mercoledì 21 ottobre 2015

Guanjun

Si dice così "campione" in cinese, o almeno credo. Lo è Djokovic, ancor di più dopo l'ennesimo trionfo. Lo sono stati, e lo sono ancora, Nadal e Federer: a Shanghai il termometro del loro attuale stato di salute.

di Federico Principi







Non preoccupatevi, non conosco il cinese ma ho buoni informatori. Appena ho deciso che avrei scritto un pezzo di analisi post-Shanghai ho immediatamente contattato il mio amico linguista di fiducia: mi è stato detto (e se non è corretto prendetevela con lui, io non c'entro niente) che "campione" in senso sportivo, in cinese, si pronuncia proprio "guanjun". Prendendo spunto dai ruffiani ideogrammi che Djokovic disegna sulla telecamera, ho provato anche io ad attribuire una originale definizione al serbo. Guanjun. Un bisillabo che Nole avrà forse ascoltato spesso nelle ultime due settimane in Oriente, chi lo sa.

Va da sé dire che il guanjun del momento stia silenziosamente riscrivendo i record: ha conquistato per la sesta volta Pechino senza aver mai perso un match in carriera nella capitale, e con il Masters 1000 di Shanghai ha superato Federer nella classifica storica di tornei vinti nella categoria dei vecchi Masters Series. Djokovic è contemporaneamente nuovo uomo e nuovo giocatore. Sempre più solo. Ma le vecchie corone tentano di resistergli, in qualche modo.


Un uomo in fuga
L'epoca ciclistica delle fughe solitarie dei campioni sembra ormai tramontata, assorbita nel robotico concetto di lavoro di squadra e maniacale controllo del gruppo attraverso i gregari e le ammiraglie. L'approccio attuale che ha Djokovic nei confronti del tennis è molto simile all'attitudine mostrata da Froome al Tour del 2013, sulla salita del Mont Ventoux. Il serbo si mette in campo e mulinella, senza strappi né violente accelerazioni, consapevole di possedere un ritmo medio assolutamente superiore alla concorrenza.

Di Froome condivide anche l'affinità alla noia che buona parte dell'opinione pubblica ha proposto, incapace di comprendere quanto sia invece esaltante scoprire minuscoli segreti di fabbricazione di un campione di simili dimensioni, sotto tutti gli aspetti: tecnico, fisico e mentale. Nonché assistere alla incessante e martellante catena di montaggio di colpi profondi per lunghezza o stretti per aprirsi il campo, alla capacità di rovesciare immediatamente lo scambio in contrattacco, senza subire la velocità della palla avversaria: un'arte apparentemente invisibile, fruibile da pochi.

Il match andato in scena nella domenica cinese, oltre che rappresentare una delle più brutte e scontate finali Masters 1000 della storia (ex aequo con Nadal-Raonic a Montreal nel 2013), è stato in realtà una corrida. Tanto segnato era il destino di Tsonga che sarebbe perfino potuta balenare in mente l'ipotesi che se non fosse riuscito Nole da solo a sconfiggere il francese (evento quanto mai improbabile), qualcuno sarebbe sceso in campo ad affiancare il numero uno del mondo, assistendolo nell'esecuzione del toro. Per preservare l'ordine naturale del cosmo.

Sostanzialmente la partita finì al primo break di Nadal, nel terzo game.

Ho approfittato della finale, così come dei precedenti turni che hanno visto in campo Djokovic, per cercare principalmente di intravedere qualche impercettibile crepa o insicurezza nella perfetta fabbricazione della macchina da titoli. Quelli che in gergo motoristico vengono definiti come "problemi di affidabilità", le uniche speranze per i gregari (chiamali gregari: Federer, Murray, Nadal, Wawrinka, Nishikori) a cui aggrapparsi per poter strappare qualche singolo successo, magari di spicco o di rilievo, al cospetto del nuovo dittatore. Ho fatto molta fatica.

