire allo scoperto un difetto purtroppo comune tra chi punta solo alla vittoria e quasi mai si mette a fare i calcoli: l'insoddisfazione verso “il piazzamento”. Hamilton diventa famelico quando sente l'odore del primo posto, ma se invece si ritrova a combattere per un 4° o per un 7° allora gli manca il colpo da knockout.
A volte questa famelicità lo ha portato a compiere degli errori clamorosi, come nel caso del ritiro in Cina nel 2007: per guadagnare un decimo o due in corsia box, gli fece perdere il mondiale; mentre invece il crash di Monza 2009 arrivò dopo un velleitario tentativo di rimonta verso il secondo posto.
Nel corso della carriera Hamilton ha dovuto combattere contro una credenza popolare fastidiosa che gli attribuiva una certa mancanza di rispetto verso la parte meccanica delle monoposto da lui guidate. A inizio carriera la gestione delle gomme era un punto a rischio nelle sue performance, visto il suo stile di guida tutto all'attacco. Con il passare degli anni Hamilton ha dimostrato ampiamente di saper gestire gli pneumatici, risultando anche meno falloso su altre componenti come freni e cambio.
Le bloccate sull'anteriore in inserimento curva sono diminuite rispetto agli anni in Mclaren, da un lato per la maggior esperienza, dall'altro per le straordinarie qualità della Mercedes.
Sull'aggressività di Hamilton rispetto a compagni di squadra e avversari sono state scritte molte pagine di analisi. Anche nel 2015 ha talvolta mostrato i muscoli verso Nico Rosberg, costringendolo ad alzare il piede anche con un ampio vantaggio in classifica (gli episodi di Suzuka e di Austin sono i più lampanti).
Quest'arma è di natura psicologica e tanti campioni – di tutti gli sport – l'hanno utilizzata in passato per imporre la propria supremazia. Come le grandi star introdotte a inizio articolo, anche Hamilton è molto bravo a trovare l'occasione per i sorpassi e dannatamente coriaceo nel cercare di evitarli.
Non va dimenticato, in conclusione, che i colleghi lo hanno sempre considerato un talento assolutamente cristallino, con il rispetto guadagnato non solo con le vittorie ma anche con una crescita sostanziale dal punto di vista della correttezza in pista.
Lewis Hamilton – come personaggio
Dream no small dreams for they have no power to move hearts... If I can do it, so can you.
#GodBless #TeamLH pic.twitter.com/i4xMTDPcJv
— Lewis Hamilton (@LewisHamilton) 28 Ottobre 2015
Cominciamo con questo: se chiedessimo a un matematico di conteggiare il numero di separazioni e di ricongiungimenti con Nicole Scherzinger, probabilmente andrebbe fuori di testa. La vita fuori dalle piste, per Lewis Hamilton, è sempre stata borderline.
Tralasciando gli anni in F3 e GP2 e il primo anno in Mclaren, nei quali fecero più notizia i risultati in pista, con una dimostrazione di professionalità e di aziendalismo impeccabili, Hamilton ha sempre regalato titoli ai giornali.
Il suo primo contratto con Mclaren arrivò nel 1998, tre anni dopo il suo approccio un po' sbruffone a Ron Dennis.
Chissà cosa pensò per davvero il burbero Ron quando vide questo ragazzino di appena dieci anni capace di dirgli con sicurezza “che un giorno avrebbe voluto correre per lui”. La storia dice che furono piuttosto le ripetute vittorie nei kart a convincere il patron della Mclaren a tenerlo in considerazione, istituendo per lui un percorso formativo continuo e paziente. Certamente Lewis fu spinto in questa direzione anche dall'ambizioso papà Anthony, suo manager fino ai flirt del figlio con il mondo della musica e dell'intrattenimento (vedasi Simon Fuller).
Music brings me such peace. I love playing the piano. #Miami #IloveMusic pic.twitter.com/8Dwx3GqjWV
— Lewis Hamilton (@LewisHamilton) 17 Ottobre 2015
Verso la fine del 2007 Lewis Hamilton cominciò a uscire con l'allora cantante delle Pussycat Dolls Nicole Scherzinger. Nicole diventò immediatamente una delle presenze extra-sportive più inquadrate della F1. Sembrava la coppia perfetta: Lewis grande protagonista in pista e Nicole in ascesa nel mondo della musica. A ogni sorpasso in pista si vedevano salti, applausi, vere e proprie manifestazioni di gioia. Un amore vero, insomma.
Poi, però, qualcosa si ruppe. Una vita troppo in viaggio per entrambi, la mancanza di una stabilità caratteriale per due persone diventate star davvero presto in relazione all'età, la pressione mediatica crescente: queste le motivazioni ufficiali per la rottura definitiva, a febbraio del 2015. Noi non sapremo mai come è andata veramente. Sembra che sia stata Nicole a rimanerci più male, mentre Lewis inaugurava uno stile di vita nuovo e più simile a quello di certi piloti anni '70.
Unico punto fermo della sua vita, forse, è il suo cane Roscoe, fedele compagno di avventure sguinzagliato ai quattro venti sui social network..
Roscoe Birthday Bash comes to an end... Or does it? 😭😂😭 #RoscoeHam #bestdogs snapchat: lewishamilton
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— Lewis Hamilton (@LewisHamilton) 25 Ottobre 2015
Il 2015 di Lewis è stato da questo punto di vista mediaticamente espostissimo. Prima i flirt con Rihanna, poi le foto al Carnevale e infine qualche goliardata come lo scatto insieme alle ragazze del podio di Sochi. Hamilton attualmente incarna la figura del pilota d'altri tempi, ricco e circondato da donne bellissime, costantemente consapevole di far parte di un circolo esclusivo nel quale le due attività principali sono correre e divertirsi.
Non siamo ai livelli di James Hunt, ma se Hunt fosse stato un suo collega in questi anni avrebbero certamente condiviso il palcoscenico come due pavoni in cerca di altra fortuna.
— Lewis Hamilton (@LewisHamilton) 23 Ottobre 2015
Come ha sostenuto l'organizzatore del GP di Austin, Bobby Epstein, Hamilton è il prototipo del personaggio che fa la fortuna del suo sport. Con le sue imprese in pista da assoluto vincente e con il suo comportamento fuori dalla pista, un po' eccentrico – ricordiamoci le catenone d'oro! - rispetto al resto della ciurma della F1,
Hamilton diventa il maggior esponente dell'immagine del Circus soprattutto in Paesi come gli Stati Uniti, dove è fondamentale creare dei personaggi per mantenere vivo l'interesse. “Un ragazzo straordinariamente spendibile sul piano del marketing” è la frase di Epstein più significativa, e di certo Lewis lo sa.
Articolo a cura di Samuele Prosino
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