sabato 8 agosto 2015

Fuckin’ Kiwi!

#111: bastava questo nella SBK degli anni ’90 per capire di che pazzoide you are talkin’ about.

di Leo Kevin Fisher






Se fosse stato calciatore sarebbe stato Cantona, se fosse stato cestista Chris "The Birdman" Andersen, se fosse stato uno di cultura sarebbe stato Vittorio Sgarbi, se fosse stato un pilota sarebbe stato Aaron Tony Slight. “Slightly (un poco, pochino in inglese) non mi si addice un cazzo".


Se sei di sangue inglese nel mondo del motosport, te la cavi egregiamente per natura, perché oltre a pascolare e sfondarti di birra, per le distese eterne dell’Inner Australia o nel Kent, corri. Su due tre quattro cinque sei ruote, tutte quelle che hai a disposizione insomma, basta che corri. Fast. Flat track, cross, pista, sgomme, polvere o tarmac, british humor e bastardate, questo vuol dire essere un brit corridore. Poi se Dio ti toglie qualche rotella e ti regala il dono di fottertene dei limiti umani, c’è il rischio che diventi un Fogary, un Bayless, un Martin, un Bostrom, un Crutchlow.

Tutta gente che in un modo o nell’altro è chi senza dita, chi senza la funzionalità di una gamba, chi senza un minimo di raziocinio. Tutti però con quel maledetto sangue british. Fa strano ma tutti i britannici hanno quella doppia anima folle, gente che non rinuncia per nulla al mondo del the con il latte alle 5 in punto, ma è capace di creare corse folli come la NorthWest od il celebre Tourist Trophy, la più mostruosa corsa stradale al mondo, un circuito da 17 minuti dove si va a 200 di media, altro che La Mecca: ogni motociclista vorrebbe pellegrinare e morire tra la esse Creg-ny-Baa ed il Sulby Bridge, e se non sai di che sto parlando guardati Amici ed esci da sto pub, sincero e fumoso come un vero pub britannico deve essere. Poi i figli della Queen son capaci di partorire gente come i piloti sopracitati, gente che dominava in lungo in largo il Campionato del Mondo Superbike, le moto derivate di serie pompate all’inverosimile, la serie B della MotoGP secondo molti, e non a torto secondo la restante parte. Ma a differenza dei prototipi qui c’è gente che le rotelle della bici le ha perse in culla ed ha gli occhi di Dottor Jekyll e Mr. Hyde, cari padri di famiglia e bastardi senza gloria in pista.

Negli anni ’80 ci fu dapprima la creazione e poi l’esplosione del fenomeno Superbike attorno al decennio successivo,  grazie all’idea di moto comprabili da chiunque avesse qualche milione in banca e guidate da idioti che passavano la sera prima ad ubriacarsi nei pub. Tipo il meccanico sotto casa. I piloti sono anche questi, eroi moderni, cavalieri senza macchia né paura, indomiti ma tremendamente uomini.

Aaron, Tony come secondo nome sennò la mamma si sarebbe arrabbiata, cresce e pasce in una tranquilla cittadina neozelandese nei pressi della capitale Wellington, che non ci frega sapere come si chiama. Nasce alla fine degli anni ’60, quando l’odio per i vicini aussie era forte e “[…] quando giri per il mondo tutti strabuzzano gli occhi per via del passaporto che esibisci. Parlo inglese meglio di te, coglione”. Neozelandese puro. Il 99% della popolazione mondiale manco sapeva dove stava la Nuova Zelanda. Erano passati appena 20 anni dall’indipendenza dalla Regina e tutto scorreva felice e sereno.

Una delle posizioni preferite nei primi anni di corse. Anche nei secondi.
Sarà l’aria di mare, il sangue pazzo inglese, l’odore di olio bruciato che inonda quel continente negli anni ’80, ma  Aaron poco più che 14enne ha già una moto sotto il culo. E quello che sorprende subito tutti, genitori compresi, è che il ragazzo va tremendamente forte. È un idiota.

Ma non idiozia alla Balotelli, allo sciocco sbruffone onnipotente, ma quella sana pazzia che fa muovere il cuore verso quei 12 mila giri al minuto che fa battere il motore sotto di te, quella follia che fa innamorare gli spettatori, che fa sudare le mani e perdere i capelli dopo la millesima volta che ci si toglie il casco.

L’amore per le moto, per quell’essere libero, per Aaron è viscerale. Non si ferma, scorre forte nelle vene e pulsa sulle tempie. Tanto che nel 1991 vince e domina il Campionato Australiano e Pan-Pacifico di SBK dopo aver già debuttato nel 1989 nel circus principale, il World Superbike Championship appunto.