Non era certo Tsonga il Pokémon più adatto per sfidare il re della palestra, ma Murray ha deciso di eliminarsi da solo mandando in campo in semifinale il suo gemello: identico fisiognomicamente, molto più svogliato, molto più scarso. Ci siamo quindi dovuti accontentare di Cassius Clay per tentare un ultimo disperato assalto alla sorpresa della settimana, rimasta poi in realtà la vittoria di Ramos su Federer della quale riparleremo. Aveva preceduto la finale annunciando intenzioni (sportivamente) bellicose: «Non tirerò che bombe» le apparentemente minacciose dichiarazioni pre-partita del mulatto francese. Si augurava di ripetere il doppio 6-2 con cui aveva prepotentemente estromesso Nole dal Masters 1000 di Toronto dello scorso anno, poi vinto da Tsonga stesso: era però un Djokovic post partum, che avrebbe ceduto perfino a Robredo (rispettabilissimo e pure un mio grande idolo, ma è pur sempre Djokovic contro Robredo sul cemento) la settimana successiva a Cincinnati.

«Il servizio è il colpo su cui si baseranno le sue speranze»: aveva esordito così Elena Pero in telecronaca, tentando disperatamente di trovare qualche appiglio per creare interesse ad una partita della quale avevamo evidentemente tutti già visto le scene conclusive. Soprattutto già al terzo game: doppio break immediato per Djokovic in apertura, con Tsonga assalito dalla classica ansia di chi sa di dover esprimere una prestazione oltre il proprio potenziale per tentare di fare partita pari. Il francese è entrato troppo tardi nella propria dimensione, e non è stato comunque sufficiente.

La finale di Shanghai.

La Pero non aveva effettivamente tutti i torti: considerando le statistiche annuali al servizio, nonostante l'ampia discrepanza di livello e di classifica i numeri erano molto simili. Spiccava una differenza sostanziale: la forbice tra punti vinti con la prima e con la seconda, molto più ampia per il francese. Si sa che Tsonga non sia in possesso di una seconda estremamente velenosa: contro Nadal in semifinale ha servito le seconde palle ad una media oraria molto vicina a quella dello spagnolo, che non è uno specialista del colpo. A questo si aggiunge il fatto che non sembra avere un repertorio di tagli al servizio molto fastidiosi (kick o slice, per intenderci) e tirando le somme la sua seconda palla sia mediamente attaccabile. Niente a che vedere con i TGV lanciati con la prima.

Djokovic ha +15% di punti vinti con la prima rispetto alla seconda, in tutto il 2015. Tsonga allarga la differenza a +24%.

Le statistiche annuali non sono però indicative del rendimento nei singoli match. La qualità dei giocatori affrontati può essere differente a seconda dei tornei scelti o dei sorteggi. I dati possono risultare altalenanti soprattutto prendendo in considerazione giocatori non di primissima fascia, per non dire seconda, soggetti a mutamenti sostanziali tra un primo turno contro Gimeno-Traver o una semifinale contro Murray. Più in linea rimangono invece i numeri, quasi sempre altissimi, dei primi della classe.

Tsonga ha pesantemente sporcato le sue statistiche al servizio nella finale di Shanghai contro Djokovic. C'era da aspettarselo, forse non in questi termini. La percentuale di prime in campo è stata in linea con la media stagionale (64% contro 63%): forse perfino troppo bassa, partendo dal presupposto che contro Djokovic in generale, e per lui in particolare, è un'impresa titanica portare a casa un punto su due, o perfino uno su tre, quando si serve la seconda. Lo stesso Federer a New York non era andato oltre il 46%.

Numeri al servizio della finale cinese.

