Il giovane Blengini ha davanti a sè il difficile compito di mutare sistemi di allenamento ed approccio alla competizione di un gruppo che ha bisogno di essere rivoltato come un calzino.
di Paolo Bignardi
Che l’era di Mauro Berruto come CT della nazionale di pallavolo maschile fosse al capolinea lo si poteva evincere da tempo.
Tanti segnali negativi in quest’ultimo anno lasciavano presumere un ambiente tutt’altro che sereno nel quale le redini della carrozza erano sfuggite dalle mani dell’allenatore (in ordine sparso: l’esclusione di Juantorena dopo l’addio di Savani mai giustificata, l’accantonamento di ottimi elementi come Falaschi, Baranowicz o Rossini e dulcis in fundo la “cacciata” dei 4 nottambuli a Rio), ma la cosa tecnicamente più grave sono state le batoste ripetute a partire dalla fase finale della World League 2014, passando per il disastroso 13º posto al mondiale polacco, fino alle prestazioni altalenanti dell’ultima World League 2015. Nel mezzo, una serie di figuracce storiche rimediate contro squadre di dubbio valore come Australia e Porto Rico.
Ora, dopo le dimissioni di Berruto, l’incarico è stato affidato al giovane allenatore Gianlorenzo Blengini, reduce da un’eccellente stagione a Latina nella quale ha raggiunto un’inaspettata semifinale scudetto, dopo anni di gavetta prima sotto Julio Velasco e in seguito il suddetto Berruto.
Blengini è chiamato a fare un lavoro tutt’altro che facile, prima di tutto dal punto di vista tecnico: chi ha seguito le partite nell’ultimo anno sa che questa nazionale era fondamentalmente male allenata: la copertura del campo ha lasciato alquanto a desiderare, la coordinazione muro-difesa praticamente inesistente, il gioco offensivo tutt’altro che imprevedibile. Premettendo che in questo momento storico, la nazionale italiana non è certo la più forte al mondo, il potenziale per fare comunque molto meglio di quello che si è visto nell’ultimo anno c’è eccome, e vedremo se il giovane Blengini sarà in grado di generare il giusto amalgama onde incastrare al meglio tutte le differenti individualità e dare una solida identità di gioco ad un gruppo di giocatori che, fino ad oggi, non hanno reso in nazionale quanto invece rendono nelle squadre di club.
Tuttavia, sembra strano affermarlo, ma il discorso tecnico in questo gruppo potrebbe essere secondario, ipotizzando che il più grande limite che freni lo sviluppo della nazionale italiana sia fondamentalmente mentale, legato a questioni non tecniche.
Molti pallavolisti della generazione di fenomeni, in primis Lorenzo Bernardi e Andrea Zorzi, hanno denunciato un pessimo approccio all'agonismo da parte dei pallavolisti italiani e, allargando il discorso, agli addetti ai lavori della nostra pallavolo.
Facciamo un passo indietro, ricordate l’espressione coniata da Julio Velasco chiamata "Cultura degli alibi"? Egli era solito denunciare l'approccio sbagliato (e perdente) che trovò nella pallavolo italiana quando negli anni '80 cominciò la sua carriera da allenatore nel nostro paese. Parlando di "Cultura degli alibi", Velasco alludeva all'atteggiamento rassegnato degli italiani di fronte al cinquantennio senza vittorie da parte della loro nazionale: in molte conferenze, articoli e libri, Velasco racconta l’abuso di scuse (=alibi) utilizzati come giustificazione che possiamo così elencare in sintesi: ci sono quelle più buffe "Caro Julio purtroppo in Italia non c'è educazione fisica nelle scuole", alle più assurde "Caro Julio purtroppo la pallavolo è uno sport di concentrazione, noi latini siamo creativi quindi solo chi viene dall'Europa dell'Est può praticare questo sport ad alti livelli mentre noi siamo ontologicamente condannati a rimanere nell'anonimato", passando per lo schiacciatore che si lamentava con l'alzatore perché alzava male la palla e all'alzatore che si arrabbiava col ricevitore. Ovviamente era un pessimo circolo vizioso si alimentava.
Il coach argentino era riuscito ad estirpare questa mentalità infarcita di alibi, secondo cui la "colpa è di tutti tranne che mia se non si vince", aprendo le porte al magico decennio della generazione dei fenomeni degli anni ’90: il succo della rivoluzione di Velasco è sintetizzabile con l’accettazione dei propri limiti e difetti, della presa di petto della realtà per quello che è (e non invece come vorremmo che fosse), senza mai rassegnarsi ad essa o trovare colpe esterne, ma cercando di mutarla col duro lavoro in palestra e lo spirito di squadra. Ebbene, sotto la gestione Berruto e in Italia in generale, come Bernardi e Zorzi denunciano, il male ancestrale della Cultura degli alibi è stato riesumato: Mr secolo Bernardi parla dell’eccessivo e ridondante sfruttamento della pallavolo come uno "sport differente", imbastito di tanti bei convegni e aforismi sulla filosofia applicata allo sport, come se la pallavolo avesse un’aurea di sacralità che la eleva su tutti gli altri e che per questo possa arrogarsi l’esclusiva di diffondere bontà d’animo ed amicizia tra i ragazzi, ma come dice Bernardi: <<Nella pallavolo italiana ormai si scrivono tanti libri, si dicono belle frasi. Io invece non mi faccio abbagliare dalle belle frasi, ma da un’alzata di Bruninho o da un ace di Juantorena>>.
Qui emerge chiaramente la problematica su cui Bernardi invita a lavorare: meno filosofia, più lavoro fisico-tecnico. Zorzi invece, sempre intervistato dalla Gazzetta dello Sport, attacca l’atteggiamento passivo e rassegnato degli azzurri nelle varie competizioni in cui hanno centrato piazzamenti negli ultimi anni: nella fattispecie denuncia i sorrisi e l’atmosfera goliardica degli azzurri sul podio della World League 2014 disputata in casa, nella quale abbiamo centrato il bronzo nonostante fosse lecito da parte dei tifosi aspettarsi di più. Anche a Londra 2012, Berruto dichiarò che il bronzo era il massimo risultato centrabile, oppure si guardi come giocatori e staff tecnico hanno festeggiato a seguito della vittoria nel Foro Italico contro il Brasile un paio di mesi fa (giro del campo, ovazioni mistiche di Zaystev che arringa la folla col microfono in mano, foto glamour e selfie che vanno avanti per i 2 giorni successivi manco fosse una vittoria olimpica). Questa è la Cultura degli alibi: "gli altri sono più forti, quindi un oro non potremo mai vincerlo e tanto vale esultare per i piazzamenti". Eppure Velasco insegnava che non si esulta mai per medaglie che non siano dorate. Zorzi stesso nell’intervista sottolinea che se il suo allenatore gli avesse detto che il bronzo era il massimo a cui si poteva aspirare, lui si sarebbe sentito gravemente offeso. Ecco qui è tutto spiegato, è questo che Blengini deve fare: cancellare dai nostri pallavolisti la cultura degli alibi, la mentalità perdente che ha ridimensionato e provincializzato la pallavolo italiana, in primis la nazionale di pallavolo maschile. Buon lavoro quindi a Blengini, augurandoci riesca in questo difficile compiti, ma soprattutto ci auguriamo che egli sia consapevole del problema, perché molti suoi colleghi addetti ai lavori probabilmente ancora non lo sono. Ascolti Bernardi e ascolti Zorzi, prendendo la realtà di petto per quella che è, primo passo per accettare che il problema esiste e delinearne le soluzioni.
Articolo a cura di Paolo Bignardi
Nessun commento:
Posta un commento