Nel 1988 interpreta un cameo in nel mondiale 250 con un cesso di Yamaha TZ nel GP del Giappone, non arrivando al traguardo. Nella stessa stagione, sempre stesso luogo, debutta in SBK con una Bimota e tra piroette e parolacce arriva 7° in gara 1 e 14° in gara due. Si comincia a capire che quel ragazzino che fa le impennate per il paddock e fa la grigliata tra i motorhome, ha qualcosa di speciale.

Nel 1989 debutta sul serio, moto che usa nel campionato aussie e tanta grinta, prima ad Oran Park (fa 5° e 6°) e poi sul circuto di Manfeild in Australia.
Gara 1: secondo. Oh ma quando va forte.
Gara 2: vedi foto sopra. Oh ma quanto è scemo.
Fino al 1991 la Kawasaki Asia lo prende per fargli fare le trasferte asiatiche (tre gare), poi arriva il contratto. Da pilota serio, insomma con le moto che vanno forte. 


Prima gara, Albacete, Spagna. Indovinate un po’ come va a finire.

Gara 1, vince. Gara due, si stende. A noi piace così, Aaron.

Ma corriamo veloci. Il ragazzo va forte, lo vuole la Honda. Il che vuol dire che è come giocare per il Real Madrid.

Erano gli anni di Carl Fogarty, Troy Corser, Simon Crafar, Anthony Gobert, John Kocinski, Doug Chandler, Colin Edwards, Frankie Chili, Aki Yanagawa, potrei andar avanti righe e righe, sempre con quel senso che impasta la lingua, e non è droga, è il senso di quello che non c’è più, di risse finite le gare, di piloti che son prima uomini poi fottuti pazzi che il fine settimana corrono e durante la settimana lavorano in officina o nei fienili. Gente che se deve dirti "Asshole" non passa per un comunicato stampa o per twitter, ma ti aspetta conclusa la sessione con due birre in mano e due pugni pronti. Casomai fossi astemio.

Aaron era tra i più romantici dei simboli di quei decenni, vuoi per la cresta ossigenata, vuoi per quel numero che nessuno prima d’ora aveva usato, quel 111, scavallare il 99, follia. Vuoi per i sorpassi, vuoi per la schiettezza, vuoi per le palle cubiche, il casco con la bandiera a scacchi, sia mai che si dimenticasse l'obiettivo.

Tra il 1992 ed il 2000 è uno dei protagonisti del Mondiale Superbike, se non si spalma come il burro di arachidi sull’asfalto, arriva terzo. O secondo. O primo.


16 febbraio 2000, durante un test "del cazzo"  in vista dell'inizio della stagione, viene colpito da un malore improvviso. Parcheggia la sua Honda RC45. Recatosi in ospedale per accertamenti gli viene diagnosticato un aneurisma cerebrale con conseguente emorragia al cervello.
<<Io sinceramente non ci capivo più nulla. Di fatti potevo morire. Ma ho preferito cercare di metterglielo nel culo a quello stronzo di Carl [Fogarty, suo principale avversario per oltre 8 anni]>> avrebbe detto dopo solo dodici settimane dopo l’operazione. Non era idoneo per correre per tutta la stagione.

L’11 maggio 2000 era già in moto. Nel mondiale. <<Fottuto Kiwi, non vuol mollare. Meglio così>>, apostrofa Carl. Chissà magari ci scappa anche la sua storia.

E’ labile il confine tra follia e amore, forse è da pazzi comprenderla appieno. A fine stagione si ritira, <<ho fatto una cagata mi sa (ride)>>. A 34 anni non può più correre in moto.

La gente lo ama perché non ha mai vinto un mondiale, ma ha parlato sempre sporco, senza giri di parole, ha girato sempre forte, non ha mai trovato scuse, ha trasmesso quella viscerale passione a migliaia di persone in tutto il globo. Perché è l’eterno secondo che in verità è sempre stato il primo.

E’ inserito nell’Hall Of Fame della WSBK, in 229 gare disputate con 13 vittorie, 87 podi, 26 fastest laps e 8 poles.

Ah, non ditelo ai medici, ma a quasi 50 anni le suona ancora su qualche circuito in giro per l’Australia. Casomai vediate un #111 meglio che vi spostiate, sennò moglie e figli s’incazzano. D’altronde, son della stessa pasta.

Aaron Troy Slight.




Articolo a cura di Leo Kevin Fisher

Nessun commento:

Posta un commento