È andata peggio del previsto sulla seconda palla. I numeri qui sopra dicono che Tsonga ha totalizzato solamente quattro punti: non c'è nella stessa statistica la percentuale reale di punti portati a casa con la seconda, deducibile dal semplice calcolo aritmetico dato dalla somma con i punti in risposta di Nole, sempre sulla seconda di Tsonga. Il risultato finale è che il francese ha uno score del 16%: insufficiente. Sarebbe un dato accettabile con una percentuale di prime in campo aggiratasi intorno all'85% o perfino qualcosa di più, totalmente utopistica.

Statistiche in risposta della finale di Shanghai. A sinistra i numeri di Djokovic, a destra Tsonga.

Questa ultima grafica evidenzia inoltre quello che sarebbe stato un ineluttabile destino: la differenza di punti totali in risposta. Con il 49% Djokovic mette a segno un dato mostruoso per un match di quel livello, e che Tsonga si sia fermato al 17% non sorprende molto. Il francese ha avuto talmente poche possibilità che ha perfino messo a segno un punto in più sulla prima di Djokovic rispetto alla seconda: chiaro segnale di una strada totalmente sbarrata.

Non era dalla risposta che sarebbe passato l'improbabile successo del mulatto di Le Mans, quanto piuttosto nei game di servizio. Tsonga avrebbe dovuto fare il possibile per aumentare al massimo le percentuali di probabilità di successo nei propri turni di battuta. Con una velocità e una resa sulla seconda praticamente nulle, rimanevano due possibili strade: aumentare la percentuale di prime ben oltre il 70% abbassando di poco le velocità, senza confermare i dati abituali di prime in campo (perché quando si sfida Djokovic non c'è niente di abituale). Oppure, in alternativa, scegliere la strada forse preferita al suo istinto: forzare la seconda, sia nelle velocità che nella precisione e nella profondità. Le due prime di Ivanisevic sono forse un'idea di gioco irriproducibile per il francese, ma era comunque il caso di rischiare qualche doppio fallo in più, pur di tentare di avere il gioco in mano anche con la seconda palla. Per lo meno per giocarsela in qualche eventuale tie-break, completamente scongiurato.


Uccidere il mostro
Duole molto sostenere, per chi come il sottoscritto è cresciuto con la perfetta dicotomia del Fedal (fusione dei due cognomi più famosi del tennis), che Djokovic 2015 sia probabilmente il giocatore più vincente dai tempi del Grande Slam di Rod Laver nel 1969. Un successo a Parigi-Bercy andrebbe inoltre a ritoccare il personale record (condiviso attualmente con Nadal 2013) di Masters 1000 vinti in una stagione, in quel caso sei. Sei su nove.

Come già detto prima, la curiosità maggiore che avevo era quella di riuscire a scoprire che cosa in questo momento possa mettere in crisi Djokovic. Quale strada percorrere, con forza e continuità, per metterlo in difficoltà, insinuargli dubbi, sgretolargli qualche certezza acquisita recentemente anche nelle situazioni tattiche o psicologiche che in passato lo avessero tormentato. Oltre il classico e banale "forte e sulle righe" (e in alcuni casi non basta neanche quello), da Shanghai non ho avuto risposte.

Nole è riuscito ancora a migliorare servizio e dritto rispetto alle passate stagioni in cui era già numero uno. Probabilmente anche e soprattutto l'incremento di autostima ha contribuito a facilitare la scioltezza e la velocità delle esecuzioni: non sempre in passato il serbo dava estrema continuità ai propri picchi di rendimento. La stessa finale del Roland Garros di quest'anno è stata probabilmente una piccola, sportivamente drammatica, ricaduta in qualche incertezza del passato. Il braccio, sul dritto, non andava veloce e con esso neanche la palla a seguito dell'impatto. Ma è rimasto sostanzialmente un unicum di una stagione in cui mente e corpo sono andati in automatico.

Esattamente un anno fa, nella finale di Pechino contro Berdych, Djokovic ha avuto sul proprio servizio la palla per chiudere il doppio 6-0. Non ha sicuramente messo su quella palla la stessa cattiveria che avrebbe sul 6-5, avendo poi ceduto il servizio e chiuso 6-2. Il Nole attuale sembra aver dato continuità a quella prestazione talmente inconcepibile da aver spinto lo stesso Berdych a dichiarare di non aver mai affrontato un giocatore di quel livello. Djokovic non strappa più violente accelerazioni, né azzardate smorzate: il suo gioco è composto e lineare, perfettamente equilibrato ed automatico. È talmente rilassato e convinto di sé che non emette più alcun gemito, come aveva invece abituato in passato specialmente nei punti importanti e nelle partite complicate.

VirtuaTennis modalità "facile".

La superficie dura ("cemento" è un'approssimazione giornalistica) è studiata apposta per il serbo, e le due settimane cinesi non hanno fatto altro che confermare l'assoluta inossidabilità del numero uno su questi campi, se non si incarta da solo. La superiorità di Djokovic è talmente evidente da lasciarlo tranquillo e confidente nello scambio, senza la necessità di spostarsi sul dritto e caricare palle medio-lente nella zona centro-sinistra del suo campo: inutile cercare di aggredire e aumentare il volume della pesantezza di palla con il rischio di aprire la zona destra all'avversario. Il rovescio, come ormai da più di un decennio, va da solo ed è più che sufficiente per tenere il palleggio alla velocità media di Nole, che per quasi tutti gli avversari diventa velocità massima.

Trovare qualche zona grigia nella sua ragnatela è pressoché impossibile su questo tipo di superficie. Djokovic è più attaccabile sulla terra, nel momento in cui l'avversario sia in possesso di una pesantezza di palla mediamente maggiore, e decida e soprattutto riesca a impostare il match prevalentemente su questo aspetto. A dispetto infatti di quanti sostengono la superiorità atletica di Nadal sul serbo negli ultimi anni come fattore decisivo per le vittorie nei Roland Garros precedenti all'ultimo, lo spagnolo ha sconfitto Nole soprattutto in fatto di pesantezza di palla: il dritto mancino, in particolare, è riuscito a salire sopra la velocità media dei colpi del serbo, mediamente più alta, anestetizzandoli quel tanto che bastava per rallentarli. Un discorso piuttosto simile si potrebbe trapiantare anche alla finale dell'ultimo Roland Garros, dove Wawrinka è riuscito grazie alle sue palle mediche da 5 kg a tenere lontano Djokovic dal campo, rendendolo molto piccolo. Contributo decisivo fornito anche dall'ansia di Nole per il risultato della carriera e la sfrontatezza dello svizzero, sfavorito e con poco da perdere.

Almeno nel 2014 Nadal non era più superiore atleticamente a Djokovic, anzi. Ma la maggiore pesantezza di palla gli ha consentito di marcare quella differenza decisiva.

Anche sui prati verdi, soprattutto quelli immacolati di inizio torneo dove è più complicato muoversi, Djokovic ha evidenziato qualche piccola crepa. Il dritto in particolar modo, se pressato con attacchi veloci e penetranti, ha mostrato qualche apparentemente impercettibile segnale di debolezza. Nole usa un'impugnatura che viene classificata come "3/4 western": molto aperta, piuttosto estrema, inadatta ad incontrare una palla bassa che su erba è abbastanza frequente. Superfici simili sono però una grande rarità: le palle rimbalzano mediamente più alte e il grip del serbo è assolutamente in linea con gli standard presenti e futuri.


Uccidere il mostro è diventata quindi una grossa impresa. Entrambi gli scenari (su terra ed erba) proposti restano in ogni caso delle situazioni tattiche che nessun avversario è più capace di riprodurre con costanza. Per lo meno quella di cui ci si deve fornire prima di affrontarlo ad armi pari. E la più grande malinconia generata dalla dittatura del serbo è quella di aver creato il forte sospetto che Nadal e Federer siano ormai tramontati: qualcuno, per trovare un valido antagonista, sta già proiettandosi su talenti futuri.


I vecchi re
L'ultima asserzione non trova, chiaramente, molto d'accordo Roger e Rafa. Lo spagnolo in particolare sembra piuttosto in crescita: nonostante la trasferta in Oriente abbia quasi sempre rappresentato il punto più basso delle sue stagioni, era davvero difficile scendere ulteriormente rispetto al livello mostrato per quasi tutto il 2015.

Il fatto che Nadal si sia dichiarato molto soddisfatto della prestazione a seguito del doppio 6-2 incassato da Djokovic a Pechino la dice lunga. Per mesi si è insistito sul calo atletico subito pesantemente da Rafa in quest'ultima stagione, che va però assolutamente sottoposto ad un ancora più marcato cedimento mentale. Perdere un set in cui hai quattro palle consecutive per chiuderlo (Roma 2015 contro Wawrinka) non è ascrivibile a scarsa forma atletica. Perdere due incontri su terra contro Fognini è la stessa cosa. Affossare in rete dritti che negli anni d'oro andavano ad occhi chiusi a baciare le righe, lo è ancora di più. Specialmente nei punti importanti: un tempo il terreno di caccia preferito, da qualche mese il vero problema.

Nadal si è detto soddisfatto dopo una prestazione così. Segno evidente che i suoi standard si siano abbassati.

Non voglio certo giungere alla conclusione che le prestazioni atletiche di Nadal siano vicine a quelle dei tempi migliori e che la questione riguardi esclusivamente la sua psiche. Semplicemente non era sufficiente giustificare le premature sconfitte con una carenza di forma fisica. Vero è che la fiducia va di pari passo con la condizione atletica, ma l'autostima di Nadal era scesa ben al di sotto della soglia consentita dalle sue nuove, inferiori, potenzialità. Credo che Rafa se ne sia accorto: accettando di aver diminuito la cilindrata, sta comunque tentando di ricavare il massimo che il corpo e il braccio gli consentono al momento. Quello che aveva magistralmente spiegato nella sua autobiografia: "Resistere significa accettare. Accettare le cose come sono e non come vorremmo che fossero, e poi guardare oltre, non indietro. Il che significa capire esattamente dove si è e ragionare con freddezza".

Una grafica proposta durante il match di Shanghai contro Wawrinka faceva un'interessante comparazione tra la posizione in campo di Rafa nel momento di colpire durante il torneo cinese con la stessa dell'ultima edizione di Indian Wells. Ne è uscito un ritratto di un maiorchino molto più avanzato e di conseguenza propositivo, capace di colpire perfino il 30% di palle dentro il campo. Lo aveva detto qualche mese fa lo zio Toni: «Nel 2005 Rafa perse a Wimbledon contro Müller registrando tre errori gratuiti. Dovrà essere molto più propositivo, non voglio più vedere una statistica di errori così bassa». Pronto anche un nuovo modello Babolat, Pure Aero, a partire dal 2016: garantirà probabilmente più spin alla palla. Compensando quello che Nadal ha perso, in conseguenza del suo calo di massa muscolare.


Nadal prova a stare più dentro al campo.

Il terzo game del terzo set nella semifinale contro Tsonga è la prova del recupero di autostima dello spagnolo, quasi ai massimi livelli: servendo sotto 0-40, Nadal gioca probabilmente i migliori punti dell'anno. Quando dovrebbe chiudere non riesce invece ad avere la stessa fluidità: l'attacco di dritto sul 5 pari è timido e Tsonga, passandolo, piazza il break. Nonostante una percentuale di prime in campo dell'85% nel solo terzo set, il francese ha servito solo due prime su sei punti (33%) nel game conclusivo. Nadal non è riuscito ad approfittarne come avrebbe invece spietatamente fatto in passato: non è guarito, ma è convalescente.



Parlando di Rafa avrò probabilmente fatto riaffiorare qualche demone recondito nell'inconscio dei tifosi di Federer. Se lo sono ritrovato di fronte al secondo turno (il primo in realtà per lo svizzero) del torneo, sotto forma di Albert Ramos. Un simpaticissimo spagnolo, già noto ovviamente agli appassionati, che ho avuto il piacere di conoscere (essendo io marchigiano) questa estate al Challenger di San Benedetto del Tronto. Uscì dal circolo sudato e con la borsa in spalle, stranamente diretto a farsi la doccia in albergo: una scena estremamente divertente, della quale ho ovviamente approfittato per fare foto e scambiare due chiacchiere veloci. Pur consapevole della sua forza, confermata ai miei occhi dal vivo al "Maggioni", mai mi sarei aspettato di vederlo sconfiggere Federer di prepotenza, a maggior ragione sul duro.


Definire Ramos un clone di Nadal in scala 1:2 sarebbe fin troppo semplicistico, anche in considerazione del fatto che soprattutto i rispettivi dritti mostrano alcune differenze sostanziali. La palla di Ramos è più pulita ma non per questo più efficace, e il movimento più composto rispetto a quello di Rafa (molto più raramente opta per il finale sopra la testa, grande prerogativa del fuoriclasse di Maiorca) gli impedisce di produrre quello spin mortale che sporca notevolmente la palla rendendola però molto più velenosa.


Nonostante questo, Federer ha eccessivamente sofferto quell'accenno di nadalismo che il suo avversario di secondo turno ha voluto a tutti i costi tentare di riprodurre più fedelmente possibile, giustamente. A partire dal servizio, dove gli slice mancini sul rovescio di Roger erano più puntuali dei treni all'epoca del fascismo (o almeno così si dice, chissà se era vero). Fino ad arrivare alla perfetta costruzione del punto con il dritto: Ramos ha giustamente insistito il più possibile sulla diagonale sinistra, come il suo più titolato connazionale ha impeccabilmente fatto per un decennio.



Diagonale sinistra: minuto 0:52.

Ramos ha così spostato Federer in una posizione sempre più vicina al proprio corridoio sinistro. Lo svizzero ha cercato il più possibile di coprire il rovescio e tentare di giocare il dritto anomalo con la chiara intenzione di rovesciare l'inerzia dello scambio. Ma spostandosi verso sinistra, Federer ha aperto qualche varco in più all'intelligentissimo spagnolo, che ha sorpreso Roger con dritti lungolinea anche in punti chiave della partita.


Minuto 10:40: occhio al punteggio. Il punto che in realtà decide la partita è risolto con un dritto lungolinea.

Si è quindi riproposto un problema forse cronico per il vecchio re del tennis: la difficoltà di trovare il giusto timing sul rovescio quando viene pressato proprio da quel lato, e il conseguente pericoloso rallentamento del braccio per evitare errori. In realtà, però, l'atteggiamento più passivo con il rovescio dà più sicurezza all'avversario che riesce con successo a impostare la partita martellando da quel lato. Federer avrebbe dovuto accelerare l'entrata sulla palla, anche a costo di scentrare qualche palla in più, ma senza cadere nella trappola della diagonale sinistra: soprattutto contro un avversario mancino, e per di più in giornata di grazia.

Avrebbe potuto ugualmente vincere la partita, chiaramente, limitando il più possibile queste situazioni quasi irrimediabilmente sfavorevoli e sfruttando tutte le altre abilità di cui dispone. Forse un leggero richiamo di preparazione atletica, in vista del Master, lo ha leggermente contratto nelle gambe. Federer sa che Murray sarà quasi sicuramente assente, con vista sulla Coppa Davis, e sa che i campi indoor sono probabilmente il miglior terreno su cui giocare le proprie carte. Anche contro un Djokovic così: forse per l'ultima volta.


Articolo a cura di Federico Principi